Globalizzazione è imperialismo

È stato Romano Prodi a dire: o noi dimostriamo con i fatti che la globalizzazione è al servizio di tutti, oppure nello spirito di tanta gente quella parola sostituirà “colonizzazione”. Dunque a preoccuparsi sono in molti. E dato che ci si chiede se tra globalizzazione e colonizzazione non ci sia qualche parentela – in un contesto internazionale non più bipolare, con gli stati nazionali in crisi e con gli Usa che non sanno, o non vogliono , esercitare un governo mondiale – io ricorro a un vecchio concetto, quello di imperialismo. Da quando è scomparsa l’URSS, viene evocato solo da frange estremistiche e irrilevanti; ma a me pare di attualità. Ne prendo spunto per esprimere un preciso timore: che riemerga il pericolo di guerre, non solo locali. Il professor Domenico Siniscalco, che è uomo accorto e anche autoironico, ha scritto: Naturalmente la globalizzazione non è nemmeno l’economia del dottor Pangloss di Voltaire, o il migliore dei mondi possibili (Global, febbraio 2000). Allora finiamola con le apologie della globalizzazione intesa come marcia trionfale del benessere universale. Ma non pensiamo neppure che il fallimento del Millennium Round sia la pietra tombale della globalizzazione. Seattle è stato solo un incidente, e neppure il più grave, in cui può incorrere il contrastato processo di accelerata e pervasiva unificazione dei mercati. E sui possibili incidenti di percorso non resisto alla tentazione di citare le conclusioni di una lettura di Tommaso Padoa Schioppa, tenuta a Bologna il 7 novembre (vi ricorda qualcosa questa data? Una famosa rivoluzione, per caso?) del 1998. Diceva Padoa Schioppa: Nel 1914 l’Europa aveva alle spalle cent’anni di pace ininterrotta, pareva unita; si circolava senza passaporto e il regime aureo dava un’unione monetaria. Le persone che allora avevano la mia età pensavano che l’era delle guerre fosse finita, come lo pensano già oggi molti trentenni. Chi ha visto, anche se da bambino piccolo, le case sventrate dai bombardamenti e i soldati tedeschi o americani nelle strade e nelle case sa che non è così. L’Unione europea è opera incompiuta. Il rischio grande che essa corre è che le giovani generazioni non se ne rendono conto. Occorre allora che, nel mostrare ai giovani di oggi la lunga strada percorsa in cinquant’anni, si indichi l’incompiutezza dell’opera e ciò che a loro resta da fare. Perché essi non abbiano un amaro risveglio in un nuovo 1914. Questo richiamo al 1914 da parte di uno dei massimi dirigenti della Banca centrale europea mi colpisce assai più che l’incidente di Seattle. Ma discutendo di globalizzazione a me pare che occorra innanzitutto sgombrare il campo dalla disputa tra chi è a favore e chi contro : la globalizzazione c’è e non è cominciata ieri. Opportunamente Siniscalco richiama il saggio di Braudel su Espansione europea e capitalismo tra il 1450 e il 1650. Forzando un po’, direi che la globalizzazione c’era già al tempi dell’Impero romano, quando c’erano il denaro, il diritto e i contratti capitalistici fondamentali, le navi e le strade. Per tornare a tempi più recenti, ritengo che un importante saggio sulla globalizzazione sia L’imperialismo , fase suprema del capitalismo del dimenticato Lenin, scritto proprio durante una fase di crescente interdipendenza economica mondiale che si concluse con una guerra, e con la rivoluzione di cui sopra. Torna d’attualità la polemica di Lenin contro la concezione del “superimperialismo” di Hilferding, che sarebbe il corrispettivo degli attuali luoghi comuni a proposito del “pensiero unico” o sull’incontestabile dominio delle multinazionali. Non siamo davanti ad un meccanismo compatto che tutto riesce a soggiogare. La mia tesi è diversa da quella di Ramonet: è , in breve, che il capitalismo è incapace di governare la globalizzazione. Da qui vengono i pericoli che temo. Ha scritto l’economista Marcello De Cecco: Fino a quando il mondo era diviso in blocchi, gli Stati Uniti si sono in qualche modo preoccupati degli effetti della loro politica economica sul resto del mondo occidentale. Ma, a partire dalla scomparsa dell’URSS e della riunificazione tedesca questa visione del mondo è stata definitivamente scartata. Gli Stati Uniti ora badano a se stessi e al proprio benessere, e non sembrano avere alcuna preoccupazione per gli effetti negativi che le loro politiche economiche possono avere sul resto del mondo. Se ragioniamo su questa incapacità o non volontà degli Usa di esercitare un governo mondiale, il quadro non è affatto confortante; tanto più se mettiamo in conto le innovazioni tecnologiche e la crescita demografica. Pensare a un processo di globalizzazione sul quale non agiscano le politiche, gli interessi di Paesi e gruppi finanziari, i rapporti di forza, equivale a chiudere gli occhi e rassegnarsi al peggio. A questo proposito c’è un passaggio dell’articolo di Siniscalco che inevitabilmente richiama alla memoria proprio il buon dottor Pangloss. È quando scrive: I flussi globali sopra richiamati costituiscono un grande meccanismo di compensazione che genera convergenze ed equilibrio tra regioni e aree diverse. O, ancora, quando aggiunge che i risparmi del mondo industriale possono finanziare i fabbisogni di investimenti e lo sviluppo dei Paesi emergenti. Empiricamente non mi pare che le cose vadano in questo modo e che invece le differenze si accrescano; che il numero dei poveri si accresca anche nei Paesi industrializzati. Quanto al flusso di capitali, quello che Thomas Friedman chiama allegramente “gregge elettronico” è stato già paragonato, non da me, piuttosto a una mandria di bisonti capace di scompaginarsi e fuggire in disordine per improvvisi cambi di umore, lasciando il deserto dietro sé. Tra le tante memorie cancellate ci sono anche – e non è buono – gli insegnamenti di Myrdal, Tinbergen, Ohlin, Perroux sugli effetti cumulativi delle diseguaglianze economiche nelle situazioni di liberalizzazione degli scambi e di apertura dei mercati. Insomma quel che nel linguaggio popolare si esprime con “i denari fanno denari, e i pidocchi fanno pidocchi”. Vorrei aggiungere che perfino la utile e generosa cancellazione dei debiti dei Paesi poveri è un modo antico di finanziare le imprese metropolitane. Per concludere mi sembra sbagliato, oltre che inane, dire che occorre bloccare la globalizzazione; perché la globalizzazione potrà essere interrotta solo dall’esplodere di gravi crisi o di guerre. Si tratta di governarla e su questo, a parole, siamo tutti d’accordo. Ma come? La mia domanda è se si può governare la globalizzazione senza cambiare qualcosa (è una antica fissazione della mia vecchia sinistra) nel funzionamento delle economie dei Paesi centrali. Io credo di no. Ho scarsa fiducia nel “governo mondiale” e, sommessamente, penso che il capitalismo sia ancora da superare.

* Global, febbraio 2000. Questo intervento è pubblicato con l’autorizzazione dell’autore.