Imperialismo ed ecosistema

“E’ troppo facile, a guerra finita,

sbraitare che è stata l’ultima volta.

Amici borghesi, vi invidio, non vedete

Neppure i vostri cimiteri”

Jacques Brel, 1955

Durante la guerra aggressiva condotta dal mondo occidentale e ricco nei confronti della Jugoslavia, i colpi sono stati diretti soprattutto verso le risorse economiche, gli stabilimenti produttivi, e le fonti di energia. Evidentemente, gli obiettivi del bombardamento andavano ben oltre quello dichiarato della difesa dei diritti umani: i nostri governanti intendevano piegare un paese moderno e sviluppato, e farlo regredire ad un livello da Terzo Mondo. I terribili veleni che sono stati liberati nell’ambiente fanno prefigurare una lenta agonia delle popolazioni balcaniche e del territorio, ben oltre la durata dell’azione militare propriamente detta. Con il bombardamento di impianti chimici e raffinerie sono state immesse nell’aria e nei fiumi grandi concentrazioni di pericolosi cancerogeni quali cloruro di vinile monomero, benzopirene e diossine, e di sostanze pericolose per il sistema respiratorio quali ammoniaca e anidride solforosa. Quest’ultima è anche la principale responsabile del fenomeno delle piogge acide, che degradano le foreste di tutta l’Europa Centrale. Bisogna anche considerare che tutti questi composti procurano danni enormi alla produzione agricola, e si inseriscono nella catena alimentare. Ma l’assoluto spregio per le popolazioni da parte dei paesi della NATO è simboleggiato dall’uso di armi contenenti uranio impoverito, metallo debolmente radioattivo che diventa cancerogeno quando viene inalato, in quanto si fissa per sempre nei polmoni e nelle ossa, agendo lentamente ma inesorabilmente. Il primo conflitto dell’era NATO si prefigura quindi come guerra ecologica. Inoltre, i bombardamenti incessanti da parte degli Stati Uniti e dell’Europa, che per tre mesi dello scorso anno hanno martoriato il territorio balcanico, hanno messo in evidenza la necessità di interpretare gli avvenimenti internazionali oltre la scala locale. Possiamo affermare che gran parte del pubblico non ha gli strumenti conoscitivi ed ideologici adatti a vedere oltre la sfera più interna degli avvenimenti. Questa visione miope si limita alla questione dei nazionalismi (“etnie diverse impregnate di odi atavici non possono convivere”), delle vere o presunte violazioni dei diritti umani (“quanto è cattivo Milosevic”), degli interessi affaristico-elettorali dei leader dei paesi coinvolti nelle guerre (“la Russia bombarda la Cecenia in vista delle prossime elezioni presidenziali”) e ad interpretazioni psicologiche (“gli USA bombardano Bagdad ogni qualvolta torna alla ribalta il sexygate”). Tutte interpretazioni estremamente elementari e semplificate, al punto che ci arrivano anche i giornalisti ed i politicanti. Per chi decide la guerra e la pace, questi aspetti sono del tutto marginali: essi hanno importanza solo per la loro funzione psicologica nei confronti dell’opinione pubblica. Chi è più attento, tuttavia, non ha potuto non estendere la propria visione per lo meno alla scala regionale. Non lo hanno fatto soltanto le “frange estremiste” ed i “pacifisti politicizzati”: questo passo, anzi, è stato compiuto soprattutto dagli strateghi militari, nonché dai settori più attenti del mondo imprenditoriale e della Farnesina (insomma, quelli che amano definirsi “i geopolitici”). Con lo sguardo concentrato sulla scala regionale, la visione cambia radicalmente. I dati di fatto sono l’affermarsi della Turchia come potenza regionale, la retrocessione di una Russia umiliata e costretta a cedere uno dopo l’altro i territori dell’ex-URSS, e l’aggressività economica della Germania riunificata. Emerge così l’importanza fondamentale dei Balcani come luogo di passaggio per le merci, fra la Mitteleuropa e la Turchia così come fra il Caucaso ed il Mediterraneo, e diventa indispensabile prendere in considerazione i vicini pozzi di petrolio del Mar Caspio, per il controllo dei quali è in atto una competizione formidabile che coinvolge stati e grosse imprese petrolifere (si veda, per esempio, Michel Collon, Poker Menteur, Editions EPO, Bruxelles 1998, libro di cui è in corso di preparazione la traduzione italiana). Proprio quest’ultima considerazione sul petrolio dovrebbe portare ad estendere ulteriormente l’orizzonte, dalla sfera regionale a quella mondiale e globale. Purtroppo questo ulteriore passo viene compiuto di rado, ed i fenomeni su questa scala vengono sottovalutati o presentati in forma edulcorata. Eppure essi riguardano argomenti della massima importanza: il commercio mondiale, il debito estero, i flussi migratori, le risorse del pianeta e le materie prime. All’era del bipolarismo e della guerra fredda è succeduta non una fase monopolare, come talvolta fa comodo pensare, bensì un’epoca multipolare, che vede affrontarsi (anche se non ancora sul piano militare, e spesso lontano dai riflettori) colossi come la Cina, l’India, la Russia, l’Europa, e la superpotenza leader degli Stati Uniti. A questi cinque giganti (tutti localizzati nell’emisfero Nord) bisogna poi aggiungere le multinazionali, nonché tutto il Terzo Mondo, che malgrado sia estremamente diviso sta prendendo coscienza della propria forza. Desidero affrontare in particolare la questione delle risorse, e più precisamente dell’energia, traendo spunto dallo studio pubblicato da Alberto Di Fazio e che raccomando a tutti di leggere (A. Di Fazio, “Le connessioni fra la guerra dei Balcani e la crisi energetica prossima ventura”, in Imbrogli di guerra, il libro di “Scienziate e scienziati contro la guerra”, Odradek 1999). Anche limitandoci a questa sola questione, la situazione appare già terrificante. Da una parte, il dato di fatto è che non vengono quasi più scoperti nuovi giacimenti di greggio; e che poiché quelli noti fino ad oggi sono limitati, si prevede che tra dieci anni circa comincerà il lento ed inesorabile declino della produzione di petrolio che ci lascerà “a secco” fra quaranta o cinquanta anni (con conseguente ritorno al carbone). D’altra parte, bisogna cominciare a considerare anche l’aria come una risorsa limitata: non tanto l’aria da respirare quanto quella da inquinare. Il riscaldamento della Terra e la modifica del clima avanzano sotto l’azione dell’effetto serra, ed aprono la strada a disastri spaventosi quali l’innalzamento del livello del mare, l’aumento della frequenza degli uragani, il propagarsi di pericolose epidemie, la desertificazione, lo squilibrio nella produzione agricola, eccetera. Il problema, anche se ignorato dal grande pubblico, è all’ordine del giorno nelle sedi dell’ONU, dove si svolgono aspre negoziazioni sulla necessità di limitare la combustione, responsabile della maggior parte delle emissioni di anidride carbonica. Il processo sotto accusa è proprio quello della produzione di energia.

Sia la fine delle risorse petrolifere sia le limitazioni alle emissioni di anidride carbonica colpiscono al cuore il modello di sviluppo vigente e universalmente celebrato: meno energia, infatti, significa meno PIL, una conseguenza inaccettabile per un sistema basato sull’aumento dei consumi e sulla crescita perenne. Se da un lato la soluzione apparentemente ovvia consiste nella drastica riduzione del tenore di vita e del sistema di mercato in tutti i paesi del mondo (in particolar modo in quelli più ricchi ed avanzati), d’altra parte alcuni potrebbero ingenuamente pensare di potersi “salvare” puntando sulle disuguaglianze e l’esclusione, costringendo altri alla miseria. Questa sembra in effetti essere la politica perseguita dagli Stati Uniti d’America, il che ne spiega la propensione al dominio economico, politico e militare. Le circostanze che favoriscono lo svilupparsi delle guerre sono molteplici: è troppo facile trincerarsi dietro a visioni parziali e slogan semplicistici, quali quello della “guerra etnica” e della “guerra per il petrolio”. Quest’ultimo, in particolare, non ha importanza solo per il suo valore economico, bensì soprattutto per il suo interesse strategico. Le guerre sono fenomeni complessi e sono determinate da una serie di cause che agiscono a diversi livelli, come in un sistema di sfere concentriche: sono le sfere più esterne a determinare il comportamento ai livelli più interni (e raramente il viceversa). La gravità della situazione a livello di fattori globali mette in evidenza la posta in gioco nello scontro fra le potenze.

Di fronte ad essa non vi sono diritti umani che tengano, e per i più forti non possono esserci interventi che meritino di essere presi in considerazione, se non vanno nella direzione della costruzione di una gerarchia totalitaria di nazioni. Concludendo, le guerre moderne sono allo stesso tempo la causa e l’effetto della degradazione dell’ambiente sulla Terra, con la quale sono avvolte in una pericolosa spirale che potrebbe portare la nave ad affondare. In un goffo tentativo di salvaguardarsi dalle crisi ambientali, alcuni stati percepiscono la guerra e l’oppressione come gli unici strumenti utili per la propria sopravvivenza. È indispensabile, oltreché urgente, sensibilizzare il pubblico sulla tematica dei problemi globali, da cui viene accuratamente tenuto all’oscuro. In particolare, bisogna puntare il dito sulla responsabilità del mondo scientifico, che invece di dedicarsi ad un uso più razionale delle risorse e ad una più giusta distribuzione dei frutti del lavoro dell’uomo, fornisce all’Impero le armi e le innovazioni tecnologiche, nonché l’impostazione di pensiero atta a giustificarlo in tutte le sue azioni e malefatte (guerre “necessarie”, “chirurgiche” e “supertecnologiche”). La minaccia per l’Umanità può essere scongiurata soltanto se si prende coscienza del fatto che i problemi vanno affrontati complessivamente e nell’interesse collettivo di tutti gli abitanti del pianeta.