Gli atti di nascita del PCI

Cosa può esservi di più preciso per una rivisitazione di un anniversario, il novantesimo della fondazione del PCd’I, che ricorrere ai documenti ufficiali di quell’atto? Un testo di sapori lontani, con introduzione di Alfonso Leonetti, ha riunito nel 1975 tali materiali [A. Leonetti, Gli atti di nascita del PCI, Savelli, Roma, 1975]. Leonetti è una bella figura di proletario combattente, nel PCI e fuori dallo stesso, morto a Roma nel 1985. Possiamo partire da alcune brevi sottolineature delle sue poche pagine introduttive nelle quali ricorda i fatti che possono esser considerati positivi e quelli che hanno influito negativamente per la formazione del partito. Il contesto storico negli anni dell’immediato primo dopoguerra del Novecento ci spiega il precipitare della situazione politica nella sinistra in Italia e ci serve per giungere a capire accuratamente la spaccatura insanabile, mai più ricucita, tra la parte allora maggioritaria del PSI e la parte minoritaria, comunista. Fenomeni che potevano avere una potenzialità positiva, ad esempio l’occupazione delle fabbriche in Italia settentrionale, vengono a sciogliersi senza risultati di rilievo denunciando la debolezza e la disorganizzazione del movimento di classe, variamente inteso. Un altro esempio: il tentativo insurrezionale in Germania da parte degli spartachisti risoltisi in fallimento. Un avvio potenzialmente positivo ed una riuscita negativa. Curiosamente Leonetti non cita, con nome e cognome, l’uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, anche se adombra quegli assassinii con riferimenti agli spartachisti. Ed ancora: i soviet in Ungheria ed in Baviera, che falliscono alcuni mesi dopo essere nati. Le varie ed altalenanti fasi della guerra tra l’armata rossa ed i Bianchi ed i Polacchi. Leonetti ricostruisce un quadro nazionale ed internazionale che ha dato la stura politica alla nascita del partito comunista in Italia. La moderazione di gran parte della sinistra italiana non è arrivata poi certo al risultato di costruire uno stato più giusto per le masse contadine ed operaie. Le depressioni psicologiche e materiali del dopoguerra non sono state usate politicamente in modo proficuo dalla sinistra, ma dalla destra fascista, dal movimento di Mussolini per prendere il potere. Urto contrastato radicalmente dal gruppo comunista, in formazione. Troppo tardi e troppo poco. Forse anche dall’introduzione di Leonetti si può capire come lo scontro fondamentale nel mondo della sinistra di allora, ma anche ora, a livello mondiale ed in Italia, era quello tra moderazione e radicalismo. Il moderatismo non ha mai portato storicamente che a guai nel movimento della sinistra. Ed ancora, pervicacemente, lo si adopera a piene mani. Anche se in buona fede, la moderazione di fronte all’avversario di classe, porta solo a creare confusione fra le proprie fila e quelle degli alleati. Ed anche se non è utilizzabile per questa ricostruzione storica che stiamo tentando, ricordo un bellissimo testo di Ludovico Geymonat, Contro il moderatismo. Interventi dal 1945 al 1978, (Feltrinelli, Milano, 1978), che dovrebbe servirci come guida per capire l’oggi, e anche per apprezzare ciò che Leonetti ci dice nel lontano 1975, a ottant’anni. La sua introduzione termina con il famosissimo slogan socialismo o barbarie, di luxemburghiana memoria. Un invito a radicalizzare, anche teoreticamente, i problemi della politica.

Appello dell’Internazionale Comunista, agosto 1920

Questo documento rappresenta una sorta di base ideologica di appoggio per i passi successivi. Si svolge a Mosca in quel periodo del ’20 il 2° Congresso della Terza internazionale, sorta subito dopo la prima guerra mondiale, dopo la presa del potere bolscevico proprio per dare continuità al lavoro dell’In ter – nazionale che aveva smesso i suoi lavori alle soglie della guerra. Scioltasi la seconda Internazionale, erano rimasti come livello di raccordo tra i partiti comunisti i soli tentativi di tenere in piedi tale orizzonte da parte delle due conferenze di Zimmerwald e Kienthal, organizzate in Svizzera durante la guerra, ma che non avevano dato effetti duraturi e significativi. La terza Internazionale all’inizio operò in un senso storico di continuità con i due tentativi precedenti, le due Internazionali che erano sorte nell’Ottocento. Questo appello si dimostra molto radicale nelle richieste politiche, nelle pretese di garanzia e di purezza ideologica proprio a causa della realizzazione vittoriosa della rivoluzione d’ottobre, un successo che permetteva di basarsi su una base di sicuro appoggio. Era quindi possibile spingere sul terreno della radicalità nelle richieste che venivano fatte agli altri partiti socialisti e comunisti ed ai nascenti partiti comunisti, in diverse parti del mondo. A Mosca erano presenti in quei mesi rappresentanti del mondo politico di sinistra italiano, per una commissione di studio. Il congresso dell’Internazionale vedeva come rappresentanti ufficiali del PSI, che già erano a Mosca Serrati, Graziadei e Bombacci. Ad essi si aggiunse, sua sponte, Bordiga. L’appello dell’In – ternazionale che esce per l’Italia da quella situazione lancia la parola d’ordine di lottare ad ogni costo contro il riformismo. Attacca anche le persone di Serrati e soci e spinge verso la radicalizzazione delle posizioni di sinistra. Evidentemente proprio per questo fu pubblicato in Italia due mesi dopo la sua stesura in Russia, sull’Ordine nuovo, fondato poco tempo prima da Gramsci, non sull’Avanti! quotidiano del PSI. La messa fra parentesi dell’appello forse voleva dire frenare, facendo leva sulla sua ignoranza da parte delle masse lavoratrici, il fenomeno delle occupazioni delle fabbriche, proprio nel settembre del 1920. Mossa studiata. Così almeno appare anche ad ambienti comunisti esteri. L’Humanité se lo chiede all’inizio di ottobre sulle sue colonne. Il documento precede la formazione della Frazione di Imola, che esce allo scoperto spingendo politicamente i comunisti del PSI verso la formazione di un partito comunista chiaro e distinto dal resto del mondo riformista, a vario titolo, della sinistra italiana [Leonetti, pp. 13-14]. L’Avanti! aveva pubblicato il 21 settembre solo le condizioni generali rispettando le quali si sarebbe potuto aderire all’Internazionale, riservandosi di pubblicare in seguito l’appello della stessa, appositamente steso per l’Italia [Le condizioni di Mosca. Quello che deve essere un Par tito comunista aderente alla Ter za Internazionale, in Avanti!, 21 febbraio 1920, p. 2]. Nell’appello si dice esplicitamente che non occorre sempre coprire il moderatismo dei responsabili dei partiti di sinistra e delle altre organizzazioni di classe: “Il proletariato militante non è affatto interessato a mascherare per mezzo di procedimenti diplomatici e burocratici le colpe e gli errori che commettono le sue organizzazioni” [Leonetti p. 15]. L’appello prosegue precisando che la rivoluzione comunista va fatta e che ogni tentennamento può risultare fatale alla causa del proletariato. Certo la Russia sovietica era sottoposta a pressioni fortissime. Guerra civile, scontro con la Polonia, con l’Intesa, l’alleanza delle nazioni che organizzava militarmente armate bianche contro lo stato rivoluzionario russo: “La Russia soviettista ha dovuto lottare per molto tempo da sola contro tutto il mondo borghese. La rivoluzione proletaria italiana non sarà in ogni caso più sola” [Leonetti p. 17]. Il partito socialista deve pensare che le masse italiane sono pronte per una rivoluzione. L’attendismo non fa altro che favorire gli anarchici e mette il partito a traino delle masse rivoluzionarie. Due errori quindi da superare. Gli anarchici sono considerati, sullo scontro storico tra Bakunin e Marx durante la prima Internazionale, come un raggruppamento politico confusionario, controproducente ed oggettivamente controrivoluzionario. Il partito nella concezione leniniana, e degli altri bolscevichi a lui alleati – in questo caso l’appello era stato steso da Zinov’ev, Bucharin e da Lenin –, doveva guidare le masse, non esserne guidato. Si citano Turati, Modigliani e Pram – po lini come “nemici della rivoluzione”. “Ogni discorso parlamentare, ogni articolo, ogni opuscolo riformista è […] un’arma […] contro il proletariato […]. È impossibile preparare le masse ad una rivoluzione violenta se ci sono nelle proprie file dei nemici della rivoluzione e dei partigiani della pacifica penetrazione del socialismo” [Leonetti p. 19]. Da notare la sottolineatura della violenza rivoluzionaria, tema che ritornerà costante in tutti i documenti che prenderemo in considerazione. L’Internazionale considerava il gruppo parlamentare socialista nella sua essenza come uno dei nemici fondamentali del proletariato. Si è in presenza però non della critica generalizzata del parlamentarismo, ma della critica al parlamentarismo riformista e moderato. La tribuna parlamentare viene descritta come utile per la causa della rivoluzione. Diventa un ostacolo se usata male. Con ciò potremmo anche definire – ed una volta per tutte chiarire – un luogo comune, una moda in uso in alcuni ambienti della “sinistra di classe” che, sulla scorta di alcuni passaggi di Lenin, ma non su un orizzonte completo, ha sempre tacciato di cretinismo ogni momento parlamentare ed istituzionale. Ogni mezzo, dice l’appello, è lecito per portare avanti la causa rivoluzionaria, anche quello istituzionale. Anche il sindacato non si salvava dalle critiche dello scritto. Viene sottolineato come la CGL non avesse riunito alcun congresso da più di sei anni. Il leader sindacale preso come rifermento negativo è D’Aragona, che si trovava proprio a Mosca, mandato dalla Confederazione Generale del Lavoro. Certo, vi era stata la guerra, ma nulla impediva, in assoluto, un congresso per decidere le posizione sindacali da assumere e le indicazioni che lo stesso sindacato avrebbe dovuto dare ai lavoratori. “D’Arargona ed altri riformisti collaborano con la borghesia nelle sue commissioni create dai capitalisti per la lotta contro la rivoluzione” [Leonetti p. 20]. Sul finire dell’elaborato si fa addirittura riferimento alla vicinanza dei sindacati rivoluzionari, anche anarchici, che sono più vicini ai lavoratori che i sindacati riformisti. Insomma, il tasso di capacità rivoluzionaria, quando è elevato, può sempre essere bene e meglio indirizzato. I riformisti invece sono di ostacolo per qualsiasi altra politica. Sono oggettivamente controrivoluzionari. “La eliminazione degli elementi riformisti dal partito e la collaborazione cogli elementi migliori proletari dei sindacalisti e degli anarchici durante la lotta rivoluzionaria, tale è l’attuale nostra divisa” [Leonetti p. 21]. L’appello termina nelle ultime pagine con la riaffermazione del centralismo democratico, con la critica ai riformisti, citati più volte per nome. L’Internazionale entrava nelle questioni del PSI proprio perché questi aveva aderito alla stessa dopo avere sottoscritto ventuno punti, condizioni da assumere per fare parte del’Internazionale stessa. Punti che avrebbero dovuto legarlo a comportamenti politici di classe. Il PSI l’aveva accettato a maggioranza nei suoi organi dirigenti. Il Comitato centrale approvò l’adesione all’Internazionale con una maggioranza di dieci voti contro tre. Nonostante tale decisione nel partito, la parte moderata era preponderante. L’appello del ‘20 allora dichiara di non cercare la quantità a tutti i costi, ma la chiarezza rivoluzionaria e termina dicendo: “Noi non corriamo dietro al numero. Noi non vogliamo avere delle catene ai piedi. Noi non lasceremo entrare i riformisti nelle nostre file” [Leonetti p. 24]. Ed inneggiando alla repubblica soviettista d’Italia, che si augurava si formasse, il documento termina con le firme, in successione, di Zinov’ev, Presidente del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista, di Bucharin e di Lenin, membri del Comitato esecutivo.

Il programma di Milano, 15 ottobre 1920

Il programma in questione scaturisce da una riunione tenuta a Milano dalle varie anime comuniste del PSI. Riprende l’Appello dell’Internazionale, aggiungen – do alle indicazioni colà scritte ciò che di pratico occor – reva fare da subito per formare il Partito comunista. Anche in questo testo appare con precisione il richiamo alla violenza rivoluzionaria: “lotta violenta per l’abbattimento del potere borghese, per la dittatura proletaria, per il regime dei Consigli dei lavoratori” [Leonetti p. 27]. Occorre agire in modo rivoluzionario altrimenti le masse ci scappano e si avvicinano ai gruppi anarchici e ad altri gruppi di sinistra. Ancora una volta la questione è il tempo: fare in fretta. Ed è evidente come la temporalità sia ben soppesata da questi rivoluzionari. L’Appello è di agosto, questo documento è di ottobre, il successivo, di Imola sarà a fine novembre; Livorno il 21 gennaio dell’anno successivo. Pochi mesi per percorrere una strada punteggiata da incontri e momenti significativi. Sei punti politici stringenti, su cui solo il sesto diviso in sottopunti, sette. Ma tutto molto pertinente e diretto. Esempi, il primo punto dice: “Cambiamento del nome del Partito in quello di Partito Comunista d’Italia (Sezione dell’Internazionale Comunista)” ; il terzo: “esclusione dal Partito di tutti gli iscritti e gli organismi i quali si sono dichiarati […] contro il programma comunista”, che – ripeto – viene enunciato seguendo le indicazioni dell’Internazionale di Mosca. Punto a) del sesto articolo: “Preparazione dell’azione insurrezionale del proletariato”; il punto b) vuole la riorganizzazione di ogni gruppo e sindacato in senso comunista. Conquista del sindacato della Confederazione Generale del Lavoro, punto c); lo stesso dicasi per il movimento delle cooperative, punto d); mentre il successivo vuole la partecipazione alle elezioni in senso rivoluzionario e gli ultimi due punti sono indirizzati a rimarcare il controllo da parte del centro del partito sia della propaganda sia dei gruppi giovanili. Una capacità di organizzazione che vuole istaurare il centralismo democratico al posto della dialettica borghese presente nel PSI. Il testo termina con queste parole: “Al lavoro dunque, o compagni, perché trionfi, al di sopra dei falsi sentimentalismi unitari, come di misere questioni di persone, la causa della rivoluzione comunista” [Leonetti, pp. 29-31]. Dal che si ricava, ancora una volta, la scientificità dell’azione comunista sui trascorsi e contemporanei modi di intendere un partito di classe, la sua estrema concretezza al di là di qualsiasi personalismo. Non è per comportamenti che sanno di sentimentalismo, o simili che il socialismo ed il comunismo debbono trionfare, ma per un alto livello di evoluzione storica che si indirizza in quella direzione. È l’abbandono definitivo del romanticismo che aveva contraddistinto i tentativi di sinistra sino ad allora nel paese, PSI compreso. Le firme in calce sono quelle di Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano e Terracini. Nomi che richiamano divisioni e discussioni ed espulsioni successive, ma che sono ora le espressioni delle diverse sensibilità politiche che stavano formando il Pcd’I.

Il convegno e la mozione di Imola, 28-29 novembre 1920

Ad Imola si svolge una sorta di prova generale della scissione del gennaio successivo. In quella cittadina sono presenti diverse anime comuniste. Si va dai torinesi, divisi fra loro, Gramsci per un verso, altri, Parodi e Boero, i quali condividono, ci dice sempre Leonetti nella scheda di presentazione, le tesi gramsciane, ma sono astensionisti. Cioè non vogliono partecipare alle elezioni, ritualità borghese, così come Bordiga prospettava. Sono il ponte tra i bordighisti e i torinesi. Alla fine, la necessità di fare fronte comune verso i riformisti li spinge all’accettazione, come altre frazioni presenti, di una risoluzione radicale che prevedeva pure la partecipazione alle elezioni, seppure in senso rivoluzionario. La mozione presentata ad Imola sarà portata nel congresso di Livorno e viene qui approvata senza ulteriori ripensamenti. I punti cardine della mozione: cambio del nome, incompatibilità con i riformisti, osservanza dei 21 punti richiesti dall’Internazionale per aderire ad essa. Rottura con i sindacati riformisti, partecipazione rivoluzionaria alle elezioni, centralismo democratico. Il documento è firmato “Comitato della Frazione Comunista”, nelle persone di Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano, Repossi, Ter – racini. In pratica, gli stessi di Milano. Accluso vi è un programma sintetico che ricalca i passi oramai noti, e che mette al punto 5: “La guerra mondiale, causata dalle intime insanabili contraddizioni del sistema capitalistico, le quali produssero l’imperialismo moderno, ha aperto la crisi di disgregazione del capitalismo, in cui la lotta di classe non può che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici e il potere degli stati borghesi”. Dichiarazione pesantissima, ma, per i tempi, comprensibile. Il fascismo aveva dato la stura ad un alto livello di violenza prezzolata, al soldo di capitalisti ed agrari. Alla fine del 1920 si era proposto, in sostanza, solo come massa violenta, dato che i risultati delle elezioni politiche del 1919, esattamente un anno prima, alle quali si era presentato, erano stati assolutamente deludenti. Solo 4.795 voti su circa 5 milioni e mezzo di voti validi, perciò, a spanne, meno dello 0,1% . Ma le violenze invece che placarsi si moltiplicavano. È comprensibile dunque il riferimento alla violenza che si legge in ogni documento comunista. Un altro aspetto che potremmo definire oggi curioso, in tempi di gran discutere dei diritti di cittadinanza et similia, è il punto 6 del documento, che recita testualmente “Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato statale borghese e con l’instaurazione dello Stato basato sulla sola classe produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese”. Ed il punto 8: “La necessaria difesa dello Stato proletario, contro tutti i tentativi contro-rivoluzionari può essere assicurata col togliere alla borghesia ed ai partiti avversi alla dittatura proletaria ogni mezzo di agitazione politica, e con l’organizzazione armata del proletariato per respingere gli attacchi interni ed esterni” [Leonetti, pp. 33-40]. Una posizione talmente radicale può fare storcere più di un naso, ma il momento politico e sociale di allora era veramente spinoso. Lo scontro politico si attorcigliava attorno alla questione: chi detiene veramente il potere? E quale possibilità hanno i proletari di concorrere alla lotta di classe per conquistare il potere di Stato?

La scissione di Livorno, 21 gennaio 1921

Si arriva perciò al congresso del PSI ed alla scissione di Livorno con molto recente lavoro organizzativo alle spalle. In quell’assise, dopo sei giorni di aspre discussioni – cito sempre Leonetti – viene votata la mozione che deve guidare il lavoro politico del partito nei prossimi mesi. Si presentano tre mozioni. Quella di Firenze, il centro maggioritario del partito, i cosiddetti comunisti unitari, guidati da Serrati, che entrerà successivamente nel PCd’I, riporta 98.028 voti di delegati, su 172.487. La mozione di Reggio Emilia, il troncone riformista, 14.695. La mozione di Imola, che andrà a costituire il PCd’I, 58.783. Al risultato della votazione Bordiga dichiara dalla tribuna, fuori dalla Terza internazionale la maggioranza del congresso. I delegati che hanno votato la mozione di Imola lasciano la sala intonando l’Internazionale e si riuniscono in un teatro vicino al Goldoni, dove si stava svolgendo il Congresso, il teatro San Marco. La scissione era già stata perciò ben preparata, come abbiamo visto sin dall’Appello dell’Internazionale, dell’agosto dell’anno precedente. La radicalizzazione della divisione politica nella sinistra italiana era un portato delle cose, con lo scontro acutissimo nel paese tra una destra aggressiva, anche se fortemente minoritaria, il fascismo in evoluzione rapidissima, lo stato, nella persona della monarchie e delle classi liberali al potere, impaurite dall’ingrossarsi dei movimenti, gruppi di sinistra e di classe in Italia, la moderazione all’interno di tali ambienti e quindi la necessità di chiarire una politica veramente di opposizione democratica e di classe che sapesse però anche cogliere gli aspetti più rigorosi della lotta antifascista ed anticapitalista. Il vittorioso esito della rivoluzione d’ottobre, la formazione dell’Internazionale comunista in Russia e la nascita, in numerosi paesi, di gruppi e di partiti comunisti – ricordiamo anche, come dato di completezza storica, la vittoria dei comunisti in Mongolia, di lì a qualche mese – davano alla sinistra comunista in Italia quella spinta necessaria per uscire allo scoperto ed organizzarsi autonomamente. Il resto della storia del periodo ci dice anche che neppure la nascita del PCd’I riuscirà a fermare la china fascista dell’Italia liberale e giolittiana. Ma questa è indubbiamente la pagina d’inizio di un percorso ultra decennale che servirà a ricostruire la democrazia nel nostro paese dopo il ventennio fascista, che inizierà proprio l’anno successivo alla formazione del partito comunista. Inizio di una storia nuova, di rottura, che trova il suo avvio ufficiale proprio il 21 gennaio 1921.