Il lungo XX secolo e oltre. Per una storia del capitalismo maturo

“Raccontare la storia del lungo XX secolo consiste in gran parte nel mostrare come e perché il regime di accumulazione statunitense: 1) emerse dai limiti, dalle contraddizioni e dalla crisi del capitalismo del libero scambio della Gran Bretagna come struttura regionale dominante dell’economia-mondo capitalistica; 2) ricostituì l’economia- mondo su basi che resero possibile un’altra tornata di espansione materiale; 3) ha raggiunto la propria maturità e sta forse preparando il terreno per l’emergere di un nuovo regime dominante” (Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, 1994, p. 313)

1. UN SANGUINOSO PASSAGGIO DI TESTIMONE: 1896-1945

1.1. La belle èpoque: 1896-1914

Il XX secolo, da un punto di vista economico, non inizia nel 1900. Hobsbawm lo fa iniziare nel 1914, considerando questa data come il momento che sancisce la fine del “lungo Ottocento”, l’era del trionfo del capitalismo liberale imperniato sul predominio mondiale della Gran Bretagna (Hobsbawm 1987: 9). Arrighi lo retrodata agli anni Settanta dell’Ottocento, probabilmente con maggiore ragione: il sorpasso del prodotto interno lordo statunitense nei confronti di quello britannico avviene in effetti nel 1873. Mi terrò a mezza strada, collocando la data d’inizio del Novecento nel 1896: nell’anno, cioè, in cui finisce la Grande Depressione iniziata nel 1873, e comincia un periodo di forte crescita economica che terminerà solo nel 1914, con lo scoppio della prima guerra mondiale. La Grande Depressione del 1873 è la prima crisi economica realmente mondiale. Non fu contrassegnata da un crollo della produzione, che anzi crebbe in modo impetuoso, al pari del commercio internazionale (Hobsbawm 1987: 41). Si ebbe però, come disse nel 1888 Alfred Marshall, “depressione dei prezzi, depressione degli interessi, depressione dei profitti” (Marshall 1926: 98 sg.). Quando si parla di “depressione dei prezzi” non si adopera un’iperbole: nel periodo 1873-1896 i prezzi in Inghilterra calarono del 40%. Il portato più importante di questo periodo interessa l’economia britannica, in cui si consuma la transizione dalla manifattura alla finanza. Il commercio internazionale non è più imperniato sull’Inghil – terra, che prima faceva la parte del leone sia in termini di importazioni che in termini di esportazioni. Per contro, si assiste al predominio inglese nella finanza, che risulta fondamentale per la stessa bilancia dei pagamenti inglesi: nel 1906-1910, ad esempio, il deficit della bilancia commerciale britannica (-142 milioni sterline) è praticamente compensata dall’attivo nei servizi commerciali e finanziari (+137 milioni). Inoltre la Gran Bretagna riesce ad attrarre gran parte degli investimenti diretti esteri: nel 1914 si dirige verso l’isola addirittura il 44% degli investimenti diretti esteri su scala mondiale. Con la Grande Depressione finisce l’epoca del liberismo. La risposta del capitalismo alla crisi di profittabilità che caratterizza il periodo 1873-96 ha infatti quattro facce: il protezionismo, la concentrazione tra imprese, l’organizzazione scientifica della produzione, e l’imperialismo. Per quanto riguarda il protezionismo, basterà dire che soltanto l’Inghil – terra resta fedele al credo liberista, e non per dogmatismo o astratta fedeltà ai principi: la libertà di commercio era infatti essenziale alla Gran Bretagna, che scambiava manufatti industriali con prodotti primari provenienti dalle colonie e dai territori d’oltremare. Gli altri Paesi, invece, abbracciano politiche protezionistiche. Attraverso di esse, per usare un’efficace espressione di Marx, vengono “fabbricati fabbricanti”: un Paese come la Germania si garantisce in questo modo il mercato interno e al tempo stesso sviluppa le esportazioni. Lo stesso fanno gli Stati Uniti. Per quanto riguarda in particolare la Germania, i risultati sono spettacolari: l’export tedesco passa in 30 anni da meno della metà a più del totale dell’export britannico; nel 1913 le esportazioni tedesche superano quelle inglesi di un terzo nel mondo industriale e del 10% in quello sottosviluppato. I processi di concentrazione tra impre – se in questo periodo investono tanto il settore manifatturiero quanto quello finanziario. La formazione di grandi monopoli si affianca a cartelli e trust tra imprese. Qualche esempio europeo: la Lloyds Bank inghiotte qualcosa come 164 banche, mentre il Con sorzio carboniero del Nordrhein-Westfalen nel 1893 controlla il 90% della produzione di carbone della regione. Negli Stati Uniti la situazione non è diversa, con la Standard Oil che controlla il 90-95% del petrolio raffinato degli USA. In questi anni nascono la “produzione di massa” ed il mercato dei beni di consumo. Una terza risposta è rappresentata dall’organizzazione scientifica della produzione (scientific management). È di questi anni l’introduzione del taylorismo negli Stati Uniti (mentre in Europa sarà introdotto soltanto dopo la prima guerra mondiale). Infine, abbiamo l’imperialismo. A simbolo dell’imperialismo si può assumere, con Hobsbawm, l’affermazione fatta nel 1900 da un funzionario del Dipartimento di Stato Usa, secondo cui “l’espansione territoriale non è che la conseguenza dell’espansione del commercio” (cit. in Hobsbawm 1987: 53). In questi anni si sviluppa in effetti una vera e propria corsa alle colonie, animata da molteplici motivazioni. I territori coloniali vengono acquisiti per trasformarli (in particolare nei casi in cui si ha un capitalismo non d’insediamento) in paesi specializzati in alcuni prodotti primari (in Malesia la gomma e lo stagno, in Brasile il caffè, in Cile i nitrati, in Uruguay la carne). Nelle colonie si vede però anche un serbatoio di manodopera a basso costo, uno sbocco di investimento per i capitali, e anche – sia pure in misura minore – dei mercati potenziali di sbocco per le merci prodotte nei paesi imperialisti. Infine, nelle colonie si scorge una valvola di sicurezza contro la rivoluzione sociale. Al riguardo basteranno le testimonianze citate dal socialista olandese Henri Van Kol in un suo scritto del 1904: “Il presidente degli Stati Uniti dichiarò il 14 giugno 1898 in Senato: «Rivolu – zione sociale o imperialismo: questa è la sola alternativa rimasta!». Cecil Rhodes pensava la stessa cosa, quan – do una sera del 1897, tornando da una manifestazione operaia nei quartieri orientali di Londra, escla – mò: «Per risparmiare una guerra civile a 40 milioni di inglesi, dobbiamo conquistare nuove ter re»” (cit. in Monteleone 1974: 262). In questo periodo si fa sempre più evidente il nesso tra la spartizione del mondo e le rivalità che dividono i Paesi industriali, come pure l’intreccio tra industria e politica. E a quest’ultimo proposito va sottolineato come la tendenza, intrinseca al capitale, ad oltrepassare ogni limite nella sua espansione divenga un fattore esplosivo qualora ad essa si pretenda di informare la politica estera. Cresce il ruolo del governo e del settore pubblico nell’economia, sotto forma di commesse pubbliche sempre più ingenti destinate al settore militare, nel contesto di una vera e propria corsa agli armamenti. Qualche dato: le spese militari della Gran Bretagna passano da 32 milioni di sterline nel 1887 a 77 milioni nel 1913-14; se però si considera la marina militare l’incremento è ancora più evidente: per quanto riguarda la Gran Bretagna si passa dagli 11 milioni del 1885 ad oltre 45 nel 1913/14; in Germania il ritmo di crescita è ancora più rapido: da 90 milioni di marchi nel 1895 a quasi 400 mln nel 1913-14. Il traguardo di questa corsa, come è noto, fu la grande carneficina della prima guerra mondiale.

1.2. LA CRISI DEI TRENT’ANNI: 1914 -1945

Si è parlato, per definire il periodo 1914-1945, di “guerra dei trent’an – ni” (ad analogia della guerra che devastò l’Europa nel Seicento). Si potrebbe a maggior diritto parlare di crisi dei trent’anni. In effetti, in questo periodo, i ritmi di crescita furono estremamente modesti: tra il 1913 e il 1938 negli Usa il prodotto interno lordo crebbe appena dello 0,8% annuo. Sotto il profilo dell’integrazione economica mondiale, si registrò una stagnazione, se non addirittura un regresso: ancora nel 1948, il volume dei traffici internazionali ri- sultò di poco superiore a quello di prima del 1914. Per fare qualche raffronto, basterà dire che nel periodo 1880-1913 era più che raddoppiato, e che tra il 1948 e il 1971 quintuplicherà (Hobsbawm 1994: 110). Questi sono però anche gli anni del definitivo sorpasso degli Stati Uniti sulla Gran Bretagna quale prima potenza economica mondiale. Già dal 1913 gli Usa sono la prima potenza industriale del mondo, esprimendo il 33% della produzione industriale mondiale: poco meno di Gran Bretagna, Germania e Francia messi assieme; nel 1929 il rapporto salirà a 42% contro 28% (Hobsbawm 1994: 120). Al sorpasso è tutt’altro che estranea la prima guerra mondiale. Infatti gli Stati Uniti, che nel 1914 hanno ancora un debito estero di 3,7 miliardi di dollari (Knapp 1957: 433), con la guerra diventano anche il primo creditore del mondo: dapprima forniscono macchinari alla Gran Bretagna, che per pagarli deve liquidare il 25% dei propri investimenti in Usa, per di più a forte sconto; poi, dal 1917, sono gli Stati Uniti a prestare circa 1000 milioni di sterline alla Gran Bretagna: le parti ormai sono invertite, il paese debitore è diventato la Gran Bretagna. Inoltre durante la guerra gli Stati Uniti sostituiscono la Gran Bretagna negli investimenti diretti esteri e nei prestiti in Ame – rica Latina e in parte anche in Asia. Cosicché alla fine della guerra i redditi provenienti dagli investimenti diretti esteri statunitensi compensano i flussi verso l’estero derivanti dagli investimenti stranieri negli Stati Uniti. E in più c’è un avanzo commerciale sempre più cospicuo. Il dollaro ormai si affianca alla sterlina come valuta internazionale di riserva (Arrighi 1994: 353-6). Gli anni dell’immediato dopoguerra iniziano con una ripresa economica. Ma in Europa c’è una sovrapproduzione latente che non tarda a manifestarsi: nel commercio internazionale, negli anni di guerra ai produttori europei si erano sostituiti Usa e Giappone, e inoltre diversi paesi dipendenti avevano iniziato a sviluppare una loro industria (Overy 2007: 84-85). Già nel 1920 prezzi e crescita economica crollano. Qualche paese tenta politiche deflazionistiche di riallineamento (in Europa la Gran Bretagna, in Asia il Giappone). In Germania e nell’Est europeo si assiste invece al crollo del sistema monetario, con un’iperinflazione che termina nel 1922-3, dopo aver distrutto il risparmio e il reddito fisso. In Europa tutti gli anni 20 sono anni di crisi. Anche negli anni di crescita (dal 1924 al 1929) il tasso di disoccupazione fu elevatissimo ovunque: in Gran Bretagna, Germania e Svezia al 10-12%, in Danimarca e Norvegia addirittura al 17-18%. In questi anni soltanto gli Stati Uniti evidenziano una disoccupazione bassa, attestata al 4% (Hobsbawm 1994: 113). Ma non è tutto. L’espansione economica che comunque si registrò in Europa in questi anni era alimentata dal prestito estero: la Germania, in particolare, nel 1928 attrasse quasi il 50% delle esportazioni di capitali su scala mondiale. Gli Usa, dal canto loro, incrementano invece gli investimenti diretti all’estero ad un ritmo impressionante. A fine 1928, però, si verifica un vero e proprio boom di borsa negli Stati Uniti: e ingenti fondi sono quindi dirottati da finanziamenti esterni alla speculazione interna, cosa che contribuisce agli squilibri nell’Europa indebitata con gli Usa. Il 29 ottobre del 1929, il crollo della Borsa di New York dà inizio alla Grande Crisi: per la prima e unica volta le fluttuazioni cicliche sembrano mettere in discussione il sistema capitalistico stesso (abbiamo vissuto qualcosa di simile, ma per poche settimane, tra il settembre e l’ottobre del 2008). Tra i motivi della crisi Eric Hobsbawm cita: 1) una domanda mondiale insufficiente rispetto alla produttività crescente dell’industria: debole in Europa a causa della guerra, e negli stessi Stati Uniti pompata attraverso un’enorme espansione del credito al consumo, a fronte di salari bassi; 2) un sistema bancario indebolito dalla speculazione immobiliare, che aveva raggiunto il suo picco pochi anni prima del 1929; 3) forti squilibri della bilancia dei pagamenti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, con i primi – a differenza di quanto accade oggi – nel ruolo di creditori (Hobsbawm 1994: 123-5). Per John Kenneth Galbraith, oltre agli squilibri nel commercio internazionale, i colpevoli della crisi furono 1) la cattiva distribuzione del reddito; 2) una cattiva struttura societaria (un uso eccessivo della leva finanziaria e dirottamento dei profitti dalle società operative alle holding per ripagare le obbligazioni contratte); 3) una cattiva struttura bancaria (su questo punto per la verità Galbraith è piuttosto cauto, osservando che le pratiche di prestito facile sono spesso state considerate tali a posteriori, ossia sulla base dei fallimenti a catena di imprese che la crisi comportò); 4) feticci economici quali l’ossessione del pareggio del bilancio, la volontà di tenere in piedi a tutti i costi il sistema aureo e di evitare l’inflazione (Galbraith 1954: 167-175). Le conseguenze della crisi furono tremende. Si ebbe una forte recessione in Usa e in Germania: in questi due paesi la produzione industriale segnò un -33% tra il 1929 e il 1931 (ma la contrazione della produzione automobilistica negli Stati Uniti fu addirittura del 50%). Il commercio internazionale crollò, segnando un -60% tra il 1929 e il 1932. Le misure anti-crisi assunte dagli Stati in realtà peggiorarono le cose: barriere doganali, protezionismo (a partire dallo statunitense Hawley-Smoot Act del 1930), e svalutazioni competitive a raffica aggravarono la crisi. Basti pensare che negli Stati Uniti dal 1929 al 1932 si registrò un -70% di importazioni (su una quota del 40% a livello mondiale) e un -70% di esportazioni. Crollarono i prezzi delle materie prime e dei generi di prima necessità: entrarono così in crisi profonda le economie dell’America Latina, ma anche quelle dell’Asia e le economie agricole dell’Europa, quali Ungheria e Finlandia. In qualche caso in questi paesi l’agricoltura regredì ad economia di sussistenza. La disoccupazione assunse proporzioni colossali in tutto il mondo: nel 1932-33 la quota dei senza lavoro era del 22-23% in Gran Bretagna e Belgio, del 24% in Svezia, del 27% negli Usa, del 29% in Austria, del 31% in Norvegia, del 32% in Danimarca e addirittura del 44% in Germania. Anche dopo il 1933 non scende sotto il 16-17% in Gran Bretagna e Svezia, e sotto il 20% negli altri Paesi scandinavi, come pure in Austria e negli Stati Uniti (Hobsbawm 1994: 115). La crisi comportò l’abbandono del sistema aureo e, a partire dal 1931 (per la prima volta dal 1840) l’abbandono della tradizionale politica commerciale liberista anche da parte della Gran Bretagna. Un’eccezione, nel panorama della crisi mondiale, è rappresentata dall’Urss, in cui in questi anni si registra il successo dei piani quinquennali: dal 1929 al 1940 la produzione industriale in Unione Sovietica triplica, salendo dal 5% della produzione manifatturiera mondiale (quota del 1929) al 18% (quota del 1938); negli stessi anni le quote complessive di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna calano dal 59% al 52%. Inoltre, in Urss non vi è disoccupazione (Hobsbawm 1994: 119). Va ricercato anche nei successi dell’economia sovietica il motivo per cui alla Grande Crisi del 1929 negli Stati Uniti si reagì con il New Deal di Roosevelt, mentre la crisi iniziata nel 2007 sembra sinora essersi risolta semplicemente in un colossale caso di socializzazione delle perdite. Va però aggiunto che per l’uscita degli Usa dalla crisi non fu decisivo il New Deal: in effetti, ad una ripresa dopo il 1933 tenne dietro un secondo crollo nel 1937-8. In questi anni il liberismo ortodosso viene abbandonato un po’ ovunque negli stessi Paesi capitalistici: si parla ovunque di “piano” e “pianificazione”; un sintomo dei mutati orientamenti è la diffusione del calcolo del prodotto interno lordo: è l’Urss (assieme al Canada) il primo Paese a calcolarlo, e l’esempio comincia a diffondersi (anche se ancora nel 1939 saranno soltanto 9 i Paesi che avranno introdotto il calcolo di questa grandezza). L’intervento dello Stato nell’economia si esprime in grandi piani di opere pubbliche (in particolare negli Stati Uniti). Ma si esprime soprattutto in piani di riarmo e di guerra. A questo proposito è bene fissare qualche concetto. È in particolare la Germania a destinare a finalità belliche grandi fondi sin dal 1935-6; e in effetti le spese militari furono magna pars degli investimenti pubblici tedeschi, che nel 1936 furono circa il 50% degli investimenti complessivi in Germania (Overy 2007: 98). Già Kalecki ebbe ad osservare che “gli armamenti e gli investimenti statali affini (come la costruzione di strade) stimolarono la congiuntura; furono la via di uscita fascista dalla crisi” (Kalecki 1961: 81). Del resto, non per caso John Maynard Keynes, nella prefazione all’edizione tedesca del 1936 (!) della Teoria generale, aveva sostenuto che le sue idee avrebbero potuto meglio essere applicate nella Germania nazista, “adattandosi assai più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario (totaler Staat) di quanto lo sia la teoria della produzione e distribuzione di un dato output prodotto sotto condizioni di libera concorrenza e di prevalente laissez-faire” (cit. in Schefold 1980: 175, ripreso in Gattei 2001: 53). Fu, ancora, soltanto grazie all’ingresso nella seconda guerra mondiale e alla messa in opera della macchina bellica relativa, e non grazie agli investimenti di Roosevelt in opere pubbliche a carattere civile, che gli USA riuscirono a risollevarsi dalla Grande Crisi degli anni Trenta. Lo ha ribadito, un mese dopo l’11 settembre, il premio Nobel per l’economia Peter North, replicando ad un incauto giornalista che faceva presenti i meriti del keynesismo per l’uscita dalla crisi degli anni Trenta: “Non siamo usciti dalla depressione grazie alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda guerra mon- diale” (North 2001). Le cifre, del resto, parlano da sole. Durante il New Deal rooseveltiano la spesa pubblica civile era cresciuta dai 10,2 miliardi di dollari del 1929 ai 17,5 del 1939. Ciò però non aveva potuto impedire che, nello stesso periodo, il PIL calasse da 104,4 a 91,1 miliardi di dollari, e che la disoccupazione invece salisse dal 3,2% al 17,2% della forza lavoro complessiva. Dal 1939 lo scenario cambia. Il sistema economico è dapprima tonificato dalla vendita di armi agli inglesi ed ai francesi, e poi definitivamente rimesso in carreggiata con l’ingresso diretto degli Stati Uniti in guerra (dicembre 1941). La produzione industriale aumenta del 50%, il prodotto nazionale lordo raddoppia, la disoccupazione viene praticamente azzerata: nel 1944 il tasso di disoccupazione è all’1,2% (Battistelli 1980: 68- 77; Lellouche 1992: 291-2; Ramey, Shapiro 1999). La distruzione di capitale che si realizza nella seconda guerra mondiale, in particolare nei Paesi sul cui territorio la guerra è combattuta, è spaventosa. La guerra comporta le maggiori distruzioni in Urss, dove viene azzerato il 25% delle proprietà esistenti, mentre l’agricoltura va in rovina; di fatto, la guerra vanifica l’industrializzazione dei piani quinquennali e lascia in piedi soltanto una grande industria bellica poco riconvertibile. Anche altrove le distruzioni sono ingenti: in Germania è distrutto il 13% delle proprietà esistenti, in Italia l’8%, in Francia il 7%, in Gran Bretagna il 3% (Hobsbawm 1994: 64-5). Per contro, gli Usa durante la guerra conoscono tassi di sviluppo del 10% annuo (un record assoluto rispetto ai tempi di pace). Non è questa la sede per entrare nel dettaglio delle molteplici funzioni della guerra e sul ruolo che essa ha giocato in relazione all’economia degli Stati Uniti (vedi Burgio, Dinucci, Giacché 2005: 126-139). Ovviamente, perché una guerra risulti economicamente vantaggiosa è essenziale non doverla combattere a casa propria, oltreché vincerla. Come accadde agli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale.

2. TRIONFO E DECLINO DEL CAPITALISMO STATUNITENSE: 1945-2009

2.1. I trenta gloriosi: 1945-1971

Alla fine della seconda guerra mondiale il predominio statunitense è assoluto. Ormai i redditi rivenienti dagli investimenti diretti degli Stati Uniti all’estero sono largamente superiori ai redditi realizzati su investimenti diretti esteri stranieri in Usa: e infatti l’avanzo delle partite correnti risulta superiore all’avanzo commerciale. Non solo: come ha osservato Arrighi, dopo la guerra gli Usa giunsero a godere di un “monopolio virtuale sulla liquidità mondiale”: il 70% delle riserve auree mondiali nel 1947 era infatti nella disponibilità degli Stati Uniti. Quanto al prodotto interno lordo, basterà dire che se nel 1938 il pil Usa era pari a quello complessivo di Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Benelux e tre volte superiore a quello sovietico, nel 1948 è il doppio di quello del primo gruppo di Paesi e addirittura sei volte quello dell’Urss (Woytinsky e Woytinsky 1953: tavv. 185-6). Al termine della seconda guerra mondiale sono diffusi i timori che possa prodursi una crisi postbellica come quella successiva al primo conflitto mondiale. Avviene il contrario, anche grazie all’inizio della guerra fredda (1947). Così, il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa, che era anche una necessità politica (per evitare che in un’Europa immiserita prevalessero orientamenti rivoluzionari), ha due effetti economicamente rilevanti: crea rapidamente un mercato di sbocco per i prodotti americani e consente la rapida ripresa dell’Europa occidentale. Un’ulteriore contributo alla ripresa venne dal riarmo, che si verificò in particolare dalla guerra di Corea (1950-3) in poi (ma i piani di riarmo erano precedenti alla guerra di Corea: vedi Arrighi 1994: 387-8), che manifestò i suoi effetti di lunga durata a tre riguardi: fornì un sostegno alla domanda Usa anche in assenza di un’eccedenza nelle esportazioni; il sostegno militare fornito all’Europa comportò la necessità di ulteriori aiuti all’Europa stessa anche dopo la fine del piano Marshall; la cooperazione a livello militare rafforzò l’integrazione tra l’economia statunitense e quelle europee (Block 1977: 103-4). La “ripresa economica straordinariamente rapida” che caratterizzò il periodo postbellico (e che sarebbe entrata nei libri di storia sotto il titolo di “miracolo economico”) fu favorita anche dall’enorme distruzione di capitale in eccesso avvenuta con la guerra (vedi analisi di Janossy: 1966). In concreto, la guerra eliminò la sovrapproduzione, come pure la popolazione lavoratrice in eccesso. La ripresa, anche in un Paese in ginocchio come la Germania, fu resa possibile non soltanto dagli aiuti statunitensi, ma anche dal fatto che la forza-lavoro, pur quantitativamente ridotta dalla guerra (cosa a cui si sopperì con immigrazione esterna ed interna), era qualitativamente molto valida (Janossy 1966: 85-86). Ulteriori presupposti del periodo di grande crescita economica postbellico furono: il costo bassissimo delle materie prime, a cominciare da quelle energetiche (il petrolio costava 2 dollari al barile); l’intervento statale nell’economia, che diede vita a una forma inedita di economia mista, con elementi di pianificazione (in Francia fu ad esempio introdotto il “Commissariat général du plan”); la ripresa fu rafforzata dallo “Stato del benessere”, grazie al quale si realizzò – per necessità anche politica – un compromesso tra lavoro e capitale adeguato ad un’epoca di crescita, e tale da rafforzarla a sua volta; va infine ricordata, tra i fattori chiave, la notevole crescita del commercio mondiale: basti dire che il commercio di manufatti si moltiplica per venti dal 1953 al 1973. La forte crescita prima dell’economia europea, e poi anche di quella giapponese, porta, nei primi anni Sessanta, ad una situazione di pieno impiego: la disoccupazione scende all’1,5% in Europa, e all’1,3% in Giappone (Van der Wee 1987: 77, cit. in Hobsbawm 1994: 314). Emergono invece crescenti difficoltà – evidenti dagli anni Sessanta – dell’economia statunitense: tra il 1950 e il 1973 solo la Gran Bretagna cresce meno dell’economia Usa (Hobsbawm 1994: 304). In ogni caso, in questo periodo i paesi capitalistici sviluppati presi nel loro insieme esprimono il 75% della produzione mondiale complessiva, e oltre l’80% dell’export di prodotti finiti (Ocse 1979: 18-19). E gli Stati Uniti, più in particolare, nel 1950 possedevano il 60% del capitale sociale di tutti i paesi capitalistici sviluppati e realizzavano il 60% della loro produzione. Nel 1970 le proporzioni erano diminuite, ma pur sempre ragguardevoli: 50% del capitale sociale e quasi il 50% della produzione (Armstrong, Glyn, Harrison 1991: 151). In parallelo alle crescenti difficoltà dell’economia statunitense, scricchiola uno dei pilastri degli accordi di Bretton Woods del 1944, che avevano fornito l’infrastruttura giuridica della ripresa post-bellica: il cosiddetto gold-exchange standard, che prevedeva la convertibilità in oro del dollaro (e solo del dollaro), progressivamente si rivela una finzione. Già negli anni Sessanta la stabilità del sistema monetario internazionale non si basa più sulle riserve di oro degli Usa (insufficienti sin dal 1963 a ripagare i dollari emessi: vedi Arrighi 1994: 394-5), ma sulla disponibilità degli europei a non richiedere l’incasso in oro dei loro dollari. Nel 1968 si scioglie il Consorzio Aureo (associazione di stati per stabilizzare il prezzo dell’oro – allora a 35 dollari l’oncia), e nell’agosto del 1971 il presidente americano Nixon annuncia il formale abbandono unilaterale da parte degli Usa della convertibilità del dollaro in oro. Finisce l’ordine monetario del dopoguerra.

2.2. Crisi del capitalismo e collasso del socialismo sovietico: 1971-1989

In una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey si legge: “nel 1980, il valore complessivo degli asset finanziari a livello mondiale era grosso modo equivalente al PIL mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a livello mondiale (world financial depth), ossia la proporzione di questi asset rispetto al PIL, era del 356%” (Farrell 2008). Se si considerano i soli Stati Uniti, la percentuale a fine 2007 è ancora superiore: 373% (Bellamy Foster, Magdoff 2008). Questi dati, già di per sé, sono sufficienti a dare l’idea delle proporzioni assunte negli ultimi decenni dal credito e dalla finanza. Si è parlato della “finanziarizzazione” del capitale come della “caratteristica assolutamente predominante” del capitalismo in crisi dagli anni Ottanta (Arrighi 1994: 9). All’origine del processo c’è verosimilmente una “sovraccumulazione di capitale rispetto alla domanda inelastica sia di manodopera che di materie prime” (Itoh 1990: 116, cit. in Arrighi 1994: 398) Si tratta di un processo che ha radici lontane, che affondano nella fine degli anni Sessanta, quando cessa il grande periodo di crescita economica postbellica. Già in un testo del 1977 Harry Magdoff e Paul Sweezy scrivevano che con la fine di quel periodo di prosperità “l’economia degli Stati Uniti si è sempre più andata abituando ad un uso continuato del debito. I cicli caratteristici del credito continuano ad alternarsi, ma con una differenza significativa: i livelli del ricorso al credito continuano a crescere da una recessione all’altra e da un massimo di ciclo economico all’altro. In misura sempre maggiore il livello generale di attività economica […] viene sostenuto da sempre maggiori iniezioni di credito da parte del governo e da parte di enti privati” (Magdoff, Sweezy 1977: 190). In parallelo al rallentamento della crescita e all’aumento della leva creditizia, cresce l’instabilità finanziaria. Dalla fine della seconda guerra mondiale al 1968 gli Stati Uniti non avevano conosciuto alcuna crisi finanziaria. Più in generale, nel periodo 1945-1971 nel mondo non vi erano state crisi bancarie (Minsky 1993: 6). Da allora le crisi finanziarie, negli Stati Uniti e nel mondo, si fanno ricorrenti: tra il 1975 e il 1997 il Fondo Monetario ne conterà più di 200 (Burgio 2009: 150). Il 1971 è una data cruciale proprio perché quell’anno, come abbiamo visto, gli Stati Uniti decretano la fine del gold-exchange standard. Però non si va nella direzione che all’epoca auspicava il presidente francese De Gaulle, quella di un ritorno al gold standard, cioè un sistema monetario internazionale ancorato direttamente all’oro. Si imbocca la strada opposta, quella del pure dollar standard: facendo cioè del dollaro una moneta assolutamente fiduciaria. Il dollaro diviene una fiat money, ossia una valuta il cui valore è ormai esplicitamente privato di ogni riferimento alle riserve in oro detenute dalla Federal Reserve, ma che resta, ciò nondimeno, il perno del sistema monetario internazionale. Il mondo comincia ad essere inondato di dollari: erano 30 miliardi nel 1958, supereranno gli 11.000 miliardi nel 2004 (Goldner 2004). Il ruolo del dollaro si consolida a seguito della crisi petrolifera del 1973, in quanto il petrolio, il cui prezzo si impenna, è scambiato in dollari. Da questo momento il dollaro diventa “moneta mondiale” – il ruolo che Marx attribuiva all’oro – e quindi assume anche il ruolo di moneta-rifugio in tutte le tempeste finanziarie che periodicamente scuotono altri paesi, ed in particolare i paesi del Terzo Mondo. Nel 1973-1978 è stampata una grande quantità di dollari. Del resto, come osservò Parboni, per gli Stati Uniti – e solo per loro – “la possibilità di attingere alle risorse del resto del mondo mediante l’emissione della propria moneta è pressoché illimitata” (Parboni 1985: 22). Gli Stati Uniti attuano una politica monetaria espansiva e spingono sul prestito estero. Si cominciano a liberalizzare i movimenti internazionali di capitale e, a partire dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti si comincia a smantellare il sistema normativo che era stato costruito dopo la crisi del 1929 e che poneva notevoli vincoli e limitazioni all’attività bancaria (lo stesso avverrà in Europa negli anni Novan – ta). Ad esempio, viene ampliato il tipo di prodotti finanziari che possono essere acquisiti dalle casse di risparmio americane (le saving & loans associations): il risultato, alla fine di quello stesso decennio, è il fallimento di 745 casse di risparmio. Soltanto massicci salvataggi pubblici (per una spesa di 125 miliardi di dollari a carico dello Stato) riescono ad impedire che la crisi divenga sistemica (Minsky 1993: 17). In compenso esplode il debito pubblico (che diventerà stellare per finanziare il riarmo voluto da Reagan). Gli anni Ottanta vedono il brusco passaggio dalle politiche monetarie estremamente espansive del decennio precedente a politiche fortemente restrittive. Sono gli anni del governatore della Fed Paul Volcker, che attua una restrizione monetaria portando alle stelle – e tenendo molto al di sopra del tasso di inflazione – i tassi di interesse Usa (Ar – righi 1994: 412-3, 421). I Paesi emergenti sono costretti, per competere con efficacia con gli Usa nei mercati dei capitali, a rendere stellari i propri tassi d’interesse, il che a sua volta rende onerorissimo il servizio del debito ed estremamente doloroso anche il ripagamento dei prestiti contratti in precedenza. Esplode la crisi del debito dei paesi del Terzo Mondo, peggiorata dal crollo del prezzo delle materie prime. Anche i Paesi socialisti dell’ Est europeo sono presi in contropiede dalla mutata situazione dei mercati monetari. I Paesi più nei guai sono quelli che negli anni precedenti si erano fortemente indebitati. Non pochi sono colpiti – oltrechè dall’impennata del servizio del debito – dall’instabilità dei cambi, soprattutto quando il loro export viene pagato in dollari e le loro importazioni sono pagate in altre valute. Tra il 1980 e il 1988 i prezzi reali delle esportazioni di merci prodotte nel Sud del mondo segnano un -40%, e i prezzi del petrolio addirittura un – 50%. In diversi paesi del terzo mondo scoppiano crisi del debito. A seguito di ciascuna di queste crisi gli Stati Uniti attraggono nuovi capitali e vedono rafforzato il ruolo di Wall Street come centro finanziario mondiale. Si ha di fatto una ricentralizzazione del capitale all’interno dei paesi ad alto reddito, mentre negli anni Settanta si era avuto un processo contrario. La mobilità geografica del capitale è in progressivo aumento (Arrighi 1994: 18). Torna ad aumentare il divario di reddito tra Paesi occidentali e resto del mondo. L’impennata dei tassi d’interesse, unitamente al crollo del prezzo delle materie prime energetiche a metà degli anni Ottanta, contribuisce in misura non piccola al crollo dell’Urss e dei Paesi socialisti dell’est europeo. Il primo fattore infatti peggiora la situazione debitoria dei Paesi indebitati (e i paesi socialisti avevano ricevuto cospicui finanziamenti), a fronte di minori introiti derivanti dal secondo fattore. A questo va aggiunta l’elevata percentuale del prodotto interno lordo di questi Paesi destinata alla corsa al riarmo che con Reagan era massicciamente ripartita. Dietro alla caduta del muro di Berlino prima, e alla fine dell’Urss poi, c’è anche questo.

2.3. Danzando sul Titanic: 1989-2007

La fine dell’Urss marca uno spartiacque nella storia del XX secolo, e conferisce al capitalismo contemporaneo l’aura, più ancora che della superiorità, della definitività: “Non esiste altra società all’infuori di me”, grida ogni giorno da ogni mezzo di informazione il capitalismo contemporaneo. Bisogna però distinguere tra ideologia e concreto processo storico, in particolare dal punto di vista economico. A quest’ultimo riguardo, infatti, l’esultanza per la fine dell’Urss lasciò presto il campo a nuove preoccupazioni. E il venir meno del “Nemico” esterno accentuò i conflitti intercapitalistici. Un esempio per tutti: il varo, nel 1992, del progetto dell’Euro, ad oggi la maggiore sfida lanciata all’egemonia valutaria statunitense su scala mondiale. Né si può dire che in questo periodo manchino le crisi finanziarie. All’inizio degli anni Novanta era scoppiata la bolla finanziaria del Giappone, entrato in una stagnazione destinata a durare oltre un decennio. Nel 1997 vanno in crisi anche i Paesi del sud-est asiatico; nel 1998 ad essere colpita è la Russia. In tutti questi casi, enormi capitali si rifugiano a Wall Street, alimentando la bolla speculativa della new economy (1999-2000). Già in questi anni alcuni analisti finanziari lanciano segnali d’allarme riguardo ad “un ciclo mondiale del credito le cui origi – ni posso essere rintracciate nei primi anni Ottanta e che è ormai pros simo alla maturità” (ossia all’esplosione); si menzionano esplicitamente la “eccessiva creazione di credito” a cui fanno riscontro “decisioni di investimento sbagliate”; si sostiene, in particolare, che “la spiegazione principale della rapida crescita del Pil e della produttività negli anni recenti, in particolare negli Sta ti Uniti, consiste nel parossistico ciclo del credito” (Warburton 2000). Ma non avviene alcuna inversione di tendenza. Anche l’esplosione della bolla della new economy viene riassorbita in modo relativamente rapido, e la stessa recessione americana iniziata nel marzo del 2001 risulta di breve durata, soprattutto grazie alle enormi iniezioni di liquidità effettuate nel sistema dopo l’11 settembre e al ribasso dei tassi di interesse, portati ai minimi da 40 anni (di fatto negativi, cioè inferiori al tasso d’inflazione). Questa politica è resa possibile da due presupposti: in primo luogo da bassi livelli di inflazione, dovuti sia al contenimento dei prezzi delle merci importate dai Paesi emergenti, sia (soprattutto) alla compressione dei salari; in secondo luogo dallo status di valuta internazionale di riserva del dollaro, dal suo continuare ad essere “moneta mondiale” a dispetto di una bilancia commerciale in passivo dal 1976. Qualsiasi altro Paese che avesse così a lungo consumato più di quanto produceva (è questo in definitiva il significato del passivo della bilancia commerciale), avrebbe pagato una politica monetaria così espansiva con una crisi del debito simile a quelle patite negli anni da molti Paesi emergenti. I bassi tassi di interesse alimentano il credito e più in particolare la bolla del mercato immobiliare: sia i prezzi delle case che l’ammontare dei mutui contratti dalle famiglie americane raddoppiano dal 2000 al 2005 (Kliman 2009: 6). Nel 2006 i prezzi delle case cominciano a scendere. Si manifesta un evidente eccesso di offerta, cioè una crisi da sovrapproduzione, nel settore delle costruzioni. Cominciano le insolvenze di chi aveva contratto mutui. Ma il problema è molto più vasto, come la crisi iniziata nel 2007 – e non ancora finita – costringerà a capire.

2.4. 2007: la Crisi. E poi?

Dalla prima metà del 2007 i titoli obbligazionari legati ai mutui subprime statunitensi (mutui ad alto rischio) cominciano ad essere colpiti dalle vendite. Alcuni grandi fondi di investimento devono chiudere. La crisi si comunica ad altri comparti e a poco a poco si generalizza. I più assumono dapprima un atteggiamento minimizzante, poi si perdono nella ricerca delle “cause” della crisi, adducendo le più svariate. Quasi tutti sono colti di sorpresa dall’imponenza della crisi. Poi, quando la gravità della situazione non si può più negare, si escogita la spiegazione (la metafora) della “crisi finanziaria che ha contagiato l’economia reale”. La verità è un’altra, anzi sono due. La prima: i mutui subprime sono soltanto un tassello nel più generale eccesso di credito e di finanza che ha caratterizzato gli ultimi decenni. La seconda: questo eccesso di credito e di finanza, quest’onda il cui improvviso ritrarsi non ha soltanto prosciugato molti portafogli, ma ha paralizzato per qualche tempo la circolazione del capitale a livello mondiale, non era né una viziosa deviazione dal corso sano e ordinato dell’economia, né una malattia. Semmai era il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla – e che quindi l’ha cronicizzata. La malattia era un’altra: la stentata valorizzazione del capitale, in altri termini una sovrapproduzione di capitali e di merci ormai endemica da molti anni, soprattutto nei Paesi dell’Occidente industrializzato. A partire dagli anni Settanta la fi- nanza ed il credito hanno contrastato i problemi di valorizzazione del capitale, svolgendo una triplice funzione: 1) mitigare, con il credito al consumo e l’effetto ricchezza indotto dalle bolle finanziarie, le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori sui consumi. Con la conseguenza che, in particolare nei Paesi anglosassoni, il tenore di vita delle persone con redditi mediobassi ha cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito da lavoro. 2) Allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell’industria, anche fornendo credito a basso costo ad imprese in difficoltà, grazie a tassi d’interesse artificialmente bassi. 3) Fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative d’investimento ad elevata redditività. Negli ultimi anni gran parte delle stesse aziende manifatturiere ha fatto i propri profitti tramite operazioni finanziarie (su quanto precede e i dati relativi vedi Giacché 2009: 36 sgg.). Non è la prima volta, nella storia del capitalismo, che questo succede. Già il Marx del secondo libro del Capitale osservava che “tutte le nazioni a produzione capitalistica vengono colte periodicamente da una vertigine nella quale vogliono far denaro senza la mediazione del processo di produzione”. Più di recente Giovanni Arrighi ha spiegato così questo fenomeno: “quando i rendimenti del capitale investito nello scambio di merci, per quanto ancora positivi, cadono al di sotto di un certo tasso critico, che rappresenta ciò che il capitale può fruttare se investito in transazioni monetarie, un numero crescente di organizzazioni capitalistiche si asterrà dal reinvestire i profitti nell’ulteriore espansione dello scambio di merci. Le loro eccedenze monetarie saranno dirottate dalle transazioni in merci a quelle monetarie”. Ma appunto perché la preferenza dei capitalisti per la liquidità e l’investimento finanziario nasce da un’insufficiente valorizzazione del capitale investito nella produzione di merci, le espansioni finanziarie (e la specializzazione di determinati sistemi nella finanza) rappresentano altrettante “crisi-spia” della crisi del regime di accumulazione dominante. Quando poi questa crisi giunge al suo esito, si usa incolparne la finanza e i suoi eccessi. La verità però è diversa: “gli agenti dominanti delle espansioni finanziarie non furono mai la causa principale del crollo definitivo del sistema che essi regolavano e sfruttavano. L’instabilità era strutturale” (Arrighi 1994: 302, 283, 309). Altri autori hanno osservato che “l’eccessiva attenzione verso la finanza e la tolleranza nei confronti del debito sono tipiche delle grandi potenze economiche nel corso delle ultime fasi del loro dominio. Esse ne preannunciano il declino economico” (Phillips 1993: 194). Sono parole che parlano direttamente del nostro presente. Nella crisi attuale confluiscono infatti due diversi processi: la tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi a capitalismo maturo, e la più specifica crisi del regime di accumulazione statunitense, che ha dominato il secolo passato ma non dominerà il nostro. Per questo non ci si può stupire del fatto che la crisi iniziata nel 2007 abbia assunto col passare dei mesi le caratteristiche di una vera e propria crisi generale, dando luogo ad una gigantesca distruzione di capitale su scala mondiale. Essa si è manifestata nel 2009 in un calo del Pil a livello mondiale del 2,9% (il primo dalla fine della seconda guerra mondiale), in un crollo del commercio internazionale del 12%, in un tasso di utilizzo degli impianti inferiore al 70% in molti paesi, in un’enorme crescita delle bancarotte (+35% su scala mondiale) e in una crescita della disoccupazione nel mondo di 60 milioni di unità. La domanda cruciale a questo punto è: la distruzione di capitale sin qui avvenuta sarà sufficiente a ripristinare condizioni più elevate di redditività del capitale investito e quindi a far ripartire l’accumulazione del capitale? Nessuno oggi è in grado di rispondere con certezza a questa domanda. È però possibile fissare qualche punto fermo. In primo luogo, è ragionevole pensare che con il 2007 si sia consumato un passaggio d’epoca: che si sia chiusa la bubble époque, l’èra in cui debito e finanza riuscivano a nascondere e tamponare una crescita asfittica e un’insufficiente valorizzazione del capitale. Se questo è vero, le tre funzioni della finanza viste sopra non torneranno a funzionare come prima. Le implicazioni saranno molto importanti: il peso del calo dei redditi da lavoro sulla domanda interna si farà sentire a lungo, ristrutturazioni violente colpiranno i settori con eccesso di capacità produttiva, ed il profilo rischio/rendimento delle attività speculative peggiorerà. Attenzione a quest’ultimo aspetto: se confermato, esso per un verso impedirà ai capitalisti industriali facili vie di fuga nella speculazione finanziaria, ma creerà rilevanti problemi sul piano delle prestazioni sociali, in particolare nei paesi in cui la componente privata della previdenza (leggi fondi pensione) è molto rilevante. Nel medio periodo è lecito attendersi valutazioni più ragionevoli (ossia più modeste) delle imprese quotate, un sostanziale ridimensionamento dei mercati borsistici in Occidente, e per contro un ulteriore spostamento degli investimenti mondiali verso le aree a maggior crescita del mondo (in particolare l’Asia). Nel breve periodo, invece, non si possono escludere ulteriori convulsioni, e neppure che la crisi si riaccenda con la virulenza che abbiamo conosciuto nell’autunno 2008. L’innesco questa volta potrebbe essere il debito pubblico. In effetti, c’è una singolare contraddizione tra ciò che si è detto sull’origine della crisi e quello che si è fatto per superarla. Si è detto che in giro c’era troppo debito, ma non vi è stata alcuna riduzione del debito, bensì un suo spostamento dall’attore privato a quello pubblico: di fatto, gli Stati si sono caricati il debito che avevano molte imprese, soprattutto finanziarie. Gli ultimi dati li ha diffusi il centro studi di Mediobanca: gli Stati Uniti, da soli, hanno speso più di 2.500 miliardi di dollari per salvare i loro istituti finanziari (riacquistando obbligazioni, fornendo garanzie e entrando nel capitale di banche e assicurazioni semifallite), la Gran Bretagna poco meno di 700 miliardi di sterline, e così via (Mediobanca 2010). Cifre enormi, a cui va aggiunto il prezzo di una politica monetaria ultraespansiva. Oggi la base monetaria mondiale è pari a 18 volte il prodotto interno lordo del mondo: nel 2007 era appena (si fa per dire) 13 volte il Pil. È evidente che in questo modo il problema non è stato risolto, ma soltanto spostato su un altro piano: quello del debito sovrano, ossia degli Stati. Il problema non è soltanto il rischio di insolvenza di uno o più Paesi, ma il fatto che, comunque vadano le cose, a causa degli interventi già effettuati, gli Stati hanno ora un margine di manovra molto inferiore: se oggi scoppiasse un’altra emergenza come quella che si è prodotta dopo il fallimento di Lehman, avrebbero serissimi problemi a fronteggiarla. Quanto alla montagna del debito, essa è ancora tutta lì, e in qualche caso è addirittura cresciuta. Lo dimostra un recente studio della McKinsey: il debito totale (pubblico e privato) del Regno Unito è pari al 469% del prodotto interno lordo, in Giappone è intorno al 459% del Pil, in Spagna al 342%, in Francia e Italia rispettivamente al 308% e al 298%, negli Stati Uniti al 290%, in Germania al 274% (McKinsey 2010: passim). Non sorprende, quindi, che buona parte di questi Paesi si trovino sulla lista degli Stati del mondo più a rischio di fallire stilata dal Crédit Suisse. Non è escluso neppure che le convulsioni di cui sopra siano accompagnate da tentativi statunitensi di forzare militarmente la situazione, soprattutto nel caso in cui emergessero problemi concreti di rifinanziamento del crescente debito pubblico Usa. Danno da pensare, a questo riguardo, sia la crescita delle spese militari nel budget di Obama per il 2010, sia le concrete provocazioni rivolte negli ultimi mesi all’Iran (crescendo di minacce), Cina (vendita di armi a Taiwan, appoggio al separatismo del Tibet) e Russia (installazione dello scudo anti-missile in diversi Paesi dell’Est Europa). E non si ricorderà mai abbastanza che dall’ultima crisi di entità paragonabile all’attuale, quella del 1929, si uscì soltanto con una guerra mondiale: furono infatti le immani distruzioni della seconda guerra mondiale e la gigantesca mobilitazione di capitale funzionale al sostegno dello sforzo bellico degli Stati Uniti – e non le opere pubbliche di Roosevelt – a far riprendere l’economia, e con essa il saggio di profitto (Burgio, Dinucci, Giacché 2005: 126-7). È possibile che l’entità della distruzione di capitale necessaria per far ripartire i profitti sia meno drammatica, e che quindi le misure adottate risultino efficaci per rilanciare l’accumulazione del capitale con una contestuale riduzione del ricorso al debito. Ma comunque in tal modo verrebbe meno il pilastro che ha sostenuto i profitti negli ultimi decenni (o che in ogni caso ha reso socialmente più tollerabile il loro declinare). Inoltre, in termini storici, le riduzioni del debito sono in genere durate dai 6 ai 7 anni e hanno visto una contrazione molto significativa del prodotto interno lordo dei Paesi interessati. E quindi in tal caso – come è stato scritto – “la prognosi è di un’economia che, anche dopo lo stabilizzarsi della immediata crisi da svalutazione degli asset, sarà nel migliore dei casi caratterizzata per molto tempo da una crescita minima, nonché da alta disoccupazione, sottoccupazione ed eccesso di capacità produttiva” (Bellamy Foster, Magdoff 2008: 15). Tutto questo ripropone alcuni interrogativi di fondo circa la sensatezza e sostenibilità sociale di un sistema che trasforma la crescita della produttività in una maledizione e che per andare avanti ha bisogno di crisi ricorrenti e di distruzione di capitale su larga scala. Quest’ultima, in particolare, per Marx era sintomatica del carattere transeunte e datato del modo di produzione capitalistico: “nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale” (Marx 1857-8: 105). Ora, la possibilità del passaggio ad un modo superiore e meno primitivo di produzione sociale è proprio ciò che nei nostri anni è stato violentemente rimosso, appiattendo il futuro sulla semplice continuazione del presente. La possibilità di un “livello superiore di produzione sociale” è stata accantonata come un’utopia totalitaria, facendo dell’attuale il migliore dei mondi possibili – anzi, l’unico. È da anni, ormai, che l’accettazione di questa limitazione del nostro orizzonte storico- sociale è divenuta un fenomeno di massa. È tempo di intendere che il prezzo di questa accettazione sta diventando decisamente troppo alto. È possibile e auspicabile che la crisi che segna la fine – ritardata di qualche anno rispetto al calendario – del lungo XX secolo ci riconsegni questa consapevolezza, rilanciando l’idea di una regolazione dell’economia da parte dei produttori associati: il progetto marxiano di “fare della proprietà privata individuale una verità trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, ora principalmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di un lavoro libero e associato” (Marx 1871: 300).

(Gubbio, 25 settembre 2009; riv. nel febbraio 2010)

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