La “Bozza Violante” come cavallo di Troia

Complesse sono le ragioni per cui le forze contrarie all’instaurazione della democrazia sociale dopo la sconfitta del fascismo hanno in vario modo, trovando via via nuovi alleati, tentato di delegittimare la Costituzione italiana, rendendo perciò tanto più acuto lo scontro di classe in cui si è innestato il processo di contrastata attuazione delle riforme sociali e istituzionali sollecitate negli anni 1948-78, per l’iniziativa particolarmente incalzante dei comunisti nel partito e nel sindacato.

DAL MASSIMALISMO AL MINIMALISMO ANTICOSTITUZIONALE

Nella possibile confusione architettata con la mistificatoria separazione tra “prima” e “seconda” parte della Costituzione, a loro volta scisse dai Principi fondamentali, non deve sfuggire il motivo per cui i gruppi di potere – invece di demonizzare le norme costituzionali sostanziali volte al controllo sociale e politico della proprietà e dell’impresa – abbiano concentrato i loro sforzi politici e culturali sugli aspetti della vita organizzata, che sono per loro natura meno immediati nell’esperienza delle masse popolari: come appunto sono le questioni “istituzionali”, riferite tradizionalmente alla forma di governo, che è l’epicentro dell’organizzazione del potere costruita storicamente a presidio del sistema capitalistico. Il richiamo di tale apparente ovvietà si rende oggi necessario per spiegare come mai da due anni viene invocata con intermittenza una fantomatica Bozza Violante, opponendola a circa un trentennio di sofisticate elaborazioni affidate a tre commissioni bicamerali e travasate in due leggi di revisione costituzionale (2001 e 2005), la seconda delle quali è stata bocciata dal voto referendario del 2006. Come mai, dopo una lunga fase di “massimalismo” sfrenato, teso a stravolgere l’intera se – conda parte della Costituzione (che ha coinvolto quasi tutti i costituzionalisti, in un’orgia revisionistica contrastante con la neutralità, se non passività, degli anni della lotta per la democratizzazione), si è passati ad una fase di torbido e torpido “minimalismo”, imperniata sul ruolo più soft affidato ad un misterioso documento con cui, dal 2007, si tenta di riaprire un corso revisionista che il voto referendario (stando alle concezioni dei referendaristi a oltranza) dovrebbe ormai precludere? Questa volta però, nella speranza di contenere il ritorno dei “massimalisti”, si delimita artatamente il campo di intervento, con il singolare patrocinio del presidente della repubblica. Si tratta di una manovra architettata a latere della rissosa conflittualità tipica del nostro insano bipolarismo, in cui dominante è il ruolo di chi (compreso Violante, oggi responsabile dei problemi istituzionali nel PD) prosegue ciecamente un percorso avviato quando Berlusconi era ancora ai margini della politica ufficiale (bastandogli la condivisione del piano di Gelli) e i presidenzialisti di AN erano nei noti limiti rappresentativi del MSI. Si sta infatti ripartendo alla chetichella dagli orientamenti emersi all’epoca della prima bicamerale del 1983 presieduta dal “costituzionalista” liberale Bozzi, stavolta lasciando in disparte la complessità della seconda parte della Costituzione, se ed in quanto, tuttavia, Berlusconi vorrà contemperare, con tale tattico minimalismo, quel massimalismo che peraltro non avrebbe potuto prendere mai consistenza, se non gli si fosse stata aperta la strada stracciando il metodo elettorale proporzionale puro, a favore di maggioritari puri o spuri (le leggitruffa, epiteto ormai ipocritamente dimenticato).

LA BOZZA VIOLANTE

Se si valuta nel merito la Bozza Violante [1] e si tiene conto dell’inevitabilità conferita al cosiddetto completamento della ristrutturazione “federalista” (invocata dalla Lega e imposta dal centro-sinistra con l’improvvida legge di revisione del 2001) per dar vita ora al Senato federale, si deve denunciare che il vero obiettivo annidato in poche righe interne ad una trentina di norme, è quello concernente l’alterazione della forma di governo parlamentare scelta dall’Assemblea costituente. Tale alterazione ha dato sin qui la stura ad un’ostinata sciorinatura di modelli adottati in altri ordinamenti, nessuno dei quali rapportabile a quello entrato in vigore in Italia con la nuova costituzione, a causa dell’originalità del rapporto che solo il nostro modello di democrazia sociale, in quanto antagonista di quello liberaldemocratico, presenta tra forma di Stato – volta alla trasformazione della società – e forma di governo , volta a fare della sovranità popolare la base fondativa del pluralismo sociale e politico attivato dal protagonismo delle organizzazioni di massa e culminante in un parlamento non più sovrano perché antipopolare, ma tramite coerente della domanda sociale. Tale minimalismo non va sottovalutato, e non solo perché sono già due anni che Berlusconi traccheggia, facendo incombere il massimalismo cui non ha per nulla rinunciato, ma anche e soprattutto perché la Bozza Violante, alla luce dei suoi contenuti, offre l’occasione per una critica che dal 1983 in poi non è riuscita a trovare udienza neanche nei settori della “sinistra”, a causa della pressoché generale acquiescenza al falso presupposto che la nostra Costituzione attendeva di essere “ammodernata”, “aggiornata”, “adeguata” a supposte “modifiche della realtà” genericamente intese, o – ciò che però è indicativo dell’assoluta inaccettabilità delle premesse – di essere assimilata in modo più congruo al funzionamento delle forme di governo degli altri più importanti sistemi europei.

PREMINENZA ALLA FORMA DI GOVERNO

Ad un’attenta disamina di tutto il materiale elaborato in un trentennio e che nel passaggio tra le varie bicamerali si è dilatato coinvolgendo la disciplina dei tre poteri (esecutivo, legislativo, giurisdizionale), non si può non essere colpiti dal fatto che nella Bozza Violante è data preminenza proprio alla forma di go – verno: agli immemori va rammentato che in essa il tipo di soluzione prospettata trova puntuale precedente all’interno del confronto di posizioni dei partiti che nella Commissione Bozzi si fecero ancora residualmente valere a latere di “giuristi” destinati poco per volta a prendere il sopravvento e dilagare nelle commissioni De Mita/Jotti e D’Alema, nonché nell’elaborazione delle leggi di revisione del centro-sinistra e del centro-destra. Nella Bozza si coglie una chiara corrispondenza – per quanto attiene alla forma di governo e quindi ai rapporti tra esecutivo e parlamento – con le scelte prospettate in seno alla commissione Bozzi da una maggioranza ispirantesi al principio del governo di legislatura: da un lato istituisce un rapporto diretto e separato del parlamento con il solo presidente del consiglio per un voto di fiducia “personalizzato” ed estraniante la struttura del governo; dall’altro, esalta la supremazia del presidente sui ministri, recuperando quel potere di proposta (al capo dello Stato) della loro revoca (oltre che della nomina) risalente in Italia alla fase storica liberale e fascista.

SI RESTRINGE L’AUTONOMIA DELLA CAMERA

Non paga di ciò la Bozza va oltre: a proposito del potere di revoca della fiducia, essa aggrava i limiti di autonomia dei parlamentari interessati a sottoporre al voto la mozione di sfiducia, sia elevando da 1/10 a 1/3 il numero dei firmatari, sia restringendo l’autonomia della Camera con il vincolo della maggioranza assoluta dei componenti ai fini dell’approvazione della sfiducia stessa. Per giunta, a tale gabbia di “razionalizzazione” pro esecutivo è stato sovrapposto un inedito potere del capo dello Stato di “valutare i risultati delle elezioni” prima di nominare il presidente del consiglio: inserimento tanto più singolare rispetto alla variabilità dei tipi di metodo elettorale e tenuto conto che il voto di fiducia riguarda non il governo, ma il presidente del consiglio.

POTERI CONCENTRATI IN UN VERTICE

Sono questi i frutti di un artificioso lavorio, volto con schemi “giuridici” a occultare la natura dei disegni “politici” di sovrapposizione al parlamento di poteri concentrati in un vertice, nel quale in termini anodini verrebbe coinvolto anche il capo dello Stato che, oltre ai poteri di garanzia e quindi neutri, si vedrebbe accreditato un infondato potere di interferenza nei rapporti tra governo e parlamento. Si evoca così l’immagine di un governo gravitante nell’orbita di una sorta di capo dell’esecutivo, che nella combine tra statuto albertino e legge fascista sulle attribuzioni del capo del governo (1925) implicava l’oscuramento – allora totale – del ruolo del parlamento. In tale contesto risalta maggiormente quanta mistificazione abbia accompagnato le strida di quella parte di costituzionalisti che – giustificata la “modernizzazione” razionalizzatrice articolabile nei modelli del presidenzialismo americano, del semi-presidenzialismo alla francese, del premierato all’inglese, e del cancellierato alla tedesca – convergono con quanti si sono premurati di aggiungere che il NO alla riforma berlusconiana non implica “uno scontro di civiltà”, ma solo il diniego ad una riforma “sgangherata”: gli uni e gli altri sono accomunati dalla fede nella “ingegneria istituzionale”, che occulta l’omogeneità – funzionale agli interessi della classe dominante nell’occidente – delle sfrenate “fantasie” sui modelli di rapporti politico-istituzionali. Ecco perché va messa a nudo la confusione che proposte di tipo minimalista – lanciate nel 1983 e riproposte con la Bozza tanto enfatizzata proprio da parte del centro-sinistra – possono ora provocare in un elettorato che aveva saputo rilegittimare con il no referendario il modello costituzionale vigente. Non è un caso che rispetto a tale bozza il centrodestra si mantenga freddo e distaccato, interessato com’è a soluzioni modellistiche più corrive ai suoi conclamati interessi di classe, al di là del “dialogo” e della “condivisione” di facciata sotto i falsi miti dell’“ideologia giuridica”.

MODELLO COSTITUZIONALE BRITANNICO E CONSERVATORISMO SOCIALE

È diventato fin troppo facile oggi dimenticare, anche “a sinistra”, che la fertilità delle manipolazioni delle forme di governo denominate “parlamentari” si alimenta nelle pieghe del contrasto fra teorie “politiche” e teorie “giuridiche” del potere, del diritto e dello Stato. Ciò ha consentito ai costituzionalisti, affiliati ad un comune dogmatismo, di sovrapporre alle differenze storico-politiche delle forme di governo, i principi astratti di una “razionalizzazione”, assunta come espediente nelle due fasi di passaggio epocale della prima e poi della seconda guerra mondiale, per contenere l’espandersi più compiuto e coerente dei rapporti di classe, nel rapporto tra vita collettiva e organizzazione dello Stato. Tale “razionalizzazione” è stata oltretutto concentrata a carico del ruolo del parlamento per delegittimare, all’ombra del cosiddetto “Stato di diritto”, l’autonomia reale dei soggetti del pluralismo sociale: il disegno (sovente deluso, perché la storia è incoercibile) era quello di parametrare i parlamenti del continente europeo al funzionamento di quello britannico, denominato di gabinetto o semplicemente del primo ministro, e invano imitato con varianti di cui la più spiccata è quella del cancellierato, tanto caro ai socialdemocratici di varia dislocazione nazionale. Si tratta infatti di forzature sempre stentate, non necessarie nel sistema consuetudinario inglese (perciò privo di una costituzione scritta, nonché rigida), dato che il conservatorismo so – ciale di quel sistema (tradizionalista sino al punto di sottostare tuttora alla fedeltà monarchica) ne garantisce automaticamente il conservatorismo politico-istituzionale in forza del principio maggioritario, e del conseguente bipartitismo. Solo nel continente europeo si è dovuto “regolamentare” il rapporto fiduciario, cercando con la disciplina della mozione di sfiducia di sottrarre il governo agli effetti “destabilizzanti” della libera dialettica tra le forze politiche, sotto gli impulsi dei partiti di massa tra cui spiccatamente il partito comunista: ciò che spiega come mai nel sistema di Bonn sia stata introdotta una ancor più sofisticata sfiducia costruttiva, per supportare un cancellierato comunque inidoneo a duplicare coerentemente il premierato inglese per le ineludibili ragioni storico-sociali, più forti della presunta “razionalizzazione”.

CENTRALITA’ DEL PARLAMENTO NELLA COSTITUZIONE ITALIANA

Non si spenderanno perciò sufficienti parole, al punto in cui siamo, per puntualizzare quel che persino in ambienti di “sinistra” si tende a ignorare o svalutare, e cioè che in Occidente solo la forma di governo italiana ha innovato, introducendo la centralità del parlamento (demonizzata subito come parlamentarismo assoluto dalla destra più arcigna). Il continuum governo-parlamento è volto a rovesciare il principio (asseverato specialmente dai giuristi) secondo cui è l’esecutivo l’organo governante, portatore dominante dell’indirizzo politico, che, viceversa, nel passaggio dallo Stato autoritario (e tanto più totalitario) allo Stato democratico spetta, in nome della sovranità popolare, al parlamento [2]. Mal orientati dai costituzionalisti e dai politologi, non si vuol proprio ammettere che la scelta del modello italiano è riuscita, unica in Europa, a sfuggire ai tentacoli della “razionalizzazione” come interfaccia, propria dell’ideologia giuridica, di una concezione della forma di governo subalterna all’ideologia del capitalismo (non a caso rinverdita dal documento della commissione Trilateral diffuso agli inizi degli anni ‘70 contro la complessità sociale e per la riduzione della democrazia). Sicché la centralità del parlamento – contro ogni artificioso tentativo (la cosiddetta conventio ad excludendum dal governo dei comunisti) – ha avuto i suoi fasti negli anni 1970- 1978, proprio per la capacità che le lotte sociali hanno avuto di proiettarsi sul terreno parlamentare, al punto che alcune leggi di riforma democratica sono state elaborate e votate prescindendo dall’iniziativa legislativa governativa, con scorno della pretesa della DC e dei suoi alleati di imporre come determinante il potere (facoltativo) di iniziativa del governo.

LA BOZZA CONSOLIDA IL PRIMATO DELL’ESECUTIVO

A completare il discorso sul revisionismo minimalista (mentre quello massimalista, sconfitto col referendum, è sempre in agguato in nome del presidenzialismo nelle sue varie confezioni), la questione del governo parlamentare è posta su un piano inclinato anche a proposito dei rapporti governo-parlamento nel processo di formazione delle leggi, in quanto con la suddetta Bozza si mira a consolidare il primato dell’esecutivo, prevedendo che “il Governo può chiedere che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’o.d.g. di ciascuna Camera e sia votato entro una determinata data”. Come si vede, la “governabilità” non è mai paga e si invocano esigenze di certezza delle decisioni, razionalizzazione delle procedure e snellimenti come nel sistema inglese con la mozione ghigliottina e la program motion, e come nel semipresidenzialismo francese ove l’o.d.g. delle assemblee comporta in via prioritaria e nell’ordine stabilito dal governo la discussione dei disegni di legge presentati dal governo stesso: il che adombra nella costituzione gollista quel che nel contesto del primo avvio del fascismo si stabilì, nel senso che “nessun oggetto può essere messo all’o.d.g. di una delle due Camere senza l’adesione del capo del governo” (1925). Non si comprende come in tale contesto nel 2007, proprio a ridosso della sconfitta referendaria del progetto Berlusconi, anche esponenti di “sinistra”, a conforto delle iniziative sollecitate dal centro-sinistra e dal centro-destra per riprendere il “dialogo” sulle riforme istituzionali, abbiano avallato la riapertura minimalista, addirittura evocando la proposta della sfiducia costruttiva ( per ora accantonata dai fans del revisionismo per agevolare il pactum sceleris); istituto quanto mai anomalo, comunque lo si osservi, perché, pur di rendere stabile il governo in nome del Kanzlerprinzip, si fissa il principio (che contrasta con la dialettica, tipica della lotta politica) secondo cui solo se si raggiunge preventivamente la maggioranza assoluta dei parlamentari può ottenersi la revoca del cancelliere.

FINE DEL BICAMERALISMO PARITARIO

A completare il disegno del progressivo smottamento incostituzionale [3] la Bozza ha investito, oltre che la funzione del parlamento, anche la sua struttura, approfittando della ormai irrecuperabile subalternità del PD alla Lega circa un federalismo che – ben diversamente dagli slogan correnti sulla maggiore vicinanza degli stati membri (o regioni) ai cittadini – si traduce in una forma di centralizzazione dei poteri dello Stato più conforme agli interessi centrali del mercato e delle imprese. E infatti il numero maggiore di norme – che fanno da corona a quelle sul primato dell’esecutivo – concernono la spaccatura che si punta a instaurare tra la Camera e il nuovo Senato “federale”, nel duplice intento: a) di attuare la demagogica riduzione del numero di deputati e senatori [4]; b) di cancellare quel bicameralismo paritario con cui l’acume di Togliatti aveva ovviato alla pregiudiziale contro il monocameralismo ( innovazione proposta dai comunisti in nome della indivisibilità della sovranità popolare), con il risultato che le due camere in Italia hanno operato senza le contraddizioni tipiche del tradizionale bicameralismo diseguale invocato dai conservatori vecchi e nuovi. Il “bicameralismo diseguale” reintroduce nei meccanismi operativi della rappresentanza politica uno smaccato contrasto con l’eguaglianza sociale, ormai solo demagogicamente sbandierata e di fatto vanificata da quando si è avviato il bipolarismo di centro-destra e centrosinistra, entrambi ideologicamente allineati sul primato del mercato. E infatti, da destra, ora non si esita a rivelare l’intento reale perseguito, sulla scia dell’improvvido “revisionismo” del centrosinistra: scardinare i principi di democrazia sociale della “repubblica fondata sul lavoro”, togliendo al movimento operaio le condizioni di potere politico-istituzionale atte a recepire la spinta delle masse, tanto che i costituzionalisti à la page parlano ora di una anodina “democrazia costituzionale” di stampo neo liberal-liberista. In tale ottica va posta la macchinosità con cui si punta a sostituire le cosiddette “lungaggini” del bicameralismo paritario, spaccando il parlamento – e quindi la rappresentanza popolare – con una estraneazione del nuovo Senato dal circuito dei rapporti “fiduciari” tra esecutivo e parlamento (riservati alla Camera) e con una burocratizzazione strutturale del Senato, formato non da rappresentanti eletti (al pari dei deputati), ma da esponenti di secondo grado delle regioni e delle autonomie locali, destinati a soddisfare le pretese dei leghisti di trasferire in modo meccanico il ruolo dei loro esponenti sul territorio nelle stanze della seconda Camera.

TRIDIMENSIONAMENTO DEL POTERE LEGISLATIVO

Ma quel che è più grave, a proposito della semplificazione e della velocizzazione del procedimento legislativo patrocinato contro il bicameralismo eguale, è che i revisionisti predispongono il tridimensionamento del potere legislativo scindendo il potere di legiferare: a) in materie di competenza paritaria (reinventata, quindi, a disprezzo di ogni coerenza); b) in competenze “a Camera dei deputati prevalente”; c) in materie “ad apporto del Senato parziale”, perché condizionabile”. Si tratta di una soluzione monstre che nasconde l’influenza leghista su un neocentralismo a mala pena mascherato dall’automatismo dell’immissione nel Senato dei suoi esponenti locali. Il che è tanto più inaccettabile non solo perché costituisce l’elemento di traino di un federalismo accolto acriticamente dal PD e passivamente valutato da una parte della sinistra specie al Nord, ma soprattutto perché ostacola la valutazione consapevole del contenuto strategico che il minimalismo dominante in questi giorni persegue, per determinare studiatamente effetti non eclatanti, ma proprio perciò equivalenti a quelli che stanno a cuore al centro-destra, in termini schematicamente netti e irrefrenabilmente più antidemocratici. Tale operazione è imputabile alla sottovalutazione – in materia di decentramento e di federalismo – del rapporto tra questione sociale e questione istituzionale, dimenticando che il federalismo istituzionale (come dimostra il caso USA) è la soluzione “moderna” della connessione simbiotica tra poteri economico- finanziari e poteri politico-istituzionali. Il che comporta l’invarianza tra lo Stato unitario e lo Stato federale, a implicito detrimento della concezione della federatività sociale, proiettabile su una strategia attinente alle condizioni di socializzazione del potere; ad essa si oppone la concezione di un federalismo volto a imporre sistemi reticolari di nuove forme di concentrazione di potere, inaridendo il ruolo della autonomia sociale e dei poteri anticentralistici funzionali agli interessi delle forze sociali.

IL METODO BIPARTISAN PER SOVVERTIRE LA COSTITUZIONE

Accompagnata da una “lettera ai giovani sulla Costituzione” (2006) con cui ha perorato il “grande scopo” di “liberarsi dall’antico idolo del parlamento legislatore onnipotente”, l’iniziativa di Violante è stata ora raccolta – sotto la pressione (divenuta asfissiante) del capo dello Stato, memore del ruolo svolto nel 1983 per chiudere la lunga fase di “patriottismo costituzionale” del PCI – dai gruppi senatoriali del centro- destra e del centro-sinistra. Con una metodologia ipocrita e mistificatoria senza precedenti, ciascun gruppo ha votato una mozione (sottoscritta da esponenti propri) concordando l’astensione dalla votazione da parte del gruppo avverso, sostenitore però di una mozione dell’identico tenore dell’altra. In nome della “spirito di leale collaborazione”, le due mozioni concordano nell’aderire ai punti qualificanti della “bozza Violante” (riduzione del numero dei parlamentari, rafforzamento dei poteri e delle funzioni del governo e del parlamento, rivisitazione del bicameralismo perfetto) con l’aggiunta di una “riforma delle norme di rango costituzionale relative all’ordinamento giurisdizionale”. Contro una prassi, intervenuta nella stessa “sinistra”, occorre rilanciare un dibattito di massa sulle manipolazioni – nell’interesse di “cupole” sovranazionali o nazionali dei vertici economici e politici del sistema di potere capitalistico – sia delle leggi elettorali, sia delle norme costituzionali sulle forme di governo parlamentare che mirano a dare effettiva libertà agli eletti dal popolo di recepire la domanda sociale di democrazia sostanziale, onde evitare che sulla cultura di massa faccia sempre premio l’ingegneria istituzionale “professori”.

Note

1 È la proposta di legge costituzionale approvata il 17.10.2007 in commissione Affari costituzionali della XV legislatura (governo Prodi), presieduta da Luciano Violante, con l’astensione del centro-destra e la sola opposizione del Pdci.

2 Appare pertanto inconcepibile l’attenzione rivolta da quei giuristi (che da 60 anni ne recitano il testo) ad un o.d.g., votato in Commissione ma non nell’Assemblea costituente (di cui si tace al contrario che abbia votato un o.d.g. in favore del metodo elettorale proporzionale) intestato al prof. Perassi, auspicante l’adozione – poi disattesa nel testo costituzionale – di “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.

3 È sintomatico che coloro che lodano la Corte Costituzionale per aver sostenuto che vi sono “principi immodificabili”, escludano da questi il pluralismo e la rappresentatività democratica dell’ordinamento.

4 È esemplarmente efficace la denuncia di Elias Vacca del Pdci che in tal modo si consegue una “elevazione della soglia di sbarramento di fatto” a carico dei partiti minori (cfr. La rinascita della sinistra, 11.1.2010), in aggiunta allo sbarramento alla base del 4 o 5% (accarezzato suicidamente dal PRC).