Titanic Europa. Ormai è a rischio anche la moneta unica

[l’articolo è in stampa per la rivista “Marx 21 – nuova serie de l’ernesto – rivista comunista”]

BCE: un rialzo dei tassi pericoloso
Cominciamo con l’istituzione più importante di tutte: la Banca Centrale Europea. Come è noto, la filosofia economica (meglio: l’ideologia) su cui si fonda l’Unione Europea prevede che la formula magica per la crescita sia rappresentata da mercato + politica monetaria. In altri termini: per ottenere benessere e progresso economico è sufficiente che al libero dispiegarsi delle “forze di mercato” (ossia dei capitali in competizione) si unisca l’apporto delle politiche monetarie, che hanno il compito esclusivo di combattere il rischio di inflazione.
Le scelte compiute in questi mesi dalla Banca Centrale Europea sono coerenti con questi presupposti. E in effetti la BCE il 7 aprile scorso ha portato i tassi d’interesse nell’eurozona dall’1% all’1,25%, e nel mese di giugno ha confermato l’intenzione di inasprire ulteriormente la politica monetaria con un ulteriore rialzo. Non si può dire che questa politica rappresenti una sorpresa. Jean-Claude Trichet, il presidente della BCE, l’aveva annunciata già a marzo, motivandola con i rischi d’inflazione legati all’aumento del prezzo del petrolio. E, tanto per non lasciare dubbi su quale fosse la sua principale preoccupazione, aveva sottolineato che “quando c’è uno shock petrolifero” la responsabilità della BCE è quella di evitare “un effetto-travaso” sui salari, ossia un aumento di questi ultimi.
I motivi per giudicare sbagliato il rialzo dei tassi d’interesse in Eurolandia sono numerosi. Vediamone qualcuno.
1. Nell’eurozona non c’è oggi alcun serio rischio di inflazione. Alla BCE sono terrorizzati perché l’inflazione ha superato di qualche decimale il 2%, ossia il cosiddetto “livello obiettivo” oltre il quale i templari della stabilità monetaria si sentono obbligati ad intervenire. Ora, anche senza voler abbracciare la proposta, avanzata un anno fa da Olivier Blanchard (capo economista del Fondo Monetario Internazionale), di elevare al 4% la soglia di inflazione considerata rischiosa, la verità è che oggi in Europa la cosiddetta inflazione core, ossia l’inflazione depurata dalle variazioni di prezzo dei prodotti energetici e di quelli alimentari, è appena all’1%. E probabilmente non si muoverà di molto, visto che la debolezza della domanda fa sì che le imprese non possano trasferire facilmente (e tanto meno automaticamente) gli aumenti dei prezzi delle materie prime sui prezzi al consumo. Non solo: nel Regno Unito, dove l’inflazione nel quarto trimestre del 2010 ha superato il 4%, la Banca d’Inghilterra per ora si è guardata bene dall’alzare i tassi d’interesse, che là sono allo 0,5%, ossia al livello più basso dal 1694 (anno di fondazione della Banca d’Inghilterra). E questo perché teme gli effetti depressivi che un rialzo avrebbe sull’economia, già indebolita dai tagli per 80 miliardi di sterline decisi dal governo Cameron. Del resto, neppure negli Usa, dove i tassi sono allo 0,25% e l’inflazione è al 3,2%, la Federal Reserve ha sinora reputato necessario rendere più restrittiva la politica monetaria. Insomma: l’ossessione dell’inflazione è una malattia che colpisce soltanto l’eurozona.
2. Ancora più remota è la possibilità di forti aumenti salariali. Quanto alla seconda ossessione di Trichet, essa è ancora più infondata della prima. Oggi infatti l’aumento dei prezzi non si sta traducendo in un aumento dei salari. Per diversi motivi. Il primo è che sono pochissimi i Paesi europei che mantengono strumenti per legare in qualche modo i salari all’andamento dei prezzi. Ma il motivo più importante è un altro: dati i livelli elevati di disoccupazione, il potere contrattuale dei lavoratori è oggi molto debole. E infatti gli stessi salari nominali stanno rallentando un po’ ovunque. Infine, nell’unico Paese in cui il potere di contrattazione dei lavoratori sta aumentando per il diminuire della disoccupazione, ossia la Germania, un aumento dei salari sarebbe benefico in quanto ridarebbe fiato alla domanda interna.
3. Il rialzo dei tassi colpisce le economie più deboli della zona Euro. L’aumento dei tassi d’interesse, se risponde a problemi immaginari, crea però diversi problemi reali. E non da poco. Il primo riguarda gli Stati già alle prese con la crisi del debito, ossia Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Infatti per questi Paesi ogni rialzo dei tassi d’interesse significa un aumento dei già onerosissimi interessi pagati sui titoli di Stato (vale la pena di ricordare che nei primi tre Paesi citati essi si collocano oltre il 10% e nel caso della Grecia superano il 20%). Si è calcolato che, per la sola Grecia, l’onere aggiuntivo possa risultare pari all’1,6% del prodotto interno lordo. Non minori saranno gli oneri in più per il debito privato, che in Irlanda, Portogallo e Spagna ha superato il 210% del pil. Questo peggiorerà la situazione delle sofferenze bancarie, che in questi Paesi sono già molto elevate. Insomma: un rialzo dei tassi d’interesse aggrava la crisi del debito degli Stati in questione, rallentandone ulteriormente i tassi di crescita e peggiorando il rapporto tra deficit e pil (sia a causa della riduzione del pil che delle conseguenti minori entrate fiscali).
4. Il rialzo dei tassi aumenta la divergenza tra le economie dell’area euro. Questo è il punto fondamentale. Oggi in Europa la divergenza tra le economie è già molto accentuata. Le stime ufficiali della Commissione Europea, ad esempio, prevedono per la Germania una crescita del 2,4%, circa tre volte quella della Spagna. Ma c’è un dato ancora più rivelatore di questa divergenza, e riguarda proprio i tassi d’interesse. Gli economisti del Crédit Suisse hanno provato a calcolare i tassi “giusti” in Europa secondo la “regola di Taylor” (una formula che consente di calcolare il tasso d’interesse ottimale di un Paese date l’inflazione e le previsioni di crescita). Bene, secondo questa regola i tassi corretti per Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia dovrebbero essere pari al -4,6%. In Germania, invece, dovrebbero essere al 4,5% (senza segno meno davanti). Queste simulazioni sono un esercizio teorico, ma ci fanno capire come le economie dei diversi Paesi dell’eurozona siano drammaticamente divergenti e come già oggi tassi d’interesse unici a rigore non vadano bene per nessuno. È questa divergenza, oggi, il problema maggiore per la stabilità e la sopravvivenza stessa dell’euro. Ad ogni aumento dei tassi la situazione è destinata ad aggravarsi. E questo precisamente a causa dei danni arrecati alle economie più deboli dell’eurozona, che oggi di tutto avrebbero bisogno tranne che di interessi più elevati da pagare ai loro creditori.
5. Inoltre, un aumento dei tassi comporta un rafforzamento dell’euro. Lo abbiamo visto nei giorni successivi al rialzo di marzo, con l’euro che si è portato ai massimi da oltre 15 mesi, superando la quotazione di 1,46 sul dollaro (a metà giugno non è molto distante: 1,44). Il punto è che l’euro non aveva bisogno di rafforzarsi, in quanto era già molto forte. Questo danneggia le esportazioni verso gli Stati Uniti e i Paesi asiatici.
6. L’errore più grande è però un altro: quello di ritenere che l’economia europea nel suo complesso stia riprendendosi e tornando alla normalità. Le cose, purtroppo, non stanno in questi termini. La situazione economica mondiale, infatti, è in questo momento piena di incognite. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: dalla gravissima situazione degli Stati Uniti, dove a un debito pubblico fuori controllo si accompagna la disoccupazione più elevata da decenni, all’Inghilterra, presa tra la severità della manovra di bilancio e salari reali in forte calo a causa dell’inflazione; senza dimenticare il disastro tellurico e nucleare giapponese e le sue conseguenze sull’economia nipponica, che è tornata in recessione. E poi, senza andare tanto lontano, ci sono i Paesi della zona-euro intrappolati nella crisi del debito. Ma anche a questo proposito l’establishment europeo ha intrapreso una strada catastrofica.

L’Unione Europea vara il Fondo salva-Stati…
Quando, a marzo, i contorni del cosiddetto Fondo salva-Stati hanno cominciato a chiarirsi, qualche quotidiano ha avuto il coraggio di definirlo come una svolta storica: un entusiasmo decisamente eccessivo. I fatti sono questi: l’Unione Europea ha deciso di dotarsi di un Fondo per interventi di emergenza (dotazione: 440 miliardi di euro), che a partire dal 2013 si trasformerà in Meccanismo Europeo di Stabilità (la stessa cosa di prima, ma con una dotazione di 500 miliardi di euro). Al Fondo dovranno contribuire i Paesi membri della zona euro, in proporzione alla quota di partecipazione alla Banca Centrale Europea (quindi con un rilevante contributo italiano). Il Fondo potrà erogare prestiti ai Paesi in difficoltà, e anche comprare i loro titoli di Stato (oggi può farlo soltanto la Banca Centrale Europea).
Tutto bene, anzi male: infatti questo Fondo non funzionerà. Perché il concetto stesso di “prestiti” qui è fuori posto. I prestiti servono infatti soltanto a risolvere le crisi di liquidità e non quelle di solvibilità. Possono cioè risolvere soltanto condizioni di difficoltà momentanee di un Paese nel reperire denaro sul mercato dei capitali, quando, ad esempio, i titoli di Stato si deprezzano bruscamente a causa di un attacco puramente speculativo. Purtroppo, a dispetto della retorica ricorrente sugli speculatori – retorica che ad ogni tornante cruciale di questa crisi interviene per farci inseguire “colpevoli” di cartapesta e per impedirci di comprendere i processi reali – la situazione dei Paesi europei che oggi sono nell’occhio del ciclone non è questa. La loro crisi è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero (ossia consumano da anni più di quanto producano). Quando succede questo, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici di quel Paese accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi.
L’elenco dei Paesi europei che oggi si trovano in questa situazione contiene qualche sorpresa: vi troviamo infatti non soltanto Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, ma anche Regno Unito, Francia e Italia (la nostra bilancia commerciale si è chiusa nel 2010 in passivo per oltre 29 miliardi di euro). Tutti questi Paesi sono caratterizzati da un calo del peso dell’industria e da un peso rilevante, invece, di settori non rivolti all’esportazione (commercio al dettaglio, edilizia, trasporti, servizi al consumo e simili); in particolare, è relativamente bassa la loro quota di esportazioni verso i Paesi a crescita più elevata. La presenza nell’elenco di Francia, Regno Unito e Italia ci fa capire che il problema degli squilibri strutturali nei conti con l’estero non interessa soltanto i Paesi già andati in crisi, ma è molto più generale e potenzialmente dirompente.

Ma consideriamo ora gli Stati già investiti dalla crisi del debito. Nessun prestito potrà risolvere il problema sottostante all’indebitamento del loro settore pubblico, ossia la loro crisi di solvibilità. Anzi, potrà soltanto aggravarlo. E questo per almeno due motivi. Il primo è ovvio: i prestiti devono essere restituiti, e anche con gli interessi. Quindi, se i deficit strutturali non migliorano, i prestiti ricevuti non faranno che peggiorare la situazione. Il secondo motivo è rappresentato dalle condizioni che accompagnano questi prestiti. Esse prevedono sempre una forte riduzione della spesa pubblica e l’incitamento a riequilibrare i propri conti con l’estero (migliorando la competitività delle proprie merci e simili). Tutto molto ragionevole, in apparenza. Purtroppo però la richiesta di ridurre la spesa pubblica comporta una forte riduzione della domanda interna se i tagli riguardano le spese sociali, e un peggioramento in prospettiva della competitività di sistema se i tagli riguardano invece gli investimenti (ad esempio quelli in ricerca e sviluppo tecnologico, o in formazione, o in infrastrutture). Quanto alla richiesta di riequilibrare i conti con l’estero, visto che ormai per i Paesi che fanno parte dell’euro le svalutazioni competitive sono impossibili, è praticamente impossibile in tempi brevi aumentare le esportazioni in misura sufficiente a riequilibrare i deficit commerciali. C’è quindi un’unica strada: ridurre drasticamente le importazioni. Ma nel caso della Grecia esse andrebbero ridotte del 50%, in quello del Portogallo del 20%. Questo presuppone una riduzione anche molto violenta della domanda interna, che ha l’effetto di deprimere l’economia, e quindi di ridurre le entrate fiscali, accrescendo così il deficit statale. Sono misure impossibili: il primo ministro portoghese il 23 marzo si è dimesso proprio per questo. Dopodiché le elezioni hanno determinato un avvicendamento al governo, che però sarà assolutamente indifferente con riguardo alle misure imposte dall’Unione Europea e dalla BCE: le politiche di questi Paesi, ormai – in assenza di movimenti popolari in grado di imporre un radicale rovesciamento delle priorità politiche e delle “compatibilità” – si decidono infatti a Bruxelles.

…ma la Grecia va a fondo
L’assurdità di quanto viene richiesto è evidente nel caso della Grecia. Per capirlo basta ripercorrere per sommi capi quello che è accaduto negli ultimi anni.
Troppo spesso i nostri giornali negli ultimi mesi hanno rinchiuso la Grecia nel cliché ingiusto, e francamente anche un po’ ridicolo, di una sorta di paese di Bengodi, dove gli abitanti si sono dati alla pazza gioia per anni a spese dell’Unione Europea. La realtà è ben diversa. La Grecia è uno dei Paesi più poveri d’Europa. Dopo l’ingresso nell’euro i redditi diminuiscono, le famiglie si impoveriscono, le produzioni greche non riescono a sostenere la concorrenza dei Paesi più forti. Al tempo stesso, l’evasione fiscale è (con quella italiana) la più alta d’Europa, e le spese militari in proporzione alla ricchezza del paese sono addirittura le più alte d’Europa. Per restare nel club della moneta unica (anzi, già per entrarci) i conti vengono truccati: ma le istituzioni europee chiudono un occhio, perché così conviene agli Stati che esportano merci e prestano soldi alla Grecia, Germania e Francia in testa. La cosa sembra sostenibile negli anni di grande crescita (drogata) che precedono lo scoppio della crisi economica mondiale nel 2007-2008. Poi tutto salta per aria. A fine 2009 emergono i trucchi contabili e i problemi del debito pubblico. A maggio 2010, dopo mesi di tentennamenti, l’Unione Europea mette in piedi un piano di salvataggio: che in realtà salva soltanto le banche tedesche e francesi, che avrebbero perso un sacco di soldi se i titoli di Stato greci non fossero stati rimborsati al 100%. In cambio chiede un piano lacrime e sangue che finisce di distruggere l’economia greca: crollo della crescita, degli investimenti, dei salari (-20%), impennata della disoccupazione (+14%); crollo anche delle tasse (perché se non guadagno niente non pago le tasse): e quindi peggioramento della spirale debitoria.
In definitiva, la cura da cavallo imposta a questo Paese in cambio del “salvataggio” operato nel 2010 non solo non ha affatto sortito gli effetti sperati, ma ha peggiorato la situazione. Tanto da rendere praticamente certa almeno una ristrutturazione del debito pubblico greco. A marzo le probabilità che entro 5 anni la Grecia non sia in grado di onorare il suo debito sono stimate al 58%. Il Consiglio Europeo dell’11 marzo si decide quindi ad abbassare il tasso di interesse pagato dalla Grecia per il prestito ricevuto nel 2010, prorogando inoltre la scadenza del debito da 3 a 7 anni e mezzo. Di fatto, già questa è una ristrutturazione del debito greco, molto prossima a una dichiarazione di parziale insolvenza. Ma non basta. La situazione continua ad avvitarsi. A fine maggio, non un cittadino greco qualsiasi, ma il Commissario europeo per la pesca, Maria Damanaki, afferma che “lo scenario di una uscita della Grecia dall’euro ormai è sul tavolo”. Le probabilità di un default greco continuano a salire. L’11 giugno, infine, la cancelliera tedesca Angela Merkel – sino a quel momento assai ondivaga – rompe gli indugi e in un drammatico messaggio video afferma: “Bisogna salvare la Grecia, o una crisi molto peggiore di quella scatenata nel 2009 dal fallimento di Lehman Brothers si abbatterà sull’economia mondiale e travolgerà anche l’economia tedesca”. Le banche private tedesche e francesi si dicono disposte a cooperare, sottoscrivendo nuove emissioni di titoli di debito pubblico della Grecia per rimpiazzare le obbligazioni in scadenza. Si tratta a tutti gli effetti di una ristrutturazione del debito greco (in termini formali è un riscadenzamento: si allungano le scadenze per il rimborso del debito, anziché farsi pagare oggi di meno; ma concettualmente è la stessa cosa). In questo modo si apre una grave frattura con la Banca Centrale Europea, che si è sempre schierata contro una tale eventualità, perché teme di maturare perdite sui 45 miliardi di euro di titoli di Stato greci che ha ricomprato dalle banche europee in questi mesi, ma soprattutto perché ha paura di un effetto domino sui titoli di debito di tutti gli Stati in difficoltà dell’Eurozona. Il punto è che allo stato attuale l’unica alternativa ad una ristrutturazione è una vera e propria insolvenza, che avrebbe conseguenze ancora peggiori.

Con la Grecia, affonda il Titanic Europa. Italia inclusa
Quello che terrorizza la Merkel è però ancora un’altra eventualità: la possibilità che la Grecia alla dichiarazione di insolvenza accompagni l’uscita dall’Unione Europea, ossia dall’euro (il trattato in vigore infatti non prevede un’uscita volontaria dall’euro, ma soltanto dall’Unione Europea). È un terrore tardivo, ma giustificato. Probabilmente infatti sarebbe l’inizio di una serie di esplosioni a catena, che terminerebbero con la fine della moneta unica, di cui i tedeschi sono stati i principali beneficiari.
Il problema però è che, al punto a cui stanno oggi le cose, anche il riscadenzamento dei debiti della Grecia tardivamente sponsorizzato dalla Germania servirà a poco: da un lato abbiamo la depressione economica indotta dalle misure straordinarie di taglio della spesa pubblica e delle prestazioni di un anno fa, e quindi un crollo dell’attività economica, degli investimenti, dell’occupazione, ma anche il peggioramento dei conti pubblici (per via della diminuzione delle entrate fiscali) e la crescita del debito pubblico, che è ormai al 143% del prodotto interno lordo; dall’altro, il rialzo dei tassi di interesse della zona euro, che come abbiamo visto farà crescere gli interessi sul debito.
Nessuno nell’establishment europeo osa ammetterlo, almeno in pubblico, ma ormai l’uscita della Grecia dall’euro è la cosa più probabile. Molti analisti finanziari ormai danno la cosa per scontata. In questo modo la Grecia si riapproprierebbe, sia pure a caro prezzo, della propria sovranità monetaria. Ma i problemi non riguarderebbero soltanto la Grecia. Un elenco di quello che succederebbe se la Grecia dichiarasse insolvenza si trova in un articolo dell’economista inglese Andrew Lilico pubblicato sul Telegraph del 20 maggio scorso (What happens when Greek defaults):
1) tutte le banche greche immediatamente falliscono [perché hanno in portafoglio un terzo dei titoli di Stato greci]
2) il governo greco le nazionalizza e impedisce forzosamente prelievi dalle banche
3) per reprimere la rivolta dei risparmiatori, il governo dichiara il coprifuoco e la legge marziale
4) la Grecia inizia a stampare una nuova moneta e ridenomina il proprio debito in questa moneta (“nuova dracma”)
5) la nuova dracma svaluta del 50%, cancellando così metà del debito pubblico
6) il governo portoghese assiste all’evolvere della situazione greca e, se la ritiene sotto controllo dal punto di vista militare, dichiara insolvenza a propria volta
7) un buon numero di banche francesi e tedesche accumulano perdite tali da non rientrare nei requisiti minimi di capitale previsti dalla normativa
8) la Banca Centrale Europea è a sua volta insolvente, a causa della propria esposizione sul debito pubblico della Grecia e sulle banche greche e irlandesi
9) i governi francese e tedesco si incontrano per decidere se ricapitalizzare la BCE o permetterle di stampare moneta per recuperare la propria solvibilità: alla fine decidono di ricapitalizzarla (e di ricapitalizzare le proprie banche) ma dichiarano che è l’ultimo salvataggio
10) crollano le obbligazioni bancarie spagnole
11) poi l’attenzione degli investitori comincia a rivolgersi alle banche inglesi…

Ovviamente, a questo elenco si potrebbero aggiungere altre conseguenze plausibili. Tra le più probabili, va menzionato un forte rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato di tutti i Paesi considerati in difficoltà, inclusa l’Italia. Che tra l’altro sta già finendo sotto i riflettori degli investitori internazionali essenzialmente per due motivi:
1) il primo è rappresentato dalla sciagurata revisione delle regole di Maastricht decisa al Consiglio Europeo del 24 marzo, che impone ai Paesi ad alto debito manovre di rientro nella misura di un 1/20 del debito eccedente il 60% del prodotto interno lordo ogni anno. Questo obiettivo – accettato supinamente dal governo Berlusconi – comporta tagli alla spesa pubblica (e quindi degli investimenti pubblici) tali da colpire fortemente la domanda interna e anche la crescita della competitività (a cui sarebbe essenziale, ad es., un potenziamento delle infrastrutture);
2) il secondo è la bassa crescita (e il disavanzo commerciale), che rende impossibile diminuire il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo attraverso un’aumento del pil anziché attraverso una riduzione del debito.
È evidente che, se a questi problemi già sul tappeto si aggiungesse un forte rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato (ossia degli interessi che lo Stato deve pagare ai suoi debitori), la situazione diverrebbe assolutamente incontrollabile. E condannerebbe il nostro Paese, se si decidesse di accettare la linea di rigore cara alla BCE e alla Commissione Europea, a un destino greco: manovre lacrime e sangue per ridurre il debito, depressione economica e quindi aumento del debito; e in prospettiva, dopo altri anni di stagnazione, l’insolvenza.

Conclusioni
Proviamo a trarre qualche conseguenza da quanto abbiamo visto.

1. La strategia di attacco al debito voluta dall’establishment europeo (quindi Bruxelles e Francoforte, ma anche – ed è bene sottolinearlo – i governi nazionali che partecipano al Consiglio Europeo, incluso quello italiano) conduce inevitabilmente ad una riduzione della domanda.
Essa infatti prevede:
a. che il debito pubblico sia ridotto attraverso un surplus primario delle finanze pubbliche (e questo implica minore domanda legata alla spesa pubblica);
b. che il debito delle famiglie sia ridotto attraverso una crescita del tasso di risparmio;
c. che il debito delle imprese rientri almeno in parte, la qual cosa può avvenire solo attraverso l’effetto combinato di una crescita del saggio di profitto e di un calo del tasso di investimento, e quindi una crescita del tasso di autofinanziamento nella misura utile a ridurre il debito.
Tutti questi elementi concorrono a deprimere la domanda. È una strategia che può funzionare soltanto a patto che il Paese interessato abbia una forte vocazione esportativa e che esporti soprattutto al di fuori dell’Unione Europea. Questa condizione si applica soltanto alla Germania, e – in parte – ad Austria, Olanda e Finlandia. Non si applica a nessuno dei Paesi del Sud Europa (Francia e Italia incluse).
2. Pertanto la strategia europea di rientro del debito ha i seguenti caratteri:
a. è marcatamente di classe: il rientro dal debito pubblico, per tutti gli Stati che hanno impegnato ingenti risorse per salvare il sistema finanziario nel 2008 e 2009, significa che questi soldi ora si vanno a prendere riducendo il salario indiretto (le prestazioni sociali) e differito (le pensioni): a questo infatti nella sostanza si riduce gran parte delle manovre di rientro elaborate dai governi.
b. È discriminatoria nei confronti di alcuni Paesi europei, la cui struttura produttiva mal si adatta a questa strategia. Per questa via, le attuali strategie europee di rientro dal debito di fatto fanno sì che la distruzione di capacità produttiva necessaria per far riprendere i profitti avvenga principalmente a spese delle attività manifatturiere dei Paesi del Sud Europa, accentuando processi di deindustrializzazione già da tempo in atto in questi Paesi (tra cui il nostro).
3. Ma siccome gli effetti di queste manovre sono socialmente ed economicamente distruttivi per alcuni Stati, e siccome è praticamente scontato un effetto domino a livello europeo
a. per le ripercussioni che l’esplodere di crisi del debito nei Paesi del Sud avranno inevitabilmente sui sistemi bancari dei Paesi del Nord;
b. per le ripercussioni che tutto questo avrà sulla struttura stessa dell’Unione Europea, a partire dalla moneta unica;
c. per il possibile innesco di un’altra crisi simil-Lehman (ma l’esempio migliore sarebbe quello del Creditanstalt austriaco nel 1931);
allora la strategia europea ha un’altra caratteristica: non funziona in generale. Ossia, alla lunga, per nessuno. Neppure per la Germania.
4. Per quanto riguarda più in particolare l’Italia, un’intransigente opposizione ai tagli della spesa pubblica che si prospettano è obbligata dai seguenti punti di vista:
a. Si tratta di misure di classe, alle quali va contrapposta la possibilità concreta di recuperare sul piano delle entrate, attraverso lotta all’evasione fiscale (120 miliardi il gettito evaso ogni anno) e imposte patrimoniali ben calibrate, le somme sufficienti a manovre anche di entità significativa. Ovviamente il problema è la volontà politica: questo governo non può agire in tal senso perché eroderebbe in misura significativa la propria base elettorale.
b. Si tratta di misure che, in quanto imperniate sulla riduzione della spesa pubblica, per i motivi visti sopra non scongiurano la crisi del debito, ma la rendono più probabile e più catastrofica.
c. Si tratta di misure che comportano un sostanziale ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’economia, riportando di fatto la situazione all’era del laissez faire dell’Italia pre-unitaria.
d. Infine, è il vincolo stesso alla riduzione del debito secondo le modalità viste sopra (di fatto un peggioramento dello stesso trattato di Maastricht) in una fase economica come l’attuale a risultare penalizzante oltre misura in particolare per l’Italia. Da questo punto di vista dev’essere denunciata la gravità sul piano della stessa sovranità nazionale dell’accettazione da parte del governo Berlusconi di queste norme-capestro dall’effetto potenzialmente devastante per il nostro Paese.

In questo contesto, è compito dei comunisti italiani
1. Consolidare i rapporti con tutti i partiti e i movimenti che in Europa si battono contro le manovre micidiali imposte dall’Unione Europea, a partire dai compagni del KKE in Grecia e del PCP in Portogallo.
2. Contrapporre all’Europa dei capitali, che sta implodendo sotto i colpi della crisi e per le proprie interne contraddizioni, un’Europa del lavoro: che non significa astrattamente “più diritti” nell’attuale contesto di mercato capitalistico (come in qualche cialtronesca “nuova narrazione” ci capita di sentire), ma – in concreto – un’Europa che unifichi verso l’alto gli standard salariali e di protezione dei lavoratori, difenda lo Stato sociale e allarghi la sfera di ciò che è pubblico, introducendo forme di orientamento e di controllo sociale della produzione.
3. Lanciare una grande battaglia per la democrazia in Europa: per restituire alla sovranità popolare tutti i poteri e le decisioni che in Europa sfuggono ad un controllo democratico.