Stefano Cucchi o dell’Umanità perduta

Stefano Cucchi è stato fermato a Roma da una pattuglia dei Carabinieri il 15 ottobre alle 23,30. Sottoposto a rito direttissimo, il 22 ottobre muore all’ospedale Sandro Pertini di Roma. In quest’arco di tempo si è consumata una tragedia che coinvolge, direttamente e indirettamente, responsabilità gravissime di soggetti a diverso titolo implicati nella gestione della vicenda, ma che, al contempo, chiama a responsabilità pregresse. Prima c’è stato un accanimento sul corpo di un giovane uomo di 31 anni, in non eccellenti condizioni di salute, poi, si è giocato con la sua anima, disprezzando le sue esigenze di salute – “non vedendole” – e negandogli il diritto alla difesa; il tutto ad una persona nella disponibilità dello Stato. È già di per sé terribile che un essere umano in custodia dello Stato perda la vita per propria scelta; ma è sconvolgente che la perda per mani dello Stato. In entrambi i casi il custodito dipende integralmente dal custode e se questi viene meno al suo obbligo giuridico ed etico di tutelare l’integrità fisica e psichica, allora, si crea una frattura nei fondamenti stessi della convivenza civile. A Stefano, lo Stato ha tolto il bene supremo ed irripetibile della vita. Le singole responsabilità vanno ricercate – non pare che ciò sia difficile – e perseguite con la giusta severità che il caso impone, ma la questione della democrazia, e della democrazia negli apparati e nei gangli dello Stato, non si risolve con una sentenza di condanna di chi ha criminalmente causato la morte e che, comunque, non chiamerà in causa chi non ha “visto”, chi ha scelto il “silenzio”. All’udienza del 16 ottobre, giudice, pubblico ministero e avvocato non hanno visto un uomo con gli occhi tumefatti e, se invece avessero “visto” sarebbero cambiate le sorti di Stefano? Vogliamo chiederlo? Vogliamo rompere la rassegnazione alla pratica dei compartimenti stagno, alla cultura del silenzio che genera mostri? È moralmente giustificabile – di fronte ad una società sempre più scomposta nelle sue forme di vita pubblica, sempre più caratterizzata da una illegalità (anche spicciola) diffusa – che un medico si trinceri dietro ad improbabili regolamenti interni di ospedale, trascurando il minimo etico di una condotta professionale (lasciamo stare quella umana) che da lui si pretende? “Vedere, questo è il punto essenziale!” . Nel 1948, con queste parole, Pietro Calmandrei esortava il Parlamento a compiere formalmente una seria indagine sull’universo carcerario e suoi dintorni e a squarciare il velo dell’ignoranza e dell’ipocrisia che copriva la condizione delle persone private della libertà personale. Quell’appello è sostanzialmente finito nel vuoto per ragioni che lui stesso prevedeva: “questi sono argo – menti sui quali di solito si ama di non insistere; si preferisce scivolare e cambiare discorso”.

AUTOTITARISMO PLEBISCITARIO

Noi pensiamo che su Stefano non solo debba restare alta l’attenzione a tutti i livelli, ma che da questo terribile evento si debba (ri)partire con una riflessione e una ricerca politica (in senso ampio) autentiche e anticonformiste per fermare – considerata la presente fase storica e la dislocazione delle forze in campo – la galoppante deriva di un autoritarismo plebiscitario che ormai palesemente mira a violare la dignità umana o con l’aggressione fisica o, soprattutto, con il plagio di una parte larga di cittadinanza attraverso l’abbassamento dei livelli mentali. Bisogna operare una rivoluzione culturale, facendo sì che diventi senso comune la condanna dell’arresto per possesso di piccole quantità di droga e per tutti i reati minimi, e non soltanto – come è più tranquillizzante per il potere – la condanna per la sconcezza di quell’arresto. Bisogna riprendersi l’idea che tutte le pene che non siano richieste dalla necessità sono tiranniche. In ipotesi contraria, riprendono il sopravvento le solite denunce (vere) sul sovraffollamento delle carceri e gli appelli per costruirne di nuove, magari affidandole in gestione ai privati, così perfezionando quella indifferenza morale che favorisce un contesto di assoluta ingiustizia contrabbandata dal pretesto di fare giustizia.

LA COSTITUZIONE VIOLATA

Tuttavia, il nostro ordinamento giuridico, civile e sociale poggia le basi nei valori e nei diritti fondamentali scolpiti in una Legge fondamentale: in una Costituzione non concessa dal sovrano, ma conquistata attraverso una grande lotta di popolo, mentre ancora fumavano le macerie prodotte dalla barbarie della guerra voluta da un regime costruito sull’ingiustizia, la disuguaglianza, e il razzismo. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà, recita l’art. 13 della Costituzione. Tale precetto si completa con il divieto posto dall’art. 27 “di trattamenti contrari al senso di umanità” e viene ripreso da Convenzioni internazionali che, da tempo, suggeriscono l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura (art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali).

IL REATO DI TORTURA RIMOSSO DALL’AGENDA DEL GOVERNO PRODI BIS

E dire che nel programma sulla giustizia dei partiti che andarono al governo nel 2006, tra gli obiettivi da realizzare in tempi stretti era compresa l’introduzione della fattispecie di reato di tortura, e tra le priorità si indicavano: il rafforzamento delle garanzie in tema di inviolabilità della libertà personale e una rapida ed adeguata tutela delle vittime del reato, la fine della c.d. detenzione sociale e, in definitiva, un diritto penale minimo e mite. Niente di tutto questo fu tentato, ma si preferì, da parte di una certa cultura giuridica in quel momento egemone nei partiti della sinistra, una scorciatoia in aperta mortificazione di tutte le conclamate priorità, con la convinzione, probabilmente, di parlare alle masse, quando un direttore di giornale di partito, qualche giorno prima delle elezioni del 2008, faceva parlare soltanto i detenuti al regime del 41 bis con la loro richiesta di abolizione dell’ergastolo; questione sicuramente da affrontare, ma solo avendo a mente le urgenze e le precedenze.

C’E’ CHI LAVORA PER NON GARANTIRE I DIRITTI, PERCHE’ VUOLE IMPUNITA’ PER SE’

Anche per questi gravi e non giustificabili ritardi si possono produrre eventi drammatici come quello di Stefano che già si profila come paradigmatico del presente che viviamo: balletti di responsabilità, depistaggi, cortine fumogene, dichiarazioni solenni di certezze di estraneità, di impegno ipocrita a fare chiarezza, o di sicura colpevolezza dell’ucciso, secondo il sottosegretario di Stato, il “cattolico feroce” Giovanardi di Modena. “Stefano Cucchi era uno spacciatore, è morto perché drogato e anoressico”. Così ha detto il sempre accalorato politico di governo, ricorrendo, poi, alla scontata pratica sportiva molto in voga, della ritrattazione/ precisazione/ negazione. Quello di Giovanardi non è un infortunio: le parole di prima intenzione svelano una idea di giustizia spiccia che si fa strada, che criminalizza ogni più insignificante presunta devianza, che sposa la formula “te la sei voluta tu”, che nega possa esistere un’ingiustizia dalla quale nasce il bisogno di giustizia, che straccia ogni sentimento di pietas che, almeno questo, deve esigersi da un sedicente cattolico. Eppure, con la forza dei mezzi che posseggono, lorsignori sarebbero riusciti a far passare il messaggio simbolico di un drogato morto accidentalmente, se non fossero apparse quelle raccapriccianti immagini fotografiche che parlano da sole e se la composta, seria e determinata famiglia non avesse manifestato sin da subito una decisa volontà di andare fino in fondo. Quei calci, quei pugni, quel pestaggio sono colpi inferti alla fiducia pubblica negli organi dello Stato, fiducia vitale per la democrazia. Quando un diritto umano è stato violato, niente può far sì che la violazione non sia avvenuta: l’intervento giudiziario può riparare il torto subito se il diritto è concepito per assicurare una giustizia fattuale, altrimenti si corre il rischio del ritorno alla barbarie. C’è chi lavora per non garantire i diritti, perché vuole le impunità per sé e pur di raggiungere l’obiettivo si accinge a cancellare oltre la metà dei processi dell’oggi e per l’avvenire, ricorrendo al processo breve che aprirà le porte alla democrazia breve.

*Associazione “Giuristi democratici”, Palermo