La lotta della INNSE ripropone la centralità operaia

La lotta degli operai della INNSE durata oltre sedici mesi e la vittoria ottenuta a metà agosto di quest’anno con l’accordo raggiunto, ripropongono in modo attuale e stringente un problema teorico e politico di grande peso, come quello della “centralità degli operai” nell’attuale contesto sociale.

UNA BATTAGLIA ESEMPLARE

Negli ultimi decenni l’offensiva sferrata dal capitale e le sconvolgenti demolizioni delle strutture industriali e produttive, attuate dai padroni nel nostro come in altri paesi, hanno provocato i più brutali licenziamenti di massa. La questione della “centralità operaia” avrebbe dovuto diventare il problema fondamentale e invece essa è scomparsa dall’interesse delle istituzioni, dall’agenda della politica, dall’impegno e dalle lotte del sindacato. La battaglia degli operai dell’INNSE offre un contributo decisivo all’affermarsi di un grande risultato che – anche se riferito ad una singola fabbrica e ad una specifica fase della lotta – ha visto gli operai “egemoni”, in uno scontro di classe durissimo, da essi condotto all’interno di un rapporto di forze all’inizio sfavorevole e diventato nel corso della lotta sempre più vantaggioso, fino a divenire vincente al concludersi del conflitto. È una battaglia esemplare per gli operai di tutte quelle fabbriche che i padroni vogliono chiudere. Il risalto stesso che la vicenda ha avuto, la spirale di emulazione iniziata a partire dalla metà del mese di agosto scorso parlano di una lotta i cui contenuti e le cui forme hanno in sé qualcosa di “universale”, capace di coinvolgere, indirizzare e determinare all’azione soggetti anche molto distanti dalla compagine operaia dell’INNSE, sia sul piano geografico che su quello della collocazione nel mondo del lavoro e dei processi produttivi. Questa lotta va però apprezzata non solo per il suo eroico epilogo, ma va valorizzata nella sua totalità, per gli innumerevoli fatti positivi che comprende, nell’intero periodo di tempo nel quale si svolge.

TRE FASI NELLA LOTTA DELLA INNSE

Le fasi che hanno contraddistinto la lotta possono essere così schematizzate: una prima fase, iniziata con l’annuncio della cessazione dell’attività e caratterizzata dal rientro degli operai in fabbrica e dalla riorganizzazione della produzione, ripartita il 2 giugno 2008; una seconda, aperta dallo sgombero dell’officina ad opera delle forze di polizia il 17 settembre 2008, caratterizzata dalla nascita del presidio permanente davanti ai cancelli di via Rubattino 81 e dallo svilupparsi di un’ampia ed eterogenea rete di solidarietà; una terza – la più breve – aperta dal tentativo di sgombero del presidio e di smantellamento delle macchine, cominciata con l’operazione di stampo militare delle forze dell’ordine, la mattina del 2 agosto 2009 e chiusasi una decina di giorni più tardi con la firma dell’accordo con il gruppo Camozzi di Brescia e l’aprirsi della concreta prospettiva della ripresa dell’attività. Ciascuna di queste fasi si è articolata in momenti diversi, in avanzate e riti- rate, lunghe fasi di stallo interrotte sovente da tentativi di colpi di mano polizieschi e nella ciclica apertura e chiusura di tavoli di trattative snervanti e inconcludenti, dal presentarsi e dallo scomparire di attori istituzionali e possibili acquirenti, dal confronto quotidiano tra gli operai e tra essi e le organizzazioni sindacali sulla linea d’azione più appropriata da seguire giorno per giorno, ora per ora.

CONTRO LA CHIUSURA SI RIORGANIZZA LA PRODUZIONE

La prima reazione operaia all’annuncio della cessazione dell’attività è stata il reingresso nella fabbrica, nella notte tra il 31 maggio e il primo giugno 2008, e la riorganizzazione dell’attività produttiva, finalizzata a tenere vive le macchine e a favorire la ricerca di un acquirente capace di garantire la ripresa e il rilancio dell’attività produttiva. Nel qualificare questa prima fase, gli operai stessi rifiutano la definizione di “autogestione”: l’esaurimento delle commesse e la ricerca di nuovi ordinativi hanno continuato, in quei mesi, ad arricchire il padrone, Silvano Genta. Non si è dunque fermato il processo di estrazione del plusvalore; i rapporti interni alla fabbrica sono rimasti formalmente immutati. In cosa consiste l’elemento progressivo, in questa prima fase di resistenza? La determinazione operaia ha esautorato l’arbitrio padronale, ha respinto l’idea che il padrone possa disporre a suo piacimento in merito all’attività produttiva e al destino dei mezzi di produzione sui quali gli è riconosciuto, nella nostra società, quel diritto che è il cardine sui cui si regge l’impalcatura dei rapporti di produzione capitalistici: il diritto di proprietà.

ROMPERE L’ISOLAMENTO E RICOSTRUIRE ALLEANZE

Ormai tutti parlano della lotta vincente degli operai dell’INNSE. Moltissimi sostengono che bisogna fare come loro. Molti imitano quella nuova ed inedita forma di conflitto, soprattutto nella parte più rischiosa e appariscente che consiste nell’arrampicarsi e nel rimanere più a lungo possibile sulle strutture più alte delle fabbriche o sui tetti e i cornicioni degli edifici pubblici e privati. Ma questa è solo l’ultima fase di una vertenza in cui le iniziative e le azioni degli operai dell’INNSE sono state molteplici e diversificate. Non passava settimana che non vi fossero almeno due o tre progetti, proposte e piani di intervento. Gli operai non si sono mai rinchiusi e isolati nella portineria occupata del presidio di via Rubattino (dove per tutto il periodo della lotta ha funzionato una mensa aperta a sostenitori e simpatizzanti, organizzata da una compagna operaia ora in pensione). Essi hanno invece costantemente ricercato contatti, relazioni, confronti, trattative ed accordi con il mondo esterno alla fabbrica e con la realtà sociale e politica circostante. Innumerevoli sono stati gli incontri realizzati nella sede del presidio (ma anche all’esterno di esso) con operai di altre fabbriche, con lavoratori, cittadini, studenti, giovani dei centri sociali. Numerosi pure i volantinaggi effettuati per chiedere al mondo del lavoro e alla città sostegno ed appoggio che subito si sono manifestati in modo consistente, anche per quanto riguarda gli aiuti economici e materiali. Non si contano poi le riunioni e gli incontri fatti con organizzazioni come la Fiom-Cgil di Milano e nazionale e la Camera del Lavoro di Milano; o con alcuni partiti politici (non solo di sinistra) e con associazioni come i circoli Arci, i centri sociali e molti altri soggetti della solidarietà di classe. Gli operai insieme a numerosi sostenitori hanno frequentemente attuato dimostrazioni, ad es. nei confronti del padrone Silvano Genta a Settimo Torinese, dove si trovano gli uffici e i magazzini principali dell’azienda e dove è stata organizzata una manifestazione di protesta che ha percorso le vie della città per denunciare le colpe e le canagliate del padrone speculatore. Oppure gli operai hanno manifestato davanti alla sede della immobiliare AEDES, proprietaria del terreno su cui sorge lo stabilimento di via Rubattino, e l’hanno occupata. E ancora, essi hanno messo in atto frequenti presìdi davanti alle sedi della Prefettura, della Provincia e del Comune di Milano, della Regione Lombardia, degli studi legali degli avvocati di Genta e di una società alla quale Genta aveva illecitamente venduto alcune macchine, che sono ritornate alla fine a far parte della dotazione industriale della INNSE. Non passava giorno che non ci fossero trattative da fare, scontri da sostenere, accordi da raggiungere con istituzioni, organi ed apparati dello Stato come il prefetto, il questore, la Digos, la Provincia e il Comune di Milano, la Regione Lombardia, il Ministero delle attività economiche e dello sviluppo, i magistrati incaricati di seguire le innumerevoli cause della INNSE, singoli assessori e consiglieri regionali, provinciali, comunali, di zona e numerosi altri soggetti pubblici.

UNA CONFLITTUALITA’ INTRANSIGENTE

Molto duri sono sempre stati i rapporti con la controparte padronale aziendale, impersonata dal “rottamaio” e speculatore torinese Genta, vero scellerato protagonista della chiusura di una fabbrica manifestamente produttiva e della rovina di 50 dipendenti (e delle loro famiglie) gettati a metà settembre del 2008 in mezzo alla strada, ma fortemente determinati a resistere. Genta voleva vendere le macchine stracciando vincoli e impegni imposti dalla legge Prodi, che tre anni fa gli aveva permesso di acquisire la fabbrica per quattro soldi. I suoi ripetuti tentativi di entrare con i camion per svuotare l’officina sono stati respinti dagli operai della INNSE. Al secondo tentativo, messo in atto da Genta il 14 gennaio 2009, davanti ai cancelli non c’erano più solo i dipendenti della INNSE, ma anche delegazioni di altre fabbriche, funzionari e militanti politici e sindacali, giovani mobilitati dai centri sociali, esponenti politici che si sono incatenati ai cancelli. Una vasta solidarietà era prontamente scattata nei confronti degli operai della INNSE. Fortemente conflittuali (fino all’insediamento del nuovo Consiglio di amministrazione avvenuto nella primavera del 2009) sono stati i rapporti degli operai della INNSE con la proprietaria dell’area, l’immobiliare AEDES, che chiedeva di poter disporre del terreno su cui sorge la fabbrica, per permettere ai palazzinari di chiuderla e di fare una grossa speculazione con cui avviare l’operazione dell’EXPO a Milano. Gli operai occupavano la sede della AEDES per avere dall’amministratore delegato informazioni sulle intenzioni della società. Successivamente all’insediamento del nuovo consiglio della AEDES i rapporti sono apparentemente migliorati.

Proseguivano intanto fiaccamente le trattative tra le forze politiche in Regione per trovare tra il potenziale acquirente bresciano ORMIS e AEDES la possibilità di proseguire l’attività della fabbrica. Ma il culmine del conflitto è stato quando alle 5 del mattino del 10 febbraio 2009 trecento uomini dei carabinieri, della polizia e della Digos, in assetto di guerra e in tenuta antisommossa, hanno protetto Genta che è entrato in fabbrica con tre camion. Carabinieri e polizia hanno usato il manganello contro gli operai e i loro sostenitori e tre operai della INNSE sono finiti al pronto soccorso per ferite e contusioni. Gli operai però nello scontro hanno tenuto testa e resistito in prima fila alla carica della polizia; il tafferuglio che ne è seguito ha costretto la polizia e l’avvocato di Genta ad accettare che un rappresentante della RSU e un funzionario della Fiom entrassero in fabbrica per accertare che Genta portasse fuori solo rottami, ma lasciasse intatto il parco macchine necessario per riprendere l’attività produttiva. Sono stati sopra riportati solo alcuni esempi di costruzione della solidarietà, ma anche di resistenza e di lotta, messi in atto dagli operai della fabbrica per dimostrare che, prima della fase epica e spettacolare che conosciamo, sono state attuate, da una parte, alleanze con soggetti e forze che hanno poi sostenuto le ragioni e le azioni degli operai, mentre, dall’altra, sono stati promossi conflitti e scontri con controparti e istituzioni che dovevano essere contestate, attaccate e rese meno aggressive. Il momento più emozionante è stato vissuto a mezzanotte e mezzo del 12 agosto 2009, quando i quattro operai della INNSE sono scesi dal carroponte e hanno portato sulle spalle il loro portavoce in mezzo a una folla esultante che scandiva slogan come: “Giù le mani dalla INNSE!” e “La INNSE, la INNSE ce l’ha insegnato, la lotta dura ha pagato!”. Dopo oltre sedici mesi, con l’accordo raggiunto, gli operai sconfiggevano Genta che, il 31 maggio 2008, voleva liberarsi di loro, inviando ad ognuno un cinico telegramma: “Abbiamo cessato ogni attività”. Dopo otto giorni di sospensione nel vuoto del carroponte a venti metri da terra e dopo tante preoccupazioni per le famiglie, per i partecipanti al presidio e per molti cittadini si concludeva una forma di lotta che sta avendo molte emulazioni tra gli operai di tante fabbriche in crisi. Se questa forma di lotta fosse meccanicamente applicata a qualsiasi fabbrica in crisi, senza essere supportata da conflitti e scontri come quelli avvenuti alla INNSE, essa – pur meritando massima considerazione e totale solidarietà e sostegno – potrebbe tuttavia non avere la forza e l’efficacia che ha avuto alla INNSE.

CRISI E RESISTENZA OPERAIA

È stato detto che i quattro operai sul carroponte della fabbrica, più il funzionario Fiom, sono il “prodotto della crisi”. Ma di quale crisi si sta parlando? Quella che abbiamo di fronte non è una crisi settoriale o di un singolo ramo della produzione. È una crisi di sovrapproduzione che ha investito il capitalismo nel suo in- sieme e che ha coinvolto tutta la struttura economica. Lo scontro che in essa esplode fra operai e padroni è allora così grave e totale che gli operai sono costretti ad attuare forme di lotta nuove e fuori dall’ordinario, come alla INNSE. “Uscire dalla crisi”, sia pure da sinistra, è espressione e proposta minimalista e fuorviante. L’obiezione che fanno operai e sfruttati è che, se si esce dalla crisi senza mettere in discussione rapporti di proprietà, di produzione e di classe, tanto vale non battersi per questo obiettivo, perché bassi salari e sfruttamento rimarrebbero immutati. Che senso ha uscire dalla crisi per continuare a guadagnare 800 o 1000 euro al mese? Dobbiamo superare la mistificazione secondo cui tutti avremmo gli stessi interessi nel superamento della crisi. Per i padroni uscire dalla crisi significherà comunque un livello superiore di sfruttamento, in primo luogo degli operai. L’uscita dalla crisi di parte operaia potrà solo voler dire conquistare un modo di produzione e di scambio non più fondato sul capitale. Alla domanda se sia più giusto uscire dalla “crisi del capitalismo” o dal “capitalismo in crisi”, la risposta è che si deve uscire dal capitalismo tout court.

LA CASSA INTEGRAZIONE NON E’ LA SOLUZIONE!

Questa crisi è diventata un’occasione per governo e padroni per fare piazza pulita dei diritti dello stato sociale e di quelli del “sistema contrattuale”. È sbagliato incentrare la battaglia solo sull’estensione degli ammortizzatori sociali, per l’aumento delle giornate di cassa integrazione e della indennità economica: si rischia di distogliersi dalla lotta per la difesa e il salvataggio dei posti di lavoro, bloccando i licenziamenti, impedendo che le fabbriche “vengano chiuse”. La falsa tesi, secondo la quale il superamento della crisi si verificherebbe in tempi relativamente brevi, è stata divulgata ad arte dai padroni, i quali in questo modo vogliono giustificare per un periodo di tempo più o meno breve, ma carico di sacrifici per i lavoratori, l’utilizzo incontrollato e spropositato degli ammortizzatori sociali a favore delle aziende in crisi. Se nel periodo che ci separa dalla fine della crisi i dipendenti delle aziende dovranno fare qualche debito o utilizzare i risparmi per vivere, pazienza – dicono i padroni – successivamente le condizioni di vita torneranno normali. L’uso massiccio e spregiudicato degli ammortizzatori sociali è funzionale alla tesi inventata dell’imminente superamento della crisi. Ma questa pratica degli ammortizzatori non può essere accettata dagli operai delle fabbriche che chiudono, dai licenziati e andrà presto in crisi anche fra i cassintegrati arrivati a scadenza. Queste categorie di operai vengono espulse dalle fabbriche senza alcuna possibilità di ritorno, perché le fabbriche sono state chiuse, non ci sono più. Già in partenza, con la firma di migliaia di accordi sindacali si decide che interi stabilimenti vengano chiusi. Nella migliore delle ipotesi l’espulsione dalle fabbriche viene rinviata alla scadenza della cassa integrazione, dalla quale si passa alla mobilità e quindi al licenziamento. Ma se le fabbriche vengono chiuse, cassintegrati e operai in mobilità dove riprenderanno il lavoro? Cassa integrazione e mobilità diventano solo un alibi e un inganno per licenziare liberamente. Poiché questa crisi produce solo la chiusura di fabbriche, cassa integrazione e mobilità sono un tacito accordo, un sottaciuto consenso a licenziare. Il marchingegno serve al padrone per evitare lo scontro e rinviarlo nel tempo. Ristrutturare a suo arbitrio la fabbrica, sparpagliare in ogni dove i dipendenti, far sparire quel punto di incontro “naturale” che è il luogo di lavoro – questo il padrone ottiene, applicando gli ammortizzatori sociali. Ma egli acquista anche mano libera sull’esercito di riserva extracomunitario del lavoro, mentre chi è disoccupato o in “cassa” deve sgrovigliarsi da solo ogni problema. Si arriverà a un punto in cui sarà così alto il numero dei disoccupati che dovranno decidere di non abbandonare le fabbriche e di stare uniti per coordinare la loro azione. Nelle fabbriche milanesi, firmare una così grande quantità di accordi per la “cassa integrazione” è dannoso ed autolesionista perché si accetta la soppressione di posti di lavoro, non si difende (ma si riduce) l’attività produttiva e si espellono dalle aziende i più combattivi militanti sindacali facendo un regalo ai padroni. Battersi, come fanno certi dirigenti sindacali, solo per la cassa integrazione, significa infischiarsene dei posti di lavoro e far regalare ancora più soldi dallo Stato ai padroni, che licenziano per aumentare la produttività e lo sfruttamento dei dipendenti. Le RSU, non firmando, possono cercare altre strade, portare alle estreme conseguenze la lotta contro i licenziamenti e la chiusura delle fabbriche affinché venga finalmente in luce che le fabbriche si chiudono nella crisi perché vengono strangolate dalla stessa corsa al profitto che era stata la loro ragione di esistenza.

PERCHE’ TARDA IN ITALIA LA RISPOSTA OPERAIA ALLA CRISI

Se si eccettua la relativa ripresa delle lotte, con gli scoppi improvvisi dei conflitti e l’occupazione dei tetti e delle strutture aeree delle fabbriche di queste ultime settimane, non si può dire che vi sia stato in Italia – fino a questo momento – un serio segno di rivolta contro gli effetti della crisi. Eppure, con centinaia di migliaia di operai colpiti dalla crisi, ce ne sarebbe abbastanza per una ribellione di massa, per una ondata di scioperi, per un sommovimento e un sussulto delle lotte. Niente di tutto questo. Alcuni sostengono che in Italia c’è una parziale arrendevolezza degli operai nelle lotte, destinati – si dice – al declino a causa di una logica irreversibile. Ma la vera ragione è altrove: anni e anni di moderazione e di “concertazione sindacale” hanno azzerato il mordente e l’incisività del sindacato e sottratto vigore e combattività ai suoi militanti ed iscritti. Di questa politica sindacale, promossa e praticata, oltre che da CISL e UIL, anche dalla CGIL, gli operai sono stati i primi a subire le conseguenze più devastanti. Oggi il ministro Sacconi parla di “universalismo selettivo” che cancella tutti i diritti fondamentali. Viene proposto il passaggio dalla “concertazione” alla “complicità sindacale” (cioè al “collaborazionismo”, ad “accordarsi”, a “conciliarsi”, a “consentire”, a “costruire un aziendalismo” che oggi diventa un cappio al quale è difficile sfuggire). Ciò porta necessariamente all’“acquiescenza”, alla “collusione”, all’“inciucio” del sindacato con i padroni.

LA INNSE INDICA UNA RISPOSTA DIVERSA ALLA CRISI

Il messaggio che ci viene dalla INNSE è questo: le fabbriche sono tutte attaccate, troviamo un’altra strada per difenderci dalla crisi. I padroni dicono: vi diamo uno o anche due anni di cassa, purché abbandoniate la fabbrica e diciate che quel reparto, quella linea non esistono più. Ma al settantacinquesimo giorno della procedura di mobilità gli operai della INNSE non hanno firmato alcun patto che li estromettesse dalla fabbrica e hanno continuato a presidiarla e a ritrovarsi tutti i giorni sul posto di lavoro. Se si firmano invece certi patti ci ritroviamo una classe operaia sbandata e in mobilità. La crisi non finirà nel 2010 o 2011. Chiederanno agli operai altri sacrifici pesantissimi. Perché sacrificare tanta parte dell’apparato produttivo? Perché chiudere tante fabbriche? Considerando solo alcuni casi in provincia di Milano, alla Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, alla ESAB di Mesero, alla Metalli Preziosi e alla LARES di Paderno Dugnano, alla ALUPIEVE del Gruppo Alluminium Europa di Pieve Emanuele, alla Kunzle di Cinisello, alla Terex Comedil di Cusano Milanino, in queste e in tante altre fabbriche, perché si è fatto un così massiccio ricorso alla cassa integrazione, alla mobilità, ai licenziamenti dei dipendenti e alla chiusura delle fabbriche? Gli operai della INNSE hanno resistito e vinto non solo per se stessi: per questo chiedono a tutti di ricercare un’altra risposta alla crisi. Il grande investimento di resistenza e di lotta da loro fatto ed il patrimonio che ne deriva non possono essere dispersi. Ci sono tante altre INNSE di cui non si occupano i media, ma il loro silenzio va ascoltato; se si ascolta si capisce perché quegli operai non credono ormai più nelle istituzioni, nelle forze politiche, diffidano del sindacato, vogliono solo che le fabbriche non chiudano, non vogliono scendere nella miseria. A tutti gli operai delle fabbriche della provincia di Milano lo scorso giugno gli operai della INNSE, con un volantino distribuito in decine di migliaia di copie, hanno inviato il seguente appello: Vi chiediamo il sostegno diretto perché siamo convinti che la lotta della INNSE non è solo la nostra lotta, è la lotta di tutti gli operai che sono stati buttati in mezzo alla strada, di tutti quegli operai che ricattati hanno subìto la chiusura delle loro fabbriche, ma non si sono rassegnati. Se l’INNSE resiste tutti possono resistere, e l’INNSE potrà resistere solo con il vostro sostegno. In altri termini: “Se vi mettono in cassa integrazione, in mobilità o vi licenziano, se sgomberano la vostra fabbrica, non dovete andarvene a casa, non rassegnatevi, occupate se potete la fabbrica, presidiatela giorno e notte, continuate a produrre, impedite che il padrone porti fuori le macchine e le sottragga all’attività produttiva”.

LA BATTAGLIA PER LE MACCHINE

Oggi siamo di fronte a un disastro economico che mostra chiaramente il volto del modo di produzione capitalistico e all’interno di quel disastro chiudono i battenti molte aziende. Ma la INNSE ha un’altra particolarità; non è un’azienda che oggi subisce i rovesci del mercato, ha ordinativi e clienti. Chi l’ha spinta allora a cessare ogni attività, a chiudere i battenti e a buttare sul lastrico tutti i dipendenti? È stato il padrone-predone, Silvano Genta, speculatore di professione che ha puntato a tutto ciò, perché voleva realizzare con la vendita delle macchine parecchi milioni di euro, infischiandosene della produzione, fregandosene degli operai, anche se ha comprato quattro anni fa, grazie alla legge Prodi, l’intera fabbrica per soli 740 mila euro, che a Milano sono semplicemente il costo di un appartamento. Dalla storia anche meno recente dell’INNSE e dagli obiettivi e risultati della lotta odierna, emerge che gli operai da sempre si sono battuti per difendere, insieme al loro posto di lavoro, la fabbrica nella sua interezza: complesso indivisibile di macchine tutte indispensabili per riprendere al più presto la produzione, troncata un anno e mezzo fa dal padrone.

Ma gli operai della INNSE, come delle altre fabbriche, conoscono proprio sulla loro pelle la fabbrica nella duplice contraddittoria condizione: il luogo della “schiavitù”, la “galera industriale” e in pari tempo il “luogo della forza”, la “fortezza operaia”. Alla INNSE, come nelle altre aziende, le macchine rappresentano l’inizio e la fine dell’esistenza delle fabbriche, segnano l’itinerario della vita degli operai, che come “schiavi salariati” obbligati ad usarle, costituiscono il percorso completo del ciclo della produzione capitalista. Per questo esse acquistano quel potere determinante che le fa diventare arbitri decisivi della produzione, oggetto dello scontro fra operai e capitale, motivo di conflitto fra padrone e dipendenti sfruttati. Ecco allora perché durante l’intero periodo della lotta e del presidio della fabbrica, organizzato con l’occupazione della portineria esterna, la salvaguardia e la custodia da parte degli operai di tutte le macchine conservate dentro lo stabilimento è diventato il problema fondamentale. Alla INNSE i tentativi del padrone di portar fuori dalla fabbrica importanti macchine sono continuati dal primo giorno della lotta fino all’accordo del 12 agosto, ma sono stati sempre respinti dagli operai che presidiavano i cancelli. Al posto del “blocco delle merci” è stato praticato il “blocco delle macchine”. In realtà alla INNSE si è messo in discussione il rapporto fra mezzi di produzione e proprietà privata, fra macchinario e sua forma sociale. Una incrinatura forte, rilevata da pochi, prodotta contro la forza dello Stato e le sue leggi da un limitato ma agguerrito gruppo di operai. La pazzia di Genta si spiega così: essere il proprietario formale del macchinario e non poterne usufruire a piacimento. È stato relativamente facile metterlo in questa condizione; era ed è un padronepredone un po’ marginale rispetto all’industria, solo un commerciante di macchine usate.

AL PRESIDIO OPERAIO UNA SCUOLA DI TEORIA POLITICA

All’INNSE durante i sedici lunghi mesi di lotta, anche quando sembrava che ogni spiraglio di vittoria stesse per chiudersi, gli operai non hanno mai chiesto nessuna “garanzia per il dopo”.Quasi mai un operaio che lotta contro il padrone chiede: e dopo? Già la lotta contro il padrone e la sua organizzazione rappresentano un obiettivo per cui battersi, verso cui indirizzare tutte le forze. La classe operaia con la sua lotta acquista e dimostra la sua forza reale, diventa elemento vivo, attivo, forte, diviene cerniera dei rapporti sociali, si fa soggetto fondamentale. E pone questioni di fondo: è il vecchio mondo che bisogna abbattere, e per abbatterlo occorre il rovesciamento del potere, attuato con il rovesciamento della classe dominante. Da una parte la classe operaia, dall’altra la società capitalistica: questo è lo schema di sempre della lotta di classe. Qui sta l’importanza decisiva della ripresa della teoria. Nelle lunghe giornate passate al presidio di via Rubattino le discussioni, le polemiche ed i ragionamenti fra operai, studenti e militanti hanno avuto come oggetto gli argomenti sopra citati, come altri argomenti teorici e organizzativi sulle lotte, facendo diventare il presidio dell’INNSE per molti di noi un’importante esperienza pratica e intellettuale, un vero corso di studi sulle lotte operaie.

UNITA’ E AUTONOMIA DELLA CLASSE OPERAIA

Alla INNSE si è verificato un episodio di eroismo operaio. Un anno e quattro mesi di presidio sono un tempo infinito. Pochi o nessuno dei gruppi operai esistenti sul pianeta sarebbero capaci di una simile impresa. Con la salita dei quattro operai più il funzionario della Fiom sul carro-ponte è stata fatta un’operazione che, come qualcuno ha giustamente detto, ha le caratteristiche di una “azione partigiana”. Un progetto e un’organizzazione perfetti hanno permesso di raggiungere il risultato voluto, eludendo il controllo delle forze di polizia e convincendo gli smontatori ad abbandonare il lavoro e a lasciare la fabbrica. Ma quale reale insegnamento dobbiamo trarre dall’esperienza di cui stiamo parlando? La lotta dei dipendenti dell’INNSE è innanzitutto un esempio di “lotta di classe” e di “scontro fra capitale e lavoro” che va decisamente valorizzato e divul- gato fra tutti gli operai. È una battaglia straordinaria ed emblematica, di lunga durata e di ampio respiro: una forma eccezionale di lotta e di resistenza alla crisi, attraverso la quale si è formato, grazie al modo in cui è stata coordinata e diretta la RSU, un gruppo operaio di fabbrica preparato politicamente, coeso nelle scelte strategiche e tattiche, determinato nelle iniziative e nelle azioni di conflitto da mettere in campo. La INNSE rappresenta una scuola per ognuno di noi. Quella della INNSE è stata anche una lotta semplice, diretta, immediatamente comprensibile per tutti.

Questa lotta esalta la “soggettività operaia” e dice a tutti gli operai che vivono la medesima condizione che è possibile una “gestione diretta” della lotta. Questi operai sanno bene che essi sono i soli produttori e creatori di ricchezza, che il capitale usa per valorizzarsi. Quindi, non solo la necessità immediata e vitale di salvare il salario e la fabbrica, ma anche la piena consapevolezza dello sfruttamento consumato dal capitalismo hanno costituito il motore della lotta, il fondamento della sua forza e della sua intransigenza, che hanno portato alla vittoria. La tenace fermezza che li contraddistingue ha permesso loro di resistere al caldo, al freddo, alla neve, ai nubifragi e ha consentito ai quattro che sono saliti sul carroponte di reggere per dieci giorni fino alla positiva conclusione della vicenda. Quella della INNSE è una comunità operaia che sapeva “dove andare” e “come andare”, che ha affrontato lo scontro su tutti i terreni, da quello prettamente sindacale a quello politico e non ultimo a quello della pressione diretta delle forze dell’ordine. Una comunità operaia che non si è costruita da un giorno all’altro, che si è impossessata delle basi più elementari della critica teorica del sistema, che ha fatto dell’unità e dell’autonomia della classe operaia il perno centrale delle iniziative di lotta. I lavoratori della INNSE sostengono di aver dato vita così al “partito operaio”.

PER CONCLUDERE…

Il 12 ottobre la fabbrica riprende l’attività, tutti gli operai verranno riassunti, un gruppo rientrerà subito, gli altri gradualmente. Una vittoria? Grande senza dubbio, con un unico problema. Si torna a lavorare e gli operai che hanno condotto la lotta in prima persona conoscono bene queste cinque righe di Marx e non le hanno dimenticate, né le dimenticheranno: “Il possessore di denaro marcia in testa come capitalista; il possessore di forza lavoro lo segue come suo operaio; quegli con un sorriso altero e smanioso di affari; questi timido e recalcitrante; come chi abbia portato la sua pelle al mercato, e abbia ormai da attendere solo che … gliela concino”(Il Ca – pitale. Libro primo, cap. 4, §3, Compravendita della forza lavoro.

Milano, 8.10.2009
*rispettivamente
Comitato Politico Federale PRC Milano,
Comitato Politico Regionale PRC Lombardia.
L’articolo è stato redatto in collaborazione con gli operai protagonisti della lotta.