Storia e diaspora del PCI e lotta per una ricomposizione

*storico del movimento operaio

1. “Rinnovamento nella continuità” era una formula molto usata per definire la dinamica interna al PCI per quanto riguarda la linea, la strategia e la stessa cultura politica del Partito: uno slogan, se vogliamo, ma in grado di definire con una certa veridicità quel tipo di dialettica. Un primo elemento costante è stata una particolare concezione del rapporto Partito/masse, dalla quale peraltro è derivata l’idea stessa del partito di massa (e, fino a una certa fase, “di massa e di quadri”) che caratterizzò il PCI nel dopoguerra. Il passaggio dalla direzione di Bordiga a quella del gruppo centrista diretto da Gramsci, le Tesi di Lione, la “svolta” del 1929-30 che riporta il centro di gravità del Partito in Italia nonostante la reazione fascista, il mantenimento di una struttura clandestina capillare durante gli anni della dittatura, e la stessa riflessione di Togliatti sul fascismo come “regime reazionario di massa”, con l’idea di agire anche all’interno degli organismi di massa fascisti (sindacati, dopolavoro ecc.) pur di non perdere il legame coi lavoratori (e sapendo che la contraddizione di classe sarebbe riemersa); tutti questi passaggi, essenziali nella storia del PCd’I, rispondono in sostanza alla stessa logica, che è quella appunto di tenere sempre vivo il legame organico col proletariato e le masse popolari, intendendo il Partito come “parte” della classe anziché come suo organo, in qualche modo sovrapposto a essa.

Partendo da questi presupposti, credo si comprendano meglio anche la svolta di Salerno e il “partito nuovo” lanciato da Togliatti nel 1944, col modello organizzativo che esso implicava. L’indicazione gramsciana delle cellule (di officina, di villaggio o di strada) come struttura di base principale del Partito rimaneva, prevedendo però che esse fossero riunite e coordinate nelle sezioni territoriali, a loro volta concepite come “centri della vita popolare”, punti di riferimento delle masse del quartiere o del villaggio(1). Le due istanze non si escludevano, ma si completavano a vicenda: aprendo la Conferenza d’organizzazione nel 1947, Secchia giudicava necessario che tutti gli iscritti nelle cellule d’officina fossero “anche legati alle organizzazioni di partito del luogo di abitazione”. “Oggi come ieri e più di ieri – aggiungeva – le cellule sul luogo di lavoro […] costituiscono l’organizzazione base del nostro partito […] ma oggi questa sola forma d’organizzazione non è più sufficiente”, se si vuol essere non solo il partito della classe operaia, ma anche “il partito delle classi lavoratrici, il partito del popolo”( 2). E in effetti, alla fine dell’anno, il PCI contava più di 2.250.000 iscritti, le sezioni erano quasi 10.000 e le cellule 50.000 circa( 3): una tendenza destinata a consolidarsi ancora per alcuni anni, per poi bloccarsi e decrescere. La ripresa si verificherà solo a partire dalla fine degli anni ’60, quando però il ruolo e il numero delle cellule saranno molto diminuiti rispetto alla centralità delle sezioni.

In questa sottolineatura del legame organico col proletariato e le masse popolari, il PCI non fu mai populi – sta, a rimorchio delle masse stesse, con una concezione “codista” e subalterna del ruolo del Partito. Al contrario, il ruolo dirigente del Partito fu sempre posto in primo piano, sebbene nella seconda metà degli anni ’70 questa idea (e questa pratica), a fronte di un allentamento del legame organico con le masse, inizi a degenerare in politicismo, separatezza dei gruppi dirigenti, per giungere poi all’autoreferenzialità degli ultimi anni. Ma anche sul piano culturale il PCI, pur aderendo strettamente alle masse popolari, non fu mai populista. Si affiancò sempre, infatti, al lavoro di organizzazione e proselitismo e all’iniziativa politica, un impegno non minore nella formazione ideologica di massa, dall’alfabetizzazione politica (e non solo) a una sorta di controinformazione popolare che passava per le sezioni e le assemblee di caseggiato, fino alla formazione dei quadri vera e propria. E in questo tipo di lavoro il PCI, fino agli anni ’80, non negò mai la sua identità comunista, anche negli anni più duri della guerra fredda, dell’attacco e della demonizzazione da parte dell’avversario, che molto spesso colpiva militanti, iscritti e simpatizzanti sul luogo di lavoro, nelle loro vite personali e familiari. Questa rivendicazione di identità, d’altra parte, non fu quasi mai acritica. Soprattutto a partire dagli anni in cui la pressione dell’avversario fu meno violenta e lo scontro frontale si attenuò sul piano interno e internazionale, il PCI fu in grado di avanzare elementi di critica e autocritica, mai però distruttivi o irrazionali (in questo il ruolo di Togliatti in passaggi come il 1956 o il 1961 fu essenziale)(4). In questo modo, dunque, il PCI si atteggiò riguardo al movimento comunista internazionale nel suo complesso, e all’Unione Sovietica in particolare; con la consapevolezza cioè del ruolo dell’URSS non solo sul piano storico, ma anche su quello dei rapporti di forza con l’imperialismo a livello mondiale, con la coscienza della complessità del processo di transizione e della capacità/possibilità dell’URSS di sperimentare varie soluzioni per superare i gravi fenomeni involutivi che pure vi erano stati e tentare di costruire una vera democrazia socialista.

ASCESA E DECLINO DEL PCI: LA MUTAZIONE GENETICA

In questo quadro, soprattutto a seguito del 1956, dei segnali di difficoltà del movimento comunista e dell’esplodere del conflitto cino-sovietico, il PCI – Togliatti in primis – insisté sulla necessità che, come voleva Marx, nei paesi a capitalismo avanzato, e in particolare nell’Europa occidentale, il movimento operaio facesse la sua parte fino in fondo, adempisse al compito che lo sviluppo delle forze produttive e le condizioni storiche rendevano – almeno potenzialmente – praticabile: il compito cioè di tentare un percorso di transizione al socialismo su basi ben più avanzate di quanto era stato possibile nella Russia del 1917 o nella Cina contadina o nella stessa Cuba; in Italia, partendo dalla linea democratico-sociale contenuta nella Costituzione e sviluppandone tutte le potenzialità. Per avviare questo percorso, però – Togliatti ne era consapevole sulla scia di Gramsci – le difficoltà erano enormi, e occorreva costruire un blocco storico in grado di fronteggiare un potere capitalistico ben più forte e strutturato che in quei paesi; di qui anche l’importanza attribuita alla politica delle alleanze (sociali prima ancora che politiche), al partito di massa e agli organismi di massa collaterali o unitari che pure costituirono la forza del PCI, dal sindacato alle cooperative, dalle case del popolo alle strutture culturali.

Questo immenso patrimonio di presenza e azione capillare dal basso si univa quindi a quell’azione del Partito dall’alto – sul piano strategico e istituzionale – mirando con ciò a rendere effettuale una strategia di respiro storico come quella che era stata delineata da Gramsci. Vi fu una certa fase – direi tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70 – in cui pareva che questa azione sinergica fosse giunta vicina ai suoi obiettivi “iniziali”: non solo l’insediamento stabile del PCI nella società e nel sistema politico, ma anche la legittimazione a governare, a gestire una parte del potere statale per avviarne la trasformazione. Tuttavia proprio in quella fase, all’azione dall’alto cominciò a venire meno il collegamento col “basso”, con le istanze di lavoratori e masse che premevano per un processo più radicale e rapido; politicismo, tatticismo e verticismo iniziarono a prevalere, e l’equilibrio tra il “fare politica” e il legame di massa fino ad allora conservato iniziò a rompersi. Contemporaneamente, l’azione convergente di tutti i nemici di quell’esito – apparati atlantici, forze eversive, destra economica e politica, grande capitale, arcipelago liberalsocialista (la Repubblica in primis), e sinistra extraparlamentare – assieme allo scaltro manovrare della DC e alla sua tattica di “logoramento” e infine al delitto Moro, contribuirono al fallimento di quel tentativo.

2. Seguì una fase di crisi, determinata appunto dal venir meno di una prospettiva di lunga lena, legata a un’ipotesi di governo dello sviluppo che invano Berlinguer aveva riproposto nei suoi ragionamenti sulla crisi capitalistica e l’austerità come occasione per trasformare il modello di sviluppo stesso. Intanto era mutato il corpo sociale del Partito, in cui tra elettori e iscritti, ma soprattutto tra i dirigenti, sempre più spazio acquisivano uomini e donne appartenenti alla piccola borghesia o a quella delle professioni.

Era inoltre mutata la politica dei quadri, che sempre meno teneva conto dei legami di massa e della rappresentatività sociale, privilegiando altri elementi; ugualmente tutto il campo della formazione ideologica veniva drasticamente ridotto, o riconvertito in chiave non marxista; infine l’allentamento del legame di massa aveva anche ridotto quella dialettica base/vertice e quelle forme di pressione dal basso e di controllo democratico che pure avevano inciso molto nella storia del PCI. Si era ormai nel pieno di quegli anni ’80 iniziati con la lotta alla Fiat (nella quale pure si registrò un ritorno significativo del Partito alla lotta operaia) e poi con la lugubre marcia dei 40.000; anni di dura ristrutturazione capitalistica cui il PCI tentò di reagire con la lotta in difesa della scala mobile, venendo sconfitto ma rappresentando ancora una larga fetta della società italiana: un pezzo di società ostile al rampantismo craxian-berlusconiano, che avrebbe posto le basi per la dissoluzione del “sistema dei partiti”, determinata da Tangentopoli ma soprattutto dalla fine della guerra fredda a seguito del crollo del blocco sovietico.

È a questo punto che il gruppo dirigente occhettiano del PCI rivela tutta la propria pochezza culturale e politica. Laddove infatti Tangentopoli metteva a nudo un sistema fatto di legame organico tra poteri economici e politici, di totale assenza di controllo democratico della cosa pubblica, di danaro pubblico speso non a fini sociali ma unicamente per far “marciare” il sistema (ragion per cui poco importava se parte di quei soldi finivano nelle tasche di politici o imprenditori corrotti), Occhetto e compagni non furono in grado di rilanciare una lotta per una gestione democratica e sociale delle risorse pubbliche; e laddove il crollo del socialismo reale lasciava viva e feconda la tradizione gramsciana del comunismo italiano, non furono in grado di rilanciare le idealità comuniste, né in effetti ormai lo potevano, avendo subito anch’essi quella mutazione genetica che li porterà a costituire il PDS. Quest’ultimo nasceva fin da subito con un’identità incerta: non era infatti l’approdo socialdemocratico auspicato dai “miglioristi”, ma un mix tra un riformismo miope e rinunciatario e un neo-movimentismo che preferiva affidarsi alle virtù taumaturgiche degli “onesti”, della “sinistra dei club” e della “società civile” anziché ai lavoratori organizzati. Dall’altra parte, i “reprobi” che rifiutarono l’idea di liquidare e disperdere così un patrimonio immenso di teoria e prassi, lotte, esperienze, radicamento sociale e forza organizzata, decisero di dar vita a un altro soggetto: un movimento, prima, e poi il Partito della Rifondazione Comunista. Del tessuto e dell’esperienza del PCI qualcosa si salvò, almeno nei primi tempi. Intanto affluivano Democrazia Proletaria, in modo compatto e con tutta la cultura movimentista della “nuova sinistra”, e altre soggettività politiche, da organismi marxisti-leninisti a gruppi trotzkisti.

UNA RIFLESSIONE STORICA DEL TUTTO RIMOSSA

Avviando la costruzione del PRC, l’esperienza del PCI fu ben poco studiata e considerata. Si scelse un pragmatico continuismo con l’organizzazione degli ultimi anni (quella che aveva perso molti dei suoi legami di massa), che è cosa ben diversa da quella continuità storica e politica che invece per tanti aspetti sarebbe stata necessaria. La continuità storica, infatti, era stato uno dei maggiori elementi di forza del PCI, e gli aveva consentito, partendo da una strategia di lunga durata e di ampio respiro, di accumulare forze ed esperienze, costruendo un percorso che aveva una sua linearità: il rinnovamento nella continuità, appunto, pur coi salti che pure c’erano da una generazione all’altra, da un contesto all’altro, da una segreteria all’altra. Aver spezzato quel legame di continuità con la storia del maggiore partito comunista del mondo occidentale, che tante preoccupazioni aveva creato ai poteri economici e politici, agli apparati atlantici e alle forze eversive, tanto da indurre queste ultime a mettere in campo la strategia della tensione credo sia stato uno dei limiti di fondo del PRC, accanto alla non volontà di ragionare collettivamente sulla stessa vicenda del PCI e su che cosa fosse questa rifondazione comunista; su quali fossero cioè gli elementi di novità sostanziale da sviluppare, e quali le cose superate e gli errori da non ripetere. L’apporto di culture politiche che da tempo avevano rotto con quella tradizione – in particolare quella movimentista – spesso non agevolò tale processo. E così si decise che era meglio non discutere, non elaborare, in modo da non litigare. Il risultato fu però un eclettismo e una debolezza ideologica e di analisi, che consentiranno a Bertinotti & C., sulla scorta di qualche libro di Revelli o di Negri, di marcare una pseudo-egemonia sul corpo militante del Partito, e in particolare sulle generazioni più giovani.

La scissione da cui nacque il PdCI privò Rifondazione proprio di una parte rilevante dei compagni più legati all’esperienza del PCI, lasciando campo libero al bertinottismo. Tuttavia questa deriva di neosocialismo massimalista, barricadero e governista a fasi alterne, nonviolento ma subalterno ai modelli della tarda-Autonomia, non poteva durare a lungo; e le sconfitte di questi mesi, amaramente, lo confermano. Proprio la sconfitta storica del 13-14 aprile, tuttavia, assieme all’unità d’azione – maturata nelle lotte di questi anni contro le guerre imperialiste, in difesa dell’art. 18 e dei lavoratori in genere, contro le “grandi opere”, gli inceneritori e così via – rendono necessario e al tempo stesso possibile riavviare un processo unitario tra i comunisti, che parta dai due partiti organizzati ma anche da altre strutture militanti e dai tantissimi compagni che in questi anni sono entrati e usciti da PRC e PdCI. Un processo che non sia certo un mero assemblaggio di forze, né tanto meno di soli gruppi dirigenti, ma che coinvolga la più ampia parte possibile di quello che si chiamava il popolo comunista, assieme ai settori più avanzati delle nuove generazioni di lavoratori, studenti e precari; ma anche un processo che rifugga da tendenze “basiste” e demagogiche e da spinte all’azzeramento di quel poco che ancora esiste (e resiste), in termini di organizzazioni di base e di gruppi dirigenti. Tutti, certo, devono partire da un’ampia riflessione, anche autocritica; ma ciò vale per gruppi e gruppetti non meno che per i dirigenti di PRC e PdCI; e una riflessione in tal senso mi pare che sia in corso in entrambi i partiti. Al tempo stesso, credo debba essere chiaro che il processo di costruzione di un unico partito comunista, di massa e di quadri, non può non partire dai lavoratori e dai luoghi di lavoro, dal conflitto sociale, dalla presenza nei territori e dal radicamento di massa; né si può fare a meno dell’altra gamba, quella della riflessione teorica, del dibattito, della ricostruzione di un’analisi e di una strategia adeguata ai tempi, e dei necessari strumenti che tutto ciò richiede (case editrici, riviste, ma anche un Centro studi che diventi un protagonista dell’elaborazione collettiva dei comunisti e al tempo stesso del dibattito pubblico), il più possibile coordinati tra loro. Evitare ancora una riflessione collettiva sarebbe infatti davvero esiziale. Questi elementi, assieme al superamento della struttura correntizia e al ristabilimento di un vero centralismo democratico in cui a tutti gli iscritti sia possibile contribuire alla costruzione della linea; assieme a un rinnovato internazionalismo che ricostruisca forme di coordinamento reale con altre forze comuniste e antimperialiste; assieme a una maggiore attenzione al terreno della comunicazione e dei suoi strumenti; e assieme infine a una riflessione collettiva sulla questione sindacale, possono porre le basi per una nuova presenza comunista nel nostro paese: una presenza non residuale, strutturata e organizzata, che ricostruisca un solido legame di massa e si doti di una prospettiva strategica, recuperando il meglio della nostra storia e costruendo un Partito comunista all’altezza dei tempi. Oggi la crisi capitalistica apre ampi spazi e offre un nuovo terreno d’iniziativa, ma produce anche rischi di involuzione autoritaria e di imbarbarimento sociale che non vanno sottovalutati. Più che mai quindi, è essenziale il ruolo dell’elemento soggettivo, di una forza comunista che non si presenti come residuale, ma abbia la necessaria massa critica per reggere l’urto e ridare una prospettiva ai lavoratori.

NOTE

(1) P. Togliatti, I compiti del Partito nella situazione attuale, discorso pronunciato a Firenze il 3 ottobre 1944, Roma, Casa editrice l’Unità, 1945, pp. 13, 33-35.

(2) P. Secchia, Il Partito della rinascita (Rapporto alla Conferenza Nazionale d’organizzazione del Partito Comunista Italiano), Firenze 6-10 gennaio 1947, Roma, 1947, pp. 42-43.

(3)PCI, L’attività del Partito in cifre, IV Congresso nazionale, Milano, 4 gennaio 1948, a cura della Commissione centrale d’organizzazione, Roma [1948], p. 9.

(4) Per la discussione nel Partito del 1956, dal XX Congresso ai “fatti d’Ungheria”, mi permetto di rinviare a Il PCI e il 1956. Scritti e documenti, a cura di A. Höbel Napoli, La Città del Sole, 2006. Per l’interessante dibattito successivo al XXII Congresso del PCUS, cfr. Il PCI e lo stalinismo. Un dibattito del 1961, a cura di M. L. Righi, Introduzione di R. Martinelli, Roma, Editori Riuniti, 2007.