Per ridare all’Italia il partito comunista che serve ai lavoratori e alla democrazia

L’analisi della fase politica che stiamo attraversando non può che essere spietata. La destra italiana, forte come mai è stata nella Repubblica, può contare anche sulla sostanziale subordinazione del Pd alla sua linea di attacco ai lavoratori, a partire dal contratto nazionale, fino alle linee di politica economica con cui (non) si sono affrontate la crisi finanziaria mondiale e le sue ricadute sociali. Del resto, per un governo che punta ad una generale opera di restaurazione delle forme di dominio sociale, di liquidazione dello stato sociale, dei diritti delle classi subalterne, fronteggiare la crisi significa cogliere l’occasione per una linea opposta al progresso del paese. Al contrario, il governo ha perseguito, fin da subito, una linea di nuove e ancor più devastanti fratture delle forze del lavoro, sostenuta e accompagnata da un’ondata di razzismo senza precedenti, che sposta su altri poveri, gli immigrati, i nuovi schiavi, la rabbia sorda degli strati popolari. Il disegno di restaurazione sociale cammina inoltre sulla costruzione di un consenso di massa alla moderna versione di un antico “vangelo”: Dio, Patria, Famiglia. Troppo spesso la nostra memoria corta ci fa dimenticare che quanto si è messo in campo da anni in Italia, sul piano dell’orientamento pubblico, delle idee e delle ideologie vincenti della destra italiana e di derivazione atlantica, ha vestito gli stessi panni di tutte le restaurazioni conservatrici, siano esse uscite delle urne o portate ai vertici come in passato dai colpi di stato di gerarchie militari impegnate nella destabilizzazione terroristica e antidemocratica dei loro paesi.

Qui in Europa (la Grecia dei colonnelli), in America Latina (il Cile di Pinochet, l’Argentina della Escuela Meccanica), per citare solo le più famose, senza dimenticare tutto quanto si è mosso ovunque nel mondo, in ogni paese considerato a rischio per la presenza di grandi movimenti di liberazione antimperialista, di correnti sociali e culturali progressiste, di forti organizzazioni sindacali, e soprattutto di partiti comunisti autorevoli e fortemente radicati nel movimento operaio e nella società. E’ sempre più evidente il senso dell’imponente lavoro svolto in questi anni dalla destra – certo sul piano economico e politico – ma con grande attenzione al piano ideologico e delle culture immesse nel circuito mediatico, nell’immaginario collettivo, per formare quel nuovo “senso comune” che fa la forza di Berlusconi. La destra è scesa sul terreno delle idee e dei valori, ha dato orientamento e risposte alla crisi degli strati popolari, mentre la sinistra, senza capire (nel migliore dei casi) la portata della sconfitta subita con l’89 (nel peggiore si è perfino esultato), ha reagito limitandosi, troppo spesso, a parlar male di se stessa e della propria storia. Chi non si è uniformato al coro li – beral è stato additato al pubblico ludibrio. Così, visto che è difficile resistere, anche tra i comunisti si è subìto il punto di vista dell’avversario. Anche tra i comunisti è circolata l’illusione che la propria scomparsa in un soggetto indistinto sarebbe bastata a sopravvivere. Il punto è proprio questo: dobbiamo invece attrezzarci a resistere e per farlo occorre una strategia vera e un nuovo posizionamento politico e ideale dei comunisti.

Il fatto che oggi ci presentiamo insieme alle elezioni europee e in quasi l’80 per cento delle elezioni locali è quasi un miracolo, su cui pochi avrebbero scommesso anche solo tre mesi fa. Ma non è un miracolo: è il frutto di un lavoro, duro e contrastato da tante parti, ma sempre perseguito con lealtà, determinazione, ed anche con la consapevolezza, se mi è per- messo, dell’assurda compresenza, ora, dopo quanto è alle nostre spalle, di due partiti comunisti.

1. Il “berlusconismo”é divenuto in questi anni una categoria politologica fra le più intensamente frequentate nel dibattito teorico degli analisti. Una mole imponente di pubblicazioni e monografie continua a fiorire intorno alle sue fortune nazionali. La verità è che siamo di fronte ad un dibattito falso: la rappresentazione di un potere che non mostra mai, o quasi mai, la natura reale della sua missione economico-sociale (d i classe), che nasconde la smisurata capacità (in quanto senza contrasto alcuno, per adesso) di smantellare l’insieme del Welfare italiano (non uso l’espressione “di quello che resta del…” perchè qui ci si riferisce proprio all’insieme dei suoi fondamenti – giuridici, istituzionali e costituzionali). La cifra interpretativa non può che rimandare, alle nozioni di populismo, molto rielaborate da sociologi e scienziati della politica per comprendere uno dei fenomeni più inquietanti intervenuti sulla scena internazionale di questi anni. Ma forse, per riportare la discussione su un piano conoscitivo meno astratto, gioverebbe invece ripartire dalla constatazione, semplice, ma non indolore per nessuno, che in questa fase storica, cioè dopo l’89, il capitalismo occidentale ha saputo orientare e piegare al suo disegno le forme stesse della politica e della partecipazione politica, regredite quasi ovunque verso una post-democrazia amministrata da lobbies economiche, decise a respingere ogni forma di mediazione e soprattutto di regolazione. Per questo, e Berlusconi ne è stato il maestro, la forza economica è entrata direttamente dentro l’agone politico. Ovviamente la questione ha implicazioni non da poco, visto che tale posizionamento apre comunque una dinamica, impone anche la ricerca di mediazioni con altri per il consolidamento (v.la nascita del Pdl). Esso però ha bisogno della forzatura rapida sulle regole del gioco, che non possono più essere quelle dei pesi e contrappesi della democrazia Repubblicana. Infine, è un capitalismo consapevole dell’importanza di assicurarsi a fini politici il controllo strategico dei media, tutti media, pubblici e privati, dall’editoria al web, dal sistema radiotelevisivo ai giornali.

I COMUNISTI E IL GOVERNO PRODI

Se da un lato il berlusconismo si iscrive dunque a pieno titolo nell’alveo del populismo occidentale, dall’altro esso ha dimostrato di potersi dispiegare in Italia con un’intensità e una diffusione senza precedenti. Un elemento che non può essere sottovalutato e che richiederebbe, a mio avviso, di essere ricollegato a una storia di più lunga durata, innestandolo in ciò che già Gobetti, Gramsci e poi Togliatti, avevano scritto sul fascismo e sul nostro paese: l’autobiografia di una nazione, una rivelazione piuttosto che una eccezione della società italiana. Primo Levi, in un articolo del 1974, poneva in guardia dal fatto che “ogni epoca ha il suo fascismo” e quello attuale assumerebbe le vesti della manipolazione dell’informazione e del consenso, dell’alterazione del rapporto fra i poteri dello Stato, della depoliticizzazione di massa, della politica fondata sull’antipolitica. Ma ci sono soprattutto i mutamenti materiali a far da base all’attuale situazione di forza della destra italiana, e sono essenzialmente quelli connessi alla composizione di classe e al modo di intendere la produzione e il lavoro. Lo snodo sta tutto nella fine dalla centralità del lavoro salariato, con l’annessa retorica, tutta ideologica, sull’arricchimento individuale del lavoro autonomo. Ma la realtà è un’altra, è quella concreta di un mondo del lavoro precario e senza diritti e tutele, di una moltitudine di individui spaesati e soli, di proletari oppressi dallo sfruttamento, inclini a riconoscersi in una guiida forte ed in un’alleanza capace di offrire loro rassicuranti surrogati identitari (come nel caso della Lega) e piccole utopie concrete (ridurre le tasse). In questo orizzonte, anche il lavoratore dipendente subisce il fascino di stili e orientamenti individualistici, cosicché figure socialmente aggregate sul piano dei rapporti di lavoro si disaggregano e diventano in altre sfere della loro vita, dal consumismo alla seconda casa abusiva, con riflessi intuibili sul comportamento elettorale. La forza del populismo del sistema Berlusconi è cresciuta nel rispecchiare e nel lusingare ataviche piaghe del nostro paese –qualunquismo, illegalismo, familismo amorale – volgendole politicamente a proprio favore. Una strategia imperniata sulla dismissione dei beni pubblici, sulla più completa subalternità della politica all’economia, su una ideologia plebiscitaria insofferente ai limiti imposti dallo stesso formalismo democratico e dallo Stato di diritto, sulla colonizzazione mediatica dell’immaginario consumistico. L’identità collettiva si è spostata dal lavoratore-(ri)produttore al consumatore compulsivo. Ciò ha generato la disponibilità di massa verso politiche distruttive dell’ambiente ed imperialiste sul piano globale. La ricchezza, intesa come assoluto ed insensato accesso al consumo di merci e di persone, è divenuta l’unico parametro di valore. La guerra e la violenza, come strumenti efficaci di sopraffazione e di appropriazione delle risorse altrui, sono tornate ad essere generalmente accettate sia pur ancora oggi dietro il paravento ideologico dell’intervento umanitario.

2. La scomparsa dei comunisti – tutti – dal Parlamento repubblicano, insieme al profilarsi di accordi biparti – san, in primo luogo sull’obbiettivo della liquidazione di ogni articolazione e pluralità della rappresentanza parlamentare, segna emblematicamente il concludersi di un lungo ciclo storico. Il progetto di cancellazione della anomalia italiana pare avviato alla sua realizzazione. L’accordo sullo sbarramento alle europee chiude il cerchio. Quello che era il paese del più forte partito comunista d’occidente, con i più alti tassi di sindacalizzazione, con una vasta egemonia culturale della sinistra, si ritrova oggi nelle mani di forze reazio- narie, e soprattutto, segnato da un senso comune di destra. Invertire questo senso comune è oggi impresa difficilissima, così come smascherare le campagne qualunquiste di uno pseudo-giornalismo d’accatto, pagato per distruggere definitivamente – nella coscienza popolare e nelle istituzioni – la memoria stessa dell’unica forma moderna di organizzazione delle classi subalterne – il partito politico organizzato – a difesa dello stato sociale, contro lo sfruttamento, contro la guerra dei poveri ad altri poveri, per costruire una alternativa di solidarietà e condivisione delle risorse materiali e del sapere umano tra i popoli della terra. Il socialismo, insomma, al di là di quali forme storicamente ha assunto e ancora assumerà. I comunisti, un anno fa, hanno perso le elezioni e sono stati cancellati dal parlamento italiano, dopo solo due anni da elezioni che videro i due partiti sommare tre milioni di voti. Forse giova ricordare quella vicenda, i cui insegnamenti formano la trama sostanziale e l’oggetto della proposta di unità dei comunisti. Di fronte alla caduta di Prodi, da lungo tempo annunciata, la trappola tesa da un Veltroni in ottima compagnia (vi ricordate la minestrina riscaldata di Bertinotti?) era inesorabilmente scattata e i portatori di sangue, i comunisti, fatta la loro parte sul fronte sinistro, dopo l’opera di risanamento e la lotta all’evasione fiscale, potevano ben accomodarsi fuori dal gioco. Di fronte alla resistenza sorda e reiterata dalle componenti moderate all’attuazione di un programma – che aveva escluso in radice ogni politica dei due tempi – potevamo? /oppure/ dovevamo? far cadere noi il governo? I due anni dell’ultimo governo Prodi sono stati, quasi per intero, diciamoci la verità, attraversati da questo assillo: non c’è stato passaggio – dalla politica economica, a quella sulla previdenza, per finire alla politica estera – che non ci abbia schiacciato su questo problema. Vorrei dire, anche se molti non condivideranno questo giudizio: a volte a ragione, a volte a torto.

Certo, molti dubbi sull’esito finale non li aveva nessuno, ma la vicenda si è infine chiarita con la nascita del Pd. Lì abbiamo perso ogni margine di manovra. Inoltre, vorrei ricordarlo prima di tutto a me stessa, è diventato allora sempre più evidente il permanere delle divisioni tra PdCI e Prc, apartire dalla discussione sulla legge elettorale. Che il governo Prodi è caduto da destra lo sanno tutti, come tutti sanno comunque perché i comunisti non lo hanno fatto – anche se pare diventato un argomento intoccabile: di fronte a noi, intendo tutti noi, (penso che il compagno Ferrero se lo ricordi bene) stava la scommessa ultima, la prova d’appello che dovevamo ai nostri elettori e ai lavoratori italiani dopo la grande manifestazione del 20 ottobre 2007 quando, posta da noi, dai comunisti, era sul tavolo la questione della restituzione dell’extragettito ai lavoratori e alle fasce deboli della popolazione. Era la nostra ultima carta, dopo mesi e mesi di logoramento, e fallire significava saltare. Allora non abbiamo avuto la forza per dirlo a noi stessi, troppo grande stava montando la marea della disillusione, ma anche, attenzione, la paura di una nuova crisi. Seppur dolorosa, questa è la verità. È dunque colpa solo di Padoa Schioppa (che certamente ne ha molta) se la nostra carta è stata bruciata? Francamente non credo, e la natura degli attori della crisi del governo, precipitata di lì a poco, è agli atti. In ogni caso, noi, tutti, allora abbiamo perso, subendo la sconfitta più dura, quella più bruciante: la nostra impotenza e dunque la nostra inutilità in un governo e in un centrosinistra logorato dal moderatismo di un Pd da subito proiettato con Veltroni nell’orizzonte dell’autosufficienza maggioritaria. E nell’americanizzazione della politica in salsa italiana, dove si è materializzata la rottura del PD con la sinistra e l’accordo con Berlusconi sulle regole di cui sopra. Se il bipolarismo prodiano si muoveva ancora nell’ambito della democrazia rappresentativa e costituzionale, il bipartitismo veltroniano ha travolto invece la dialettica parlamentare, concedendo al cesarismo berlusconiano la sua più importante vittoria strategica, mentre la caduta di Prodi apriva la strada al nostro massacro. Una manovra con tanti attori, comunque, spregiudicati e impensabili. Così, mentre Veltroni si innamorava di se stesso davanti agli ulivi umbri, altri coglievano l’occasione per l’altro progetto da tempo coltivato: superare senza chiedere neanche una discussione, quel patto di unità tra soggetti diversi (comunisti, sinistra ds, verdi) avviata da poco – e con grandi contraddizioni – a sinistra, una auto-liquidazione dei comunisti, una Bolognina postuma.

COMPETIZIONE BIPARTISAN

L’obbiettivo convergente di Pd e della cosiddetta. sinistra l i b e r a l, si è del tutto rivelato nella vicenda elettorale. E’ così accaduto che, in nome dell’unità a sinistra – quella stessa cui non ci siamo mai sottratti per cultura politica e senso della realtà – i Comunisti Italiani sono stati tacciati di regressione nostalgica e di settarismo, mentre si dava per acquisita la liquidazione, all’interno di Rifondazione Comunista, di ogni resistenza alla propria trasmutazione in Arcobaleno – per approdare direttamente nel nuovo partito guida della sinistra postcomunista e, si è visto, molto anticomunista. (mentre scriviamo, l’editoriale di Sansonetti sul suo nuovo giornale, ha almeno il pregio di non lasciare margini di incertezza!). Com’è andata, purtroppo lo sappiamo: il Pd ha dimostrato di non poter avere nessuna aspirazione maggiori- taria e ha consegnato il paese alle destre. I comunisti, già oscurati nell’indistinto mediatico bertinottiano, tra pauperismi di maniera e manifeste espressioni di provincialismo culturale (v.l’Hard Rock Cafè, dove si aprì la più assurda campagna elettorale della no – stra storia, e la sede a via Veneto), sono stati espulsi dal Parlamento.

3. Da allora ad oggi, sembrano passati anni luce, non solo un anno. Ora siamo ormai alla fase della condivisione sostanziale tra Pd e Pdl, come hanno dimostrano i passaggi fondamentali sulle scelte governative di rilievo. Fuori dalla propaganda e dal gioco delle parti, la sostanza è di tutt’altra natura. E dice che, dal federalismo all’attacco al contratto collettivo nazionale, dalla legge elettorale al referendum che regalerebbe a Berlusconi la vittoria (da solo!) per i prossimi vent’anni, la competizione tra Pdl e Pd è tra due oligarchie che si contendono la signoria sul paese, i favori del capitalismo italiano, la benevolenza dell’alleato atlantico. Non è fra diverse e alternative proposte di società, di sviluppo, di controllo e neanche di timida regolazione dei poteri economici, non ci sono proposte realmente alternative, neppure per uscire dalla crisi economica globale con scelte finalmente a sostegno di un rinnovato ruolo dello Stato nell’economia, a difesa dei lavoratori precari e di una classe operaia esposta senza ripari ai licenziamenti e alla cassa integrazione, contro un nuovo, gigantesco sperpero di denaro pubblico per salvare imprese e banche private, socializzando le perdite sugli italiani e salvando manager incapaci e speculatori avventuristi.

No, il primato del mercato e dell’impresa, anche in questo frangente, sono il comune denominatore, addirittura invocato per politiche concertate tra Berlusconi e Pd, con Tremonti nelle vesti della fatina moralizzatrice. Siamo al paradosso politico e sociale, e questo può determinare un rischio di collasso democratico concreto. Da questo punto di vista, la fine del centrosinistra ha rappresentato un bel contributo al chiarimento sulla natura della crisi italiana e dei suoi attori. Siamo di fronte al rifiuto dei gruppi industriali dominanti, degli strati sociali legati alla rendita ed alla speculazione finanziaria di accettare un sia pur minimo compromesso tra capitale e lavoro, una linea precisa di continuità del liberismo economico, mentre il mondo apre la discussione sul suo fallimento.

Il capitalismo italiano, tradizionalmente parassitario e assistito – più dei poveri che vanno a mangiare alla Caritas – va a rimorchio degli altri paesi, ma non cambia se stesso, non si preoccupa di continuare a ipotecare del futuro delle nuove generazioni con una rinnovata crescita del debito, e riorganizza il suo potere con quella mentalità feudale mai del tutto abbandonata dalle classi dominanti italiane, mentalità rinvigorita dalla destra populista e subita dal Pd. Classi dominanti sempre più estranee al paese esibiscono senza pudori il lusso e la licenza come privilegio e status, a partire dal suo monarca, classi e ceti apertamente reazionari per le quali il lavoro è merce, il salario una variabile dipendente, il profitto sacro, il fisco un sopruso, il falso in bilancio una colpa lieve, la legge un intralcio, il sindacato la ruota di scorta dell’impresa.

4. Oggi il tema è quello di non essere definitivamente cancellati. La questione dell’unità dei comunisti è dunque prima di tutto la questione di una nuova fase di lotta sociale, politica e ideale per ricomporre l’unità di classe dei lavoratori. L’unità dei comunisti non è, né potrebbe essere di fronte all’esito catastrofico della crisi italiana e della stessa sinistra, l’oggetto di un raggrinzito scambio e riaggiustamento di ceti politici superstiti. Il nostro ultimo congresso ha messo i Comunisti Italiani a disposizione di una ricomposizione di forze, a partire da noi e dal Prc, cui abbiamo avanzato una proposta senza ambiguità e, soprattutto, senza alcun pregiudizio o condizione: una proposta a tutto il Prc, per aprire un processo che ridia speranza ad un Paese sempre più passivo e lontano dalla politica. Sommessamente vorrei ricordare che l’abbiamo avanzata ben prima della nuova legge elettorale europea, e ancor prima che i compagni di Rifondazione concludessero la loro dura, ma anche significativa, vicenda congressuale, sapendo che potevano e dovevano emergere le forze disponibili a superare anche il proprio recente passato, senza rinnegare se stessi certo, ma per determinare un fatto nuovo in Italia, dopo anni di lacerazioni e divisioni.

Abbiamo lavorato a questo obbiettivo con la chiara consapevolezza che la crisi sta precipitando rapidamente verso soluzioni reazionarie e che, per questo, nessun tatticismo è più ammesso; e che il tempo per ripartire non è infinito; e che non ci serve una sinistra che si proclami alternativa e poi abbia comportamenti surreali come il mantenere la divisione tra i nostri due partiti. In campo, se vogliono, questi due partiti comunisti, certo diversi fra loro e al loro interno, possono ormai contare su una analisi finalmente comune della fase, dei rapporti di forza, e condividere un comune obbiettivo, uno sforzo, sicuramente durissimo ma doveroso, di unità e di mobilitazione tutti i comunisti, anche quelli che da anni sono dispersi o organizzati in sigle improbabili, uomini e donne che non si sono arresi. Il comune obbiettivo di riaprire la stagione della lotta contro la destra, per combattere la distruzione dello stato sociale, per difendere la costituzione repubblicana fondata sul- l’antifascismo, contro ogni guerra neocoloniale e per una Europa dei popoli e non del capitale.

È un programma comune sufficiente? A me pare di si, e l’abbiamo già cominciato a scrivere con la lista comunista e anticapitalista per il 6 e 7 giugno. Questa nostra lista comune ha avviato un vero cambiamento, un processo sostenuto dalla base in forme e modalità perfino superiori alle stesse aspettative dei gruppi dirigenti che l’hanno promosso. Non si dice mai abbastanza della stanchezza dei nostri militanti e di quanto sia importante, nei territori, nei luoghi di lavoro, tra i nostri elettori ritrovare i due partiti comunisti insieme sulle schede elettorali, sui manifesti, vederli ricominciare a lavorare insieme invece di dividersi ancora. Si, ci sono questioni aperte, c’è una riflessione mai chiusa, perché mai davvero neppure aperta, sul senso e la finalità più generale di un partito comunista in questo nostro nuovo millennio, e all’indomani della trasformazione del mondo seguita all’89. E so che questa discussione va fatta, dai gruppi dirigenti e dalla cultura marxista e italiana, insieme ad altre correnti e componenti ideali e filosofiche che si pongano il comune tema della democrazia, della lotta contro il dominio capitalistico e, se è ancora lecito, della trasformazione socialista, che non è solo la scuola pubblica o la sanità pubblica o la difesa dei diritti: non sottovaluto, per carità, queste battaglie sacrosante e, in questa fase perfino rivoluzionarie!

Ma insomma il tema del controllo sociale della produzione della ricchezza, oggi non solo materiale, le forme della produzione riproduzione sociale della vita, dell’ambiente sul pianeta, lo vogliamo porre, di nuovo, con i piedi sulla terra dei rapporti di produzione e di proprietà? Anche il tema della democrazia, nel tempo della regressione oligarchica della politica attiene alla sfera dei rapporti di produzione e agli assetti proprietari: sennò, anche noi che diciamo di non volerci auto liquidare, non andremmo in luoghi troppo diversi dai nostri separati cugini liberal, ma detto tutto questo,questa discussione, come sempre è accaduto, la riflessione, anche teorica e il confronto delle idee, fra i comunisti non avanza mai partendo dalle proprie stesse ragioni, non è mai vissuta e non può vivere in un empireo delle idee separato dallo scontro sociale e politico, non si dà per i comunisti l’autosufficienza della politica. Penso davvero che ci fosse tra noi chi si ponesse il problema di fissare prima i paletti della discussione, senza condividere il peso tutto intero di questa battaglia per l’unità del mondo del lavoro, questi non darebbe nessun contributo reale alla soluzione del problema. Ai lavoratori, italiani ed europei, occorrono risposte e lotta, proposte all’altezza della sfida e capacità di mobilitazione, di costruzione di nuove sponde politiche e sociali riconoscibili.

APPRENDIMENTO RECIPROCO

Da questo punto di vista la campagna elettorale, mi permetto di rilevarlo, stenta e raggiungere il suo centro, e si stenta a parlare al Paese di un programma, il nostro, che contiene idee e linee utili alla conquista del voto popolare: bisogna lavorare su questo, non scartare nell’immaginario che mediaticamente ci viene imposto. E’ comunque un dato di garnde importanza la raggiunta unità della lista unitaria, penso che molto di questo risultato, ieri non scontato, sia il frutto di un atteggiamento di correttezza e di rispetto reciproco: non ci siamo nascosti mai, in questi mesi di lavoro unitario le nostre differenze, perché esse sono parte integrante di quel lento ma incessante processo di cambiamento e di “apprendimento” che la politica -intesa come azione nella realtà e riflessione teorica e culturale su due essa – sempre produce.

Non abbiamo proposto lo scioglimento del nostro partito in una generica fase costituente, in una palingenesi dove i comunisti come singoli dessero vita, senza tenere conto delle profonde differenze di cultura politica che tra di essi permangono, ad un nuovo partito. Sarebbe stata la negazione del nostro percorso storico; né l’abbiamo proposto a Rifondazione Comunista. Di fronte alla sconfitta, accanto al rischio di assorbimento nel PD, abbiamo cercato di contrastare sia il pericolo di subalterne tendenze “fusioniste” in un’indistinta sinistra, sia quello di una deriva minoritaria ed estremista. L’identità a cui facciamo appello, dunque, non è oggi, come non è stato mai, un feticcio meramente – e vanamente – identitario (peraltro oggi assai difficilmente configurabile), ma la consapevolezza profonda ed orgogliosa di un percorso storico che, da Gramsci in poi, ha portato i comunisti italiani ad agire sempre nella società determinando, fin dentro il proprio partito, una cultura politica di massa.

Certo, quella storia non è stata esente da errori, ma questa è la lezione da rinnovare: ogni processo storico reale produce un cambiamento dialettico e interviene sul soggetto oltreché sull’oggetto della trasformazione. Lo sappiamo fin troppo che non si tratta di rifare il Pci – anche se qualcuno prima o poi rimetterà l’onore a quella grande comunità di uomini e di donne, di classi subalterne che impararono a leggere e a scrivere e a capire il proprio posto nella storia per cambiarla, vittoriosi di una grande rivoluzione e di una resistenza senza tentennamenti al fascismo! Si tratta di ridare all’Italia il partito comunista che serve ai lavoratori e alla democrazia. Un partito comunista nuovo che si ponga il tema della ricostruzione di una coscienza sociale critica dei processi politici ed economici, consapevole dei rapporti di forza in Italia e nel resto del mondo, per fuoriuscire dalla sostanziale subalternità culturale e politica alle ideologie della destra. Per rompere la gabbia che imprigiona le forze morali ed intellettuali del paese, rinsaldando un radicamento e un nuovo blocco sociale e di classe – che è stato smobilitato insieme ai grandi partiti di massa e al sistema elettorale proporzionale. Per ridiventare una forza compiutamente nazionale capace di spezzare di nuovo, come nella Resistenza, il rapporto della destra con la nazione.