La rivoluzione culturale e la Cina di oggi

E’ in primo luogo una presa di posizione sulla Cina contemporanea il libro curato da Tommaso Di Francesco e pubblicato dalla manifestolibri dal titolo L’assalto al cielo. La rivoluzione culturale cinese quarant’anni dopo (pp. 204. Euro 20), che raccoglie alcuni saggi inediti di Edoarda Masi, Alain Badiou, Angela Pascucci e Alessandro Russo, riproponendo anche due interventi del 1978 di Rossana Rossanda e K. S. Karol. Ed è una presa di posizione che interviene in maniera molto netta nel dibattito in corso sulla Repubblica popolare, dando un giudizio preciso sulla natura della sua formazione economico-sociale e sui processi storici che, a partire dalla fine degli anni Settanta, hanno condotto alla sua gigantesca espansione economica.

1. RESTAURAZIONE DEL CAPITALISMO?

Inutile ricordare i dati di una crescita esponenziale che ha in breve tempo trasformato un Paese drammaticamente arretrato ed ancora sottomesso all’andamento irregolare dei raccolti agricoli, facendone un protagonista della scena internazionale contemporanea: su tutto questo “l’Ernesto” ha presentato, negli ultimi mesi, interventi ben documentati [1]. Ma proprio su questi dati di fatto i testi presenti nel libro di Di Francesco danno una valutazione molto severa, esprimendo in ultima istanza un giudizio univocamente negativo. La Cina, dice lo stesso Di Francesco, «si è fatta “capitalismo”, assumendo l’unico sviluppo possibile, quello fondato sulle disuguaglianze sempre più estese e sullo sfruttamento, materiale e immateriale, dell’uomo sull’uomo, sulla violenza connessa all’enfasi delle spese militari». Le virgolette cadono però subito, perché enormi, continua Di Francesco, devono essere considerati i «costi politici, umani e sociali» di «questa nuova forma di capitalismo», il cui sviluppo è «sostanzialmente mostruoso, perché artificialmente basato sulla disuguaglianza necessaria e sulla violenza di Stato», sulla «crescita solo per l’esportazione», sulla «ricchezza per pochissimi», sulla «miseria programmata dell’interno » e della campagna, sulla «diffusione dell’incertezza e della disoccupazione », sulla distruzione del Welfare e lo «sfruttamento disumano del lavoro» da parte di una «nuova esigua classe di imprenditori privati di stato» (9-10). In quest’ottica, la Cina sembra diventare addirittura il punto più avanzato del fronte capitalistico internazionale odierno. Proprio la svolta operata da Deng nel Paese asiatico «ha di fatto allargato la dimensione mondiale dell’economia di mercato» conducendola «nella sua piena fase globale» (14), tanto che la Cina diviene paradigma del capitalismo contemporaneo stesso: «ora la Cina è, tout court, il capitalismo» (9). E’ questa la linea di fondo dei saggi inediti che compongono il libro. Dalla scelta delle “quattro modernizzazioni” del 1975 e soprattutto dal 1978 sino all’ingresso nella WTO del 2001, la Cina si muove, secondo Edoarda Masi, lungo una strada di politica economica e finanziaria inequivocabilmente capitalistica che ha condotto in pochi decenni alla formazione «di una middle class orientata al “consumo” », divenuta presto «la base di massa del consenso a politiche autoritarie di controllo del lavoro», secondo il modello neoliberista globalizzato. Smantellamento del Welfare, impoverimento relativo degli operai e dei contadini, disoccupazione, sono «il risultato inevitabile del graduale inserimento della Cina in un contesto internazionale dove negli ultimi decenni si registra una complessiva sconfitta del lavoro ». L’apertura ai capitali stranieri, inoltre, ha prodotto una collusione tra le grandi transnazionali e una nuova «borghesia compradora » con il risultato che, non- ostante le infatuazioni di una certa sinistra americana, il “socialismo di mercato” non sarebbe altro che l’«organo dei potentati economici gestori del capitale (interni e internazionali) » (118-22). Insomma, la «Grande Trasformazione» pensata da Deng si è rivelata una «Grande Deformazione», producendo «ineguaglianze sempre più forti» (Pascucci, 127-8) soprattutto tra città e campagna e una crisi sociale crescente. Il modello di sviluppo praticato in Cina viene dunque severamente condannato dagli autori, che ne denunciano il fallimento rispetto agli originari obiettivi socialisti e ne prevedono – o addirittura ne auspicano – la frantumazione in tempi brevi (con quali conseguenze, non è detto). «Una nuova grande esplosione sociale epocale», una nuova Tian An Men su scala nazionale coverebbe sotto la cenere del consenso ufficiale, secondo Di Francesco (10). Già oggi, innumerevoli sono i «sommovimenti sociali», le «proteste», «rivolte», «resistenze violente», «tumulti» provocati dallo sviluppo economico (Pascucci, 124). L’accentuarsi della stratificazione di classe nella società cinese ha accumulato le contraddizioni tra i diversi interessi e ha già fatto sorgere, insomma, «la figura di un vero e proprio proletariato» (Masi, 122), prefigurando l’eruzione imminente di un conflitto di classe interno alla Cina di proporzioni devastanti.

2. LA RIVOLUZIONE CULTURALE: UNO STATO D’ECCEZIONE PERMANENTE

Rispetto a questo esito della rivoluzione cinese si ponevano però secondo gli autori del libro delle alternative. La scelta capitalistica ha rappresentato infatti una drastica «restaurazione» (Masi, 26) e dunque una sorta di tradimento rispetto alla più autentica linea maoista, realizzata solo per un breve momento con la rivoluzione culturale. Nel periodo tra il 1966 e il 1968 – tra il “Manifesto di Beida”, seguito poco dopo dal celebre dazebao dello stesso Mao “Bombardate il quartier generale” e dalla “Risoluzione in 16 punti”, e l’occupazione delle università da parte degli operai per porre fine ai violenti scontri di fazione tra gli studenti delle Guardie rosse – si estinguerebbe la possibilità di un diverso percorso storico e dell’avvio di un’autentica transizione al socialismo. Contestando la storiografia dominante nella sinologia contemporanea, che vi legge principalmente una lotta di potere in seno al gruppo dirigente cinese, Di Francesco e in maniera più articolata Masi ribadiscono l’interpretazione che la rivoluzione culturale dava di se stessa, identificandola cioè con un grandioso ma realistico tentativo di costruzione di un modello di società alternativa che aveva l’ambizione di porsi completamente al di fuori del rapporto di capitale. Già con il volontarismo del Grande balzo in avanti, Mao cercherebbe infatti di mettere in atto un progetto di modernizzazione socialista diverso rispetto a quello perseguito da Stalin in Russia. Questa intenzione è ancor più approfondita nella rivoluzione culturale, che si porrebbe perciò come un’alternativa radicale alla soluzione “revisionista” sovietica. L’Urss degli anni di Krusciov è per Mao una società a capitalismo di Stato, nella quale la classe borghese si riproduce nelle forme della burocrazia comunista al potere. Instaurata la dittatura del proletariato per tramite della presa del potere da parte del partito comunista e statalizzata la proprietà, si era mantenuta nelle relazioni lavorative l’estrazione di plusvalore, in nome del processo di industrializzazione necessario al fine dell’accumulazione socialista; si era inoltre sottomessa con la forza la campagna e si era favorito lo sviluppo diseguale di una società imperniata sull’alleanza tra quadri dirigenti politici e ceti istruiti e tecnici, riproducendo le forme borghesi di divisione del lavoro, di subordinazione cognitiva e materiale delle classi subalterne e di alienazione sociale. Sotto questo aspetto, per Masi e gli altri autori non ci sarebbe differenza sostanziale tra il modello sovietico, elaborato già da Preobrazenskij, e quello delle società capitalistiche vere e proprie. Sembra a tratti una condanna della modernità in quanto tale, che si riversa inevitabilmente sullo stesso Marx: una filosofia della storia che concepisce lo sviluppo delle forze produttive come premessa necessaria per la transizione al socialismo in un Paese arretrato induce infatti la scelta economica dell’industrialismo e dello sviluppo quantitativo e fa perciò muovere l’Urss «lungo le linee già tracciate in Europa dalla borghesia» (22). Di contro a questo modello, la rivoluzione culturale proporrebbe un percorso «fondato sull’egualitarismo e sul controllo dal basso della politica e dell’economia», rifiutando «lo sfruttamento intensivo delle campagne al fine dell’edificazione di una grande industria pesante » (Di Francesco, 11) e promuovendo forme diffuse di autogestione. E’ un modello che muove dall’idea che con la presa del potere la lotta di classe non cessa ma è semmai appena cominciata. Essa si sviluppa sotto nuove forme all’interno dello stesso partito comunista, nel cui seno i settori “borghesi” si identificano proprio con i “revisionisti” fautori della scelta modernizzante ispirata al capitalismo di Stato. Questa lotta va condotta dunque attraverso una mobilitazione diretta delle masse, il cui continuo movimento fa saltare ogni equilibrio ed ordine parziale e sottopone la società ad un rivoluzionamento incessante. Una rivoluzione veramente “permanente”, “totale”, che si prefigge anzitutto una trasformazione integrale dei soggetti a partire dal loro modo di pensare e dal loro stile di vita, distruggendo ogni forma di cultura e tradizione consolidata per far trionfare il “nuovo”. Nella storia del comunismo internazionale, è forse quanto più si è av- vicinato alla caricatura fornita da Hannah Arendt con la definizione di “totalitarismo”, caratterizzato a suo avviso da una «smania di moto perpetuo» in cui tutti «continuano a muoversi e a far muovere ogni cosa intorno a loro» [2]. Al di fuori di questo riferimento deformante, si potrebbe dire che si tratta di un fenomeno di mobilitazione totale nell’ambito di uno stato d’eccezione che si tende a rendere permanente, sino alle soglie della guerra civile.

3. FORMA-PARTITO, STATO E PRESA DEL POTERE

Forte ed esplicita è, in questa identificazione degli autori con gli obiettivi dichiarati dall’utopismo assoluto della Rivoluzione culturale, l’eco dell’esperienza della contestazione giovanile in Europa, che nel maoismo trovò pressoché negli stessi anni un suggestivo ma equivoco mito di mobilitazione (tuttavia, proprio la rivendicazione delle istanze genuinamente socialiste dei fatti cinesi dovrebbe oggi mettere in guardia da ogni facile analogia con il ciclo 1968-‘77, che non fu certo un’ondata rivoluzionaria ma semmai una “crisi di modernizzazione” e di “liberalizzazione” della società borghese, rivolta contro strutture gerarchiche, ideologico-morali e di consumo ormai obsolete e contro il loro “doppio” rappresentato dai partiti comunisti ufficiali). Più che nell’improbabile riproposizione della linea contestatrice, però, i saggi raccolti da Di Francesco convergono in realtà nella messa a fuoco di alcuni nuclei tematici che implicano una precisa proposta politica valida per l’oggi: e cioè, una radicale contestazione della forma-partito e della forma-Stato, nonché della loro logica mediazione, l’idea di una “presa del potere” da parte delle classi subalterne organizzate. E’ quanto si evince in particolare dall’intervento di Badiou, oggi leader de “L’organisation politique” in Francia, che si preoccupa di indicare l’intima contraddittorietà della rivoluzione culturale e dunque la “logicità” della sua sconfitta. Nel suo sforzo di cercare un’alternativa egualitaria al modello sovietico, Mao mette drammaticamente in discussione lo Stato socialista costituito, nella sua natura di dittatura del proletariato. Ciò comporta una resa dei conti con lo stesso partito, nel cui seno si accumulano e sono ormai maggioritari quegli agglomerati di interesse borghesi che rendono inattuale ogni ipotesi comunista. Si tratta, insomma, di proseguire la lotta di classe, di continuare la rivoluzione contro il partito e dunque contro lo Stato, scagliando verso la “destra” una «mobilitazione politica di massa» capace di generare, anche in «forme incontrollate di rivolta», delle fondamentali «innovazioni organizzative». Al tempo stesso, però, questa mobilitazione deve rimanere dentro il partito e dentro lo Stato, pena la guerra civile e la dissoluzione della società. Qui si sconterebbe, secondo Badiou, il limite della rivoluzione culturale e dello stesso Mao, che si dimostra incapace di andare oltre la forma del leninismo e di concepire uno spazio politico diverso da quello del partito-Stato. Per Mao «la forma generale della relazione tra partito e Stato» (43-4) (al cui cuore si pone ovviamente la questione della forza) «deve restare immutata», perché egli, incapace di concepire forme alternative, vuole certo riformare ma non «distruggere il partito», la cui «grande maggioranza dei quadri » è dichiarata «buona». Da qui il suo atteggiamento ondivago, irrisolto, nei confronti del movimento rivoluzionario, che viene mille volte incitato per essere subito dopo frenato. Il movimento si dimostra capace di «una libertà assolutamente stupefacente» e di grande inventiva politica; e però il suo corso viene costantemente contenuto entro i limiti della forma-partito e non gli viene consentito di costruire luoghi nuovi e alternativi di espressione: l’«azione dei giovani» non trova «uno spazio politico globale per l’affermazione, per la creazione positiva del nuovo» ma viene ricondotta alle dinamiche dello scontro nel partito e nello Stato e in tal modo soffocata. Quando la «comune» si costituisce in un burocratico «comitato rivoluzionario», il gioco è fatto e l’occasione è ormai bruciata: dalla «confusione dionisiaca», certo «non priva di violenza e distruzioni», si è passati all’ordine, all’instaurazione di «un nuovo “potere”», che «trova ispirazione in un completo contromodello di partito-Stato», perché «il partito e il partito solo» costituisce «la cornice generale per l’esercizio del potere» (51-6). Insomma, la rivoluzione culturale fallisce per Badiou proprio perché «risultò impossibile dispiegare l’innovazione politica all’interno del partito-Stato», ormai strutturalmente irriformabile. Essa «è l’ultima sequenza politica ancora interna al partito-Stato… e come tale fallisce»; proprio per questo, però, essa «satura la forma del partito- Stato […]» e ne decreta la fine. Il partito come rappresentazione della classe e lo Stato socialista come Stato proletario vengono irrimediabilmente delegittimati nella loro funzione «rivoluzionaria». Con ciò – cosa ancor più importante – viene delegittimata la stessa «concezione rivoluzionaria dell’articolazione tra politica e Stato», e cioè l’idea leninista della presa del potere. Inizia, da quel momento, secondo Badiou, una ricerca nuova, lo sforzo di pensare un luogo della politica «fuori dello spettro del partito-Stato» e l’idea di una politica che non sia «direttamente garantita dall’unità formale dello Stato» (38-40). E’ certamente questa l’idea di «ri- messa in discussione del potere, di rigenerazione della politica, di “rifondazione” del comunismo» di cui parla Di Francesco (13). Se così stanno le cose, ben si capisce la particolare acrimonia degli autori verso la Cina contemporanea, Paese in cui un partito comunista detiene ancora oggi saldamente il potere dello Stato! La proposta politica che ne risulta, però, appare particolarmente problematica. La dura contestazione del socialismo cinese, denunciato come inveramento dell’ipotesi del capitalismo di Stato e “tradimento” del maoismo, è certo la logica conseguenza di una sostanziale condanna dell’esperienza comunista novecentesca in quanto tale, che bene o male nell’Urss, nei Paesi socialisti e nella stessa Cina ha trovato l’unico campo di applicazione sinora praticato. Ma a questa esperienza nessuno di coloro che pure ne auspicano la “rifondazione” sembra in grado di contrapporre alcuna alternativa che non sia meramente ideale, immaginaria. L’unica alternativa che qui si prospetta, anzi, consiste nella paradossale celebrazione (o nell’auspicio, nel caso della Cina) della sua dissoluzione e dunque nella legittimazione di quei processi storici che dell’esperienza comunista hanno sancito la sconfitta: muoia il socialismo, viva il socialismo… Non è un caso che Badiou saluti come forma politica finalmente post-leninista – ma ormai, a questo punto, anche post-maoista – non tanto il ’68, ancora interno alle dinamiche classiche, ma addirittura «il movimento polacco» (38), e cioè esattamente un episodio chiave della Guerra fredda, momento di svolta di quell’offensiva finale contro il movimento comunista che condurrà al dilagare del neoliberismo nell’Est europeo e alla sostanziale imposizione di un protettorato americano nel cuore dell’Europa. Quanto al Chiapas, di cui molto si è parlato a sinistra negli ultimi anni, si tratta di un’esperienza di resistenza comunitaria locale interessante ma che difficilmente può essere generalizzata come alternativa globale di sistema. La questione della forma-partito e della forma-Stato è evidentemente un problema teorico di enorme portata che ha lacerato la sinistra sin dalle origini del movimento operaio dividendo gli stessi partiti comunisti. Tutta l’opera di Gramsci e di Lenin, sotto certi aspetti, può essere letta come una riflessione su questi temi: possono le classi subalterne, deboli e inevitabilmente frantumate, trovare quell’unità che consente loro di diventare un soggetto consapevole e di condurre una lotta efficace al di fuori di un qualche principio di organizzazione politica? E come è possibile superare gli antagonismi e le parzialità che di continuo rinascono nella società civile, nonché affrontare i compiti della gestione di una società complessa e della produzione moderna, senza una qualche forma di “burocrazia”? Secondo Badiou, «tutta la politica emancipatoria deve porre fine al modello del partito… per affermare una politica “senza partito”, e però, allo stesso tempo, senza cadere nell’anarchismo» (65). Non sembra proprio una ricerca facile e infatti non viene indicata nessuna strada. Né l’esempio della rivoluzione culturale, il cui estremismo ideologico portò la Cina sull’orlo della guerra civile e della disgregazione territoriale, prefigurando una forma di potere personalistico e plebiscitario in forme sacralizzate, può essere indicato come una soluzione. Se l’alternativa al partito non è l’anarchia, essa sembra non poter essere che una forma di autogestione, di autogoverno coordinato dei produttori la cui soggettività sia divenuta talmente ricca di competenze e matura da potersi regolare da sé e non abbia più bisogno di alcuna eterodirezione, né da parte del partito, né da parte dello Stato. Saremmo però così giunti nel pieno della teoria del General Intellect, un quadro concettuale ben diverso dal maoismo. Un quadro che presuppone a sua volta uno sviluppo enorme delle forze produttive materiali ed immateriali e un pieno dispiegamento della modernità, con la sua soggettività complessa e ricca di bisogni e sapere. Una prospettiva economicistica, dunque, che si pone totalmente in contraddizione con l’intento anti-sviluppista, e a volte anche pauperistico e anti-modernista, della maggior parte dei fautori della rivoluzione culturale, non a caso tanto accesi nel condannare la scelta di Deng di puntare sulla crescita.

4. COMPLESSITA’ DELLA COSTRUZIONE DEL SOCIALISMO E TEMPI LUNGHI DELLA TRANSIZIONE

Un groviglio di contraddizioni, dunque, tanto sul piano del ragionamento politico quanto sul piano teorico, che ci fa capire come certi giudizi liquidatori siano forse troppo affrettati e ci induce a tornare su un terreno più concreto. Ci aiuta qui l’intervento della Rossanda, che aveva sostenuto con forza la rivoluzione culturale e che nel 1976 aveva pianto la morte di Mao con parole che mescolavano commozione e immedesimazione politica (ciò che fa di Mao «il riferimento più diretto e più attuale» per «i comunisti della nostra generazione» è «il comunismo come programma immediato, non ipotesi di domani ma leva dell’oggi, condizione della rivoluzione occidentale») [3]. Ma che già in questo testo del 1978 prende sul serio «il fallimento del soggettivismo rivoluzionario » e non perde l’occasione per introdurre importanti elementi autocritici. Certo, il ritorno di Deng è visto senz’altro come una «liquidazione » e però lo sguardo della Rossanda sull’esperienza del maoismo è anche estremamente lucido nel valutarne gli errori. Nel considerare che, certamente, bisognava «rivoluzionare lo schema di formazione delle risorse» (136-7) ma che questo andava fatto distinguendo ciò che andava «conservato» da ciò che andava «distrutto» e soprattutto «senza annullare la formazione delle risorse». La stessa dialettica di “distruzione” e “conservazione ” vale per lo Stato, che deve non svanire ma trasformarsi in una «nuova dialettica del contratto sociale», ripresentarsi come «concertazione d’insieme delle risorse e della politica », essere «decentrato» ma essere pur sempre un «sistema» (146). Il comunismo, insomma, «non consiste nel nutrirsi come gli uccelli del cielo e vestirsi come i gigli del campo in un’infinita addizione di libertà individuali» (137), mentre nel sostenere la Rivoluzione culturale, ammette, «concepimmo la palingenesi come più “semplice” del creato » e per questo «perdonammo settarismi, schematismi, brutalità» (160) che rischiarono di condurre alla «distruzione irreversibile di risorse, dell’unità stessa del paese, della sua possibilità di sopravvivenza esterna» (134). Nel saggio di Karol si ricorda come nel 1975, Mao vivente, l’Assemblea nazionale del popolo ne avesse approvato una direttiva che Zhou Enlai affermava risalire addirittura al 1964: «Bisogna trasformare la Cina, prima della fine del secolo, in un potente stato socialista moderno, ai primi posti nel mondo» (179, cfr 195). Altre famose dichiarazioni di Mao sembrano del resto alludere almeno ad una parziale autocritica dell’esperienza della rivoluzione culturale, nella quale veniva individuato «un settanta per cento di buono» ma anche «un trenta per cento di cattivo». La scelta effettuata da Deng appare muoversi lungo questo solco: non rinnegare l’esperienza del maoismo ma oltrepassarla, mettendo il Paese su una strada di sperimentazione che viene proiettata su tempi lunghi che tengano conto della necessità di porre fine ad uno stato d’eccezione permanente. Che tengano conto, inoltre, della situazione reale della società e del contesto internazionale, alla ricerca di una forma di socialismo originale per la quale nessuno, tanto meno in Occidente, ha pronta una formula magica. E’ quanto suggeriva alcuni anni fa anche Samir Amin, contestando la tesi secondo cui il 1978 ha costituito una netta discontinuità nella storia della Repubblica popolare e smentendo alcuni luoghi comuni. Nonostante gli errori, la fase maoista aveva assicurato una certa autosufficienza agricola e sviluppato l’industria di base, con una crescita dal 1952 al 1978 del 6,2% l’anno. Questa fase, però, alla fine degli anni Settanta aveva «raggiunto i limiti di quello che potevano produrre le sue strategie » e a quel punto «il sistema di pianificazione centralizzata e le scelte che vi furono associate dovevano comunque essere profondamente riformate» [4]. La scelta cinese è stata quella di «attraversare il fiume per piccoli passi, passando da un sasso all’altro» senza scossoni. E’ una strada che punta al «miglioramento immediato del consumo» e comporta «un grande ricorso ai rapporti commerciali» ma anche alla loro «regolamentazione» mediante il mantenimento della pianificazione centrale e comunque «caratterizzata dal prevalere di forme pubbliche e cooperative d’impresa». Una strada che rifiuta l’alternativa secca tra piano e mercato e si definisce come una «transizione» che passa per forme intermedie. I suoi risultati, che consentono ogni anno a milioni di persone di oltrepassare la soglia di povertà, si innestano dunque senza inversioni di rotta su «quelle basi economiche, politiche e sociali costruite nel corso del periodo precedente» e si configurano come l’esito non di un «tradimento » bensì di un processo di «apprendimento »[5], direbbe Losurdo. E’ certamente un processo rischioso e dall’esito tutt’altro che scontato. Da un lato, è evidente la differenziazione sociale, l’emergere di nuove disuguaglianze relative e distorsioni regionali, soprattutto in un Paese immenso, in cui i retaggi del passato sono persistenti e non è mai stato facile il controllo razionale delle periferie e il contrasto dei particolarismi. In questo senso, al contrario di quanto si pensa, spesso il partito comunista e lo Stato si dimostrano in Cina sin troppo deboli e impotenti di fronte all’emergere di notabilati locali, inefficienze, soprusi e corruzione. Dall’altro, si tratta di un processo aperto, sulla cui direzione nella società cinese e nello stesso partito comunista è diffusa la discussione ma innegabilmente anche il conflitto. Esiste in Cina un dibattito culturale più esplicito di quanto solitamente si creda, una battaglia delle idee nella quale si confrontano punti di vista molto diversi tra loro e sulla quale – a quanto risulta anche da interviste di autorevoli intellettuali liberamente pubblicate in Italia[6] – non vengono esercitate forme di censura insuperabili. Ed esiste soprattutto un dibattito politico generalizzato che attraversa persino il governo. Questo è il punto centrale: il problema non è l’economia ma la politica; la capacità della politica di non farsi sopraffare dalla logica dell’economia e dagli interessi che nei suoi meccanismi inevitabilmente attecchiscono e di ribadire il proprio comando razionale su di essa. La sua capacità di imprimere una direzione al corso delle riforme economiche e di rimodularle di volta in volta nel quadro di un disegno più generale e di lunga durata dello sviluppo della società in chiave socialista. E’ la presenza di questo dibattito, di questo conflitto reale – che è fra gli uomini e le tendenze ma prima di tutto nelle cose – che si manifesta nei progressivi riaggiustamenti che il gruppo dirigente cinese ha dato negli ultimi decenni alla propria linea. Basta ad esempio leggere il Rapporto sull’esecuzione del piano per lo sviluppo nazionale economico e sociale del 2005 e il progetto del piano del 2006[7] per accorgersi di come tutti i problemi di cui abbiamo parlato siano oggi al centro della discussione degli stessi organismi legislativi ed esecutivi. Il rapporto sottolinea ovviamente con enfasi i grandi risultati conseguiti e soprattutto il continuo «miglioramento delle condizioni di vita del popolo» e però non tace nessuna delle contraddizioni sul tappeto. Enormi sembrano le contraddizioni in atto: ci sono anzitutto «problemi di lunga durata e strutturali» come «la limitata capacità di innovazione autonoma, lo squilibrio nella struttura economica, un modello estensivo di sviluppo». Ma ci sono anche necessità più recenti – le stesse sottolineate dai critici del socialismo di mercato -, come quella di salvaguardare «le risorse e l’ambiente », la «notevole disparità tra le economie urbane e rurali» e lo «sviluppo economico e sociale squilibrato ». Soprattutto questo viene visto come il problema principale: «La pressione sull’occupazione e il reimpiego della forza lavoro è cresciuta, il sistema di sicurezza sociale deve essere migliorato, le disparità di reddito tra i membri della società si stanno espandendo e ben pochi progressi sono stati fatti nell’affrontare problemi come quello delle tasse arbitrarie per l’istruzione, l’assistenza medica inadeguata e i costi eccessivamente alti delle cure sanitarie ». «Il popolo», inoltre, «protesta aspramente per i problemi legati alla protezione ambientale, alla ristrutturazione delle imprese, all’espropriazione delle terre, alla demolizione delle case». E in questa prospettiva il nuovo piano si propone un riaggiustamento ambizioso, un «nuovo punto di partenza storico per la Cina» che punti a realizzare una «società armoniosa» riducendo gli squilibri e le contraddizioni sociali. A prescindere da ogni ottimismo, un giudizio sommario che sancisca l’avvenuta restaurazione del capitalismo in Cina in base alla percentuale di proprietà privata presente, senza tener conto di queste discriminanti politiche, sarebbe dunque quantomeno semplicistico e affrettato. Ma anche limitandosi ad indicatori puramente economici, Amin nel 2001 considerava ancora del tutto aperta la possibilità di un «progetto di sviluppo nazionale e popolare, che associ in modo complementare e conflittuale al tempo stesso le logiche capitalistiche di mercato e le logiche sociali inserite in una prospettiva socialista di lungo termine»[8]. Soprattutto il mantenimento del «diritto all’accesso uguale alla terra di tutti i contadini »[9] manterrebbe integra a suo avviso questa prospettiva. Pur criticando aspramente i processi in corso e prevedendone un esito restaurativo in tempi brevi, del resto, persino Livio Maitan rimaneva prudente e ammetteva che «in Cina non si è, almeno sino ad ora, verificato quel processo di restaurazione capitalistica in corso da un decennio nei paesi dell’ex-Unione Sovietica e dell’Europa centroorientale »[10]. L’immagine di una Cina avanguardia del capitalismo neoliberista non risponde dunque al vero. Ricordiamo che anche Stiglitz, sia nel suo celebre testo su La globalizzazione e i suoi oppositori che in interventi più recenti, ha sottolineato positivamente la via cinese come il tentativo di sviluppare una forma di mercato del tutto alternativa a quella neoliberista e in netto contrasto con i precetti di deregulation sanciti nel “consensus di Washington” e imposti al Terzo mondo dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale[11]. La cruda realtà dei fatti è enunciata del resto dagli stessi strateghi americani: «Il Pil della Cina nel 2001», dice Kupchan, «era di tredici miliardi di dollari, mentre quello dell’America era di centodue miliardi di dollari… La sola economia della California è più grande di quella cinese»[12]. Quanto alle spese militari, poi, «alla fine degli anni Novanta, il bilancio della difesa della Cina era circa il 5% rispetto a quello degli Stati Uniti e non ha tenuto il passo dell’incremento della spesa in America». Lungi dall’essere il fronte avanzato del capitalismo, la Cina allo stato attuale può aspirare ad essere «una rispettabile media potenza» ma «non ha la forza economica e militare per essere il principale competitore dell’America». Queste considerazioni richiamano, in conclusione, il principale rimosso presente nel testo curato da Di Francesco: l’ambiente internazionale e geopolitico. Il fatto, cioè, che la modernizzazione della Cina debba fare i conti con un contesto fortemente conflittuale. A prescindere dai rapporti controversi tra Cina, Urss e USA, essa inizia e si sviluppa a lungo nel corso della Guerra fredda, di una dinamica che ha condotto a una sconfitta netta del movimento comunista nell’ambito del confronto internazionale. Laddove l’Urss e i Paesi del Patto di Varsavia ne sono usciti distrutti, la Cina ha saputo fare altre scelte ed è ancora in piedi, capace di tenere aperta almeno la possibilità di una transizione socialista. Ma l’ambiente geopolitico ed economico mondiale non è divenuto oggi più pacifico e si è al contrario inasprito, tanto da manifestare il dispiegarsi di un vero e proprio processo di ricolonizzazione su scala planetaria. Se i realisti alla Kupchan cercano di dirigere la strategia statunitense verso una leadership più consensuale e multilaterale della politica internazionale e della globalizzazione, non va dimenticato che altri settori – ben più influenti, come dimostra un decennio di guerra permanente – puntano ad affermare con la forza l’ordine americano e mettono in conto una resa dei conti militare nella quale la Cina occupa un posto speciale. Così Kagan ritiene «altamente probabile» un «duro confronto»[13] entro 20 anni, mentre Huntington invita a guardare alla Cina come «il maggior antagonista dell’Occidente » e a prevenire con ogni mezzo la saldatura di un «asse islamico-confuciano »[14]. Al di là della competizione economica, siamo dunque già nel pieno di un confronto geostrategico globale [15], nel quale è in gioco una sorta di ricolonizzazione del mondo. C’è da chiedersi, considerata la funzione oggettivamente equilibratrice della Cina in sede ONU e in sede WTO, se la crisi del suo progetto di modernizzazione e della sua direzione politica sarebbe una cosa auspicabile, come traspare nel libro di Di Francesco. Così come c’è da chiedersi se essa costituirebbe un avanzamento della causa delle classi subalterne nel mondo o piuttosto una sua ulteriore battuta d’arresto dopo il crollo dell’Urss. Ci sarebbero altre importanti riflessioni da fare. Prima fra tutte quella sulla complessità dei processi storici di transizione che conducono da un’epoca all’altra, da un modo di produzione o da una formazione economico-sociale all’altra. Il passaggio dal feudalesimo al capitalismo non ha risposto a nessun piano predefinito, ha richiesto molti secoli, ha attraversato fasi di accelerazione e arretramento e si è sviluppato in maniera diversa a seconda dei diversi contesti nazionali. E’ stato insomma un processo lungo, lento e contraddittorio, segnato da guerre, crisi, conflitti sociali e soprattutto da un’enorme erogazione di lavoro ma anche di dolore sociale, dalla massiccia presenza del “negativo”. E’ necessario che nelle condizioni di una accresciuta razionalità e capacità di controllo dei fattori politici e socio-economici, oltre che di una diversa consapevolezza ideologica e culturale, la ricerca di una trasformazione in senso socialista sia meno dolorosa, ma nulla rende lecito pensare che essa possa essere meno complicata e scevra da errori e sperimentazioni: sempre con processi storici abbiamo a che fare. E’ per questo che i giudizi sommari andrebbero evitati, pena la caduta in quell’atteggiamento etnocentrico di chi la sa lunga, e finisce per ricondurre il travaglio di altri popoli alle proprie esigenze, ai propri schemi, ai propri obiettivi politici. «La più straordinaria trasformazione economica della storia», ha commentato di recente Stiglitz, rimarcando le ricadute delle politiche della Cina «sul benessere di quasi un quarto della popolazione mondiale »[16]. «Mai prima d’ora», conclude, «si è stati testimoni di una così massiccia riduzione della povertà complessiva». Forse, rispetto all’esperienza cinese come ad altre, la cultura politica occidentale non ha in questo momento nulla da insegnare ma molto da osservare ed apprendere.

Note

1 Cfr. ad esempio nel n° 2, 2006 Alberto Gabriele, Note sul socialismo e sulla Cina (pp. 46- 52) e Peter Franssen, Una nuova politica per colmare il divario tra ricchi e poveri (pp. 53-6)

2 Hannah Arendt, Le Origini del totalitarismo, ed. di Comunità, Milano 1989, p. 424; ed. orig. The Origins of Totalitarianism (1951), Harcourt, Brace & World, New York 1966.

3 Ne “Il Manifesto”, 10 settembre 1976.

4 Samir Amin, Bilancio della grande riforma. Il “socialismo di mercato” in Cina, in “La rivista del manifesto”, n° 13, gennaio 2001.

5 Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi, La Città del Sole, Napoli 2005, p. 66.

6 Cfr. Che cosa bolle in Cina. Conservatori, liberali, “Nuova Sinistra”, in “La rivista del manifesto”, n° 15, marzo 2001. Si tratta di un’intervista nella quale Wang Hui, direttore della rivista cinese “Dushu”, espone una panoramica delle tendenze ideologiche presenti nel mondo culturale cinese senza reticenze sul contenzioso politico e facendo nomi e cognomi.

7 Approvati nella quarta sessione del decimo Congresso nazionale del popolo del 5 marzo 2006 e disponibili sul sito ufficiale della RPC per l’estero www.china.org (l’indirizzo completo è http://www. 10thnpc.org.cn/english/2006lh/161917.htm).

8 Samir Amin, La Cina nell’economia mondo. Autarchia, autonomia, integrazione, in “La rivista del manifesto”, n° 14, febbraio 2001.

9 Samir Amin, La Cina al bivio. I dilemmi del “socialismo di mercato”, “La rivista del manifesto”, n° 34, dicembre 2002.

10 Livio Maitan, Sulle riforme in Cina. Discutendo con Samir Amin, in “La rivista del manifesto”, n° 17, maggio 2001.

11 Cfr. Joseph Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002, pp. 124-5; ed. orig. Globalization and its Discontents, Penguin Books, London 2002; cfr. anche Development in Defiance of the Washington Consensus, in “The Guardian”, 13 aprile 2006.

12 Charles A. Kupchan, La fine dell’era americana. Politica estera americana e geopolitica nel Ventunesimo secolo, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 345; ed. orig. The End of the American Era. U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty-first Century, Knopf, New York 2002.

13 Robert Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano 2003, p. 104; ed. orig. Of Paradise and Power, Knopf, New York 2003.

14 Samuel P. Huntington, Lo scontro delle ci – viltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997, 2000, p. 80 e p. 353; ed. orig., The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, 1996.

15 Cfr. Il tempo della Cina, “Aspenia”, n° 23, 2003; in particolare Ted Galen Carpenter Nemico o alleato? Lo scontro a Washington ( pp. 128-35), Zhang Siaodong, La strategia ame – ricana vista dalla Cina (pp. 149-53), Wang Jisi, L’ascesa di una nuova potenza (pp. 154-9)

16 Joseph Stiglitz, …, cit.