Europa: perchè è il momento di dire NO

Nelle settimane scorse la commissione europea ci ha proposto la sua idea di “governo economico” per l’Europa. Tommaso Padoa-Schioppa sul “Corriere della Sera” del 3 ottobre l’ha riassunta così:

“L’impianto è questo: le regole di bilancio restano quelle del Patto di stabilità, ma il debito pubblico (sotto il 60 per cento) – finora trascurato – assurge alla stessa importanza del deficit (sotto il 3); si rafforzano i meccanismi di controllo e le sanzioni; alla disciplina di bilancio si aggiunge una politica di correzione e prevenzione degli squilibri macroeconomici; si fa più autonomo il potere della Commissione e più difficile il boicottaggio del Consiglio”.

Il commento di Padoa-Schioppa è piuttosto salomonico (o pilatesco, a seconda dei punti di vista): Le proposte sono complesse e occorre guardarsi dai giudizi affrettati… Una condanna immediata sarebbe un errore… Bocciare la proposta non spianerebbe la strada verso l’impianto giusto, verso il vero governo europeo; aumenterebbe solo la cacofonia attuale. Se accolte e applicate al meglio, le regole e le procedure proposte potranno rafforzare… la disciplina degli orchestrali e l’autorità del direttore.

Addirittura serafico, poi, il ministro Tremonti: Non temiamo le nuove regole. Siamo in zona di sicurezza (dichiarazioni del 30 settembre).

Francamente, è difficile condividere la cautela dell’ex ministro del Tesoro e la tranquillità di quello in carica. Perché la proposta avanzata dalla Commissione europea chiede ai Paesi il cui debito superi il 60% del pil di ridurlo del 5% l’anno. In caso contrario sono previste sanzioni.

Che cosa significherà questo per l’Italia l’ha spiegato molto bene Superbonus sul “Fatto Quotidiano” del 3 ottobre: l’Italia ha un rapporto debito/Pil del 118 per cento. Quindi un eccesso di debito del 58 per cento, ossia 1044 miliardi di euro di debito in più di quello che sarebbe consentito dal nuovo patto di stabilità. In queste condizioni il governo dovrebbe varare una manovra di 55 miliardi per il solo 2011.

Sullo stesso quotidiano, il 7 ottobre Ugo Arrigo, professore di scienza delle finanze all’università di Milano, ci ha spiegato come dovranno essere reperiti tutti quei soldi: Impensabile recuperarli solo attraverso ulteriori manovre di finanza pubblica. Alcune tipologie di intervento pubblico sinora adottate non sono più sostenibili: l’impresa pubblica (lo Stato che fa l’imprenditore coi soldi dei contribuenti) non possiamo più permettercela; le grandi opere pubbliche, finanziate dallo stato in – dipendentemente dalla loro utilità, idem. Non più ponte sullo stretto, quindi; no Tav Torino-Lione. Le grandi opere devono essere lasciate ai privati i quali le costruiranno, in presenza di regole certe per il loro utilizzo economico, se riterranno che vi sia sufficiente disponibilità a pagare da parte dei loro potenziali utilizzatori (e quindi le due opere sopra citate non le fa – ranno sicuramente). [Ma ovviamente non faranno neppure nessuna infrastruttura che non sia a pedaggio e più in generale che non ripaghi in tempi brevi il proprio costo: se nell’Ottocento si fosse operato così non avremmo le ferrovie. Nota mia.] Bisogna inoltre rimettere mano alle privatizzazioni, senza dimenticare che il loro contributo alle esigenze della finanza pubblica è una tantum (le partecipazioni si vendono una volta sola) e che non può apportare introiti molto elevati. Dai primi anni Novanta ad oggi sono state effettuate privatizzazioni per circa 150 miliardi e realizzati introiti complessivi per il settore statale pari a circa 120 miliardi… Se oggi decidessimo di riprendere con grande impegno le privatizzazioni e fossimo disponibili a vendere tutto quello che resta delle partecipazioni pubbliche (comprese le Poste, Trenitalia, la stessa Cassa Depositi e le municipalizzate, uscite indenni dalle privatizzazioni degli anni ’90) potremmo attenderci nella migliore delle ipotesi introiti sino a 10 miliardi l’anno, probabilmente per un quinquennio… Sembra quindi che la Germania e il club nordeuropeo da essa guidato ci stiano chiedendo uno sforzo sovrumano, impossibile da conseguire pur impiegando tutti i mezzi immaginabili. La cosa più singolare è che, dopo aver fatto presente tutto questo, lo stesso Arrigo conclude che si tratta di un’occasione fantastica da non lasciarsi sfuggire. Altrimenti ci sarebbe il rischio di perdere un treno forse unico per il risanamento della finanza pubblica italiana, un vincolo esterno pesante, una ragione per dire come nel 1996: “Dobbiamo farlo perché l’Europa ce lo impone”.

Peccato che questo “treno unico” passerebbe sopra i lavoratori e metterebbe una pietra tombale sul futuro a breve e medio termine dell’economia italiana. Se così stanno le cose, “una condanna immediata” di queste proposte non solo non sarebbe “un errore”, come crede Padoa-Schioppa, ma sarebbe l’unica cosa sensata. I motivi per dire “NO” sono diversi, e tutti molto ragionevoli, a differenza dei deliri degli adepti della religione del bilancio in pareggio.

Vediamo i principali:

Spostare ora l’accento sul debito, modificando il Patto in essere (che fu negoziato dai negoziatori italiani con molta cura per evitare tagliole di questo genere – che del resto avrebbero reso impossibile la partecipazione dell’Italia all’Euro), è scorretto e sembra fatto con l’intenzione di spostare l’attenzione da alcuni Paesi oggi nell’occhio del ciclone ad altri. Un esempio per tutti: l’Irlanda a fine anno avrà un deficit del 32%, a causa dei salvataggi bancari che sono costati tra i 40 e i 50 miliardi di euro. Però lo stock del suo debito è (per ora) di poco superiore al 60% del pil. L’Italia, invece, ha un deficit del 5% (essenzialmente perché il pil è diminuito), ma un debito del 118%. Chi stia peggio lo dicono i rendimenti dei rispettivi titoli di Stato a 10 anni: 6,6% l’Irlanda e 3,9% l’Italia. Per i cervelloni di Bruxelles e di Berlino, però, la cura più da cavallo spetterebbe all’Italia. E si beccano pure gli applausi dei loro seguaci di casa nostra…

Le cifre di cui stiamo parlando sono tali da rendere privo di senso ogni negoziato (è chiaro infatti che non sarebbero meno folli manovre da 30 o 40 miliardi l’anno).

Correzioni di bilancio come quelle che si produrrebbero in diversi Paesi europei (non soltanto l’Italia, ma anche Grecia, Belgio e – sia pure in misura inferiore – Francia e Portogallo) se il nuovo Patto entrasse in vigore, farebbero vivere a questi Paesi lo stesso crollo delle attività produttive che sta già sperimentando la Grecia grazie alla misure draconiane imposte contestualmente al “salvataggio” di qualche mese fa (che in realtà non fu un salvataggio della Grecia, ma delle banche tedesche e francesi che possedevano la gran parte dei titoli di Stato greci).

I tagli alla spesa pubblica (cioè ai servizi e alle prestazioni sociali, all’assistenza, alle pensioni) approvati nei mesi scorsi in molti Paesi dell’Unione Europea, che in totale si aggirano sui 300 miliardi di euro, sono già tali da rendere molto probabili effetti deflattivi e di depressione dell’economia “stile anni Trenta” (ne ho parlato in un articolo sul “Fatto Quotidiano” del 30 maggio scorso). Se a questo si aggiungessero ulteriori sforbiciate alla spesa pubblica la probabilità diventerebbe certezza. E qui va ricordato che gli Stati fuori norma sul debito sono ormai la maggioranza nell’Unione, visto che in media il rapporto debito/Pil si aggira intorno all’80%.

Politiche come quelle proposte avverrebbero in una situazione in cui è in corso una guerra valutaria fatta di svalutazioni competitive (si fa un gran parlare della Cina, ma in realtà sono soprattutto gli Stati Uniti che stanno facendo di tutto per svalutare la loro valuta, mettendo tra l’altro a dura prova i loro tradizionali buoni rapporti con il Giappone, oltre a far infuriare tutti i Paesi emergenti che – a differenza della Cina – hanno lasciato fare ai mercati nella regolazione dei loro tassi di cambio). Queste politiche, e in verità anche il solo fatto di parlarne, hanno un effetto sicuro: rendere l’euro sopravvalutato, facendo un regalo a chi oggi fuori dell’Europa sta disperatamente svalutando, e quindi colpire le esportazioni europee.

E allora? Allora bisogna dire no, e opporsi con ogni mezzo a questa follia molesta. Si tratta infatti di proposte che, se realizzate, condannerebbero il nostro Paese a un altro decennio di stagnazione e a un declino forse irreversibile. Qui dobbiamo sgombrare il campo da un equivoco di fondo: quello secondo cui la sinistra sarebbe spendacciona e amerebbe i deficit pubblici, mentre la destra sarebbe rigorosa e rigorista. Questa leggenda metropolitana è smentita precisamente dalla storia di questo Paese, che ha visto l’impennata decisiva del debito pubblico negli anni del pentapartito e del CAF, come pure durante i primi governi di Berlusconi. E anche se voltiamo lo sguardo all’estero le cose non stanno in maniera molto diversa: basti pensare all’esplosione del debito pubblico statunitense, trainato dalle spese militari e dai tagli alle tasse (dei ricchi), sotto Reagan e più recentemente sotto Bush jr. Ma non bisogna essere dei fautori del deficit spending per prendere atto di due semplici verità. La prima è che una manovra deflazionistica su larga scala in Europa avrebbe effetti devastanti su quasi tutte le economie europee e si configurerebbe come una manovra deflazionistica da anni Trenta. La seconda, strategicamente più importante, è che questa crisi esige una svolta nei rapporti tra Stato e mercato rispetto ai ventanni del trionfo liberistico (e della sbornia relativa). Questo vale per l’intera Europa, ma in misura particolare per l’Italia, la cui situazione economica è letteralmente precipitata con l’abbandono dell’economia mista che la aveva caratterizzata nei decenni del dopoguerra. Lo Stato deve recuperare poteri di indirizzo effettivo dell’attività economica, e anche il controllo di settori strategici (telecomunicazioni, energia, banche: e a quest’ultimo riguardo l’autunno 2008 ha rappresentato un’occasione sprecata di proporzioni storiche). Che sono qualcosa di ben diverso dal mercato autoregolato dei liberisti, ma anche dal semplice rilancio della domanda aggregata tramite la spesa pubblica caro ai keynesiani. Ma per indirizzare lo sviluppo e controllare i settori strategici dell’economia occorrono risorse. Esse possono essere recuperate colpendo le rendite e l’evasione. A patto di non doverle poi bruciare sull’altare della religione di Maastricht.

Il rilancio del ruolo dello Stato e di una politica sociale degna di questo nome, come è chiaro, non è facilmente a portata di mano e richiede il realizzarsi di numerosi presupposti.

Uno di questi è rappresentato senz’altro da un fondamentale cambiamento di passo e di atteggiamento nei confronti dell’Europa, o meglio di questa Europa. Bisogna smetterla di considerare l’Unione Europea come un feticcio intangibile e un destino ineluttabile. Anche perché è precisamente questo tabù che rende possibili i ricatti più insensati, come quello che si profila sul debito pubblico. E forse, se si cominciasse a porlo seriamente in discussione, si scoprirebbe anche una maggiore disponibilità di Berlino (via Bruxelles) ad intendere le ragioni del nostro Paese.