Intervista a Ruggero Giacomini

Ruggero Giacomini è nato a Sarnano (Mc) il 1.5.1945, vive ad Ancona. Dottore di ricerca in storia dei partiti e movimenti politici, è stato allievo e collaboratore di Enzo Santarelli, ha pubblicato studi su Gramsci – una biografia è stata tradotta a Cuba –, sui movimenti per la pace e sulla Resistenza, realizzando con Ribelli e partigiani, “affinità elettive”, la prima ricostruzione d’insieme della Resistenza nelle Marche. Di questi giorni è La rivolta dei bersaglieri e le giornate rosse/ I moti di Ancona dell’estate 1920 e l’indipendenza dell’Albania, edito dall’Assemblea legislativa delle Marche in collaborazione col Centro culturale marchigiano “La Città futura”.

E’ stato promotore e curatore scientifico del museo della Resistenza di Falconara Marittima, fa parte del Comitato di direzione di “Marxismo oggi”, è attualmente segretario comunale di Ancona del PdCI.

1. Sei stato uno dei cento, tra intellettuali, quadri operai , dirigenti politici e sindacali, artisti, che il 17 aprile del 2008 firmarono l’ormai famoso Appello per l’unità dei comunisti. Un Appello assunto dall’ultimo Congresso Nazionale del PdCI, a Salsomaggiore; che ha segnato l’ultimo Congresso Nazionale del PRC, a Chianciano; che è entrato prepotentemente nel dibattito politico generale tra i comunisti in Italia e si è “fissato nella testa di migliaia e migliaia di compagni e compagne come una bandiera”.
A due anni di distanza da quella tua adesione, consideri ancora l’Appello valido e attuale ?

R. E’ giusto ricordare intanto che quell’Appello ha già svolto una funzione importante, indicando all’indomani del drammatico tracollo della lista arcobaleno, nello smarrimento generale, una strada positiva di ricostruzione, l’anello da afferrare per risollevarsi dallo stato pietoso in cui si era ridotta l’intera sinistra.

Ricordiamo anche come si giunse a quella sconfitta, con Fausto Bertinotti, che come leader della maggiore forza politica aveva preso in mano la conduzione della campagna elettorale, e invece del confronto con le altre forze politiche si preoccupò soprattutto di preparare il terreno per la sfida interna in quello che avrebbe dovuto essere il compimento del suo progetto politico, lo sbocco della rifondazione comunista nel suo contrario, la rifondazione di un’altra cosa e la liquidazione comunista.

Il congresso nazionale del PdCI, salvo una piccola minoranza, fece proprio lo spirito e la lettera di quell’appello e propose ai compagni del PRC di riunire le forze in uno stesso partito, per ridare coraggio ai militanti dispersi, essere più forti di fronte al capitale e ridare respiro alla ripresa più generale della sinistra e ad affrontare in maniera non subalterna la stessa drammatica questione democratica.

Contemporaneamente l’orgoglio comunista in Rifondazione riusciva a sconfiggere seppure di stretta misura il progetto della liquidazione comunista, lasciato da Bertinotti dopo il disastro dell’Arcobaleno nelle mani di Vendola. Questi due fatti positivi, il congresso di Salsomaggiore del PdCI e quello di Chianciano del PRC hanno creato le condizioni per il passaggio dalla propaganda dell’idea dell’unità dei comunisti alla possibilità di realizzare un grande passo in avanti concreto su questa via, superando la scissione del 1998, i cui motivi e gli stessi principali protagonisti, quali che siano stati allora i torti e le ragioni, non agiscono più nella situazione concreta.

In effetti alla base nella maggior parte delle realtà è avvenuto un processo di avvicinamento reale e di avvio di collaborazione tra i militanti, sono cadute diffidenze, si sono compiute azioni comuni. Tuttavia il rifiuto del gruppo dirigente del PRC di prendere in considerazione la proposta dice delle difficoltà che tuttora permangono per raggiungere l’unità, che va vista perciò come un processo, in cui la spinta dal basso dei militanti può essere in prospettiva decisiva, ma che in qualche modo va avviato. Ci sono due rischi a mio giudizio che possono vanificare o quanto meno rendere più difficile l’obiettivo: l’attesa che nel gruppo dirigente del PRC maturi una decisione diversa e l’impazienza di precipitazioni minoritarie che aumenterebbero la frammentazione. Intanto prendiamo atto che il PdCI ci sta a mettersi in gioco per questo progetto dell’unità dei comunisti e da qui si può partire senza settarismi, rispettando i tempi di ognuno e mantenendo e sviluppando l’interlocuzione e la collaborazione con il PRC.

Certo la Federazione della Sinistra non risolve e non può risolvere il problema dell’unità dei comunisti, che ha il suo sbocco naturale in un unico e più forte partito comunista. La Federazione della Sinistra può però aggregare tutte le forze della sinistra che non accettano la subalternità al PD e si collocano senza ambiguità nello scontro di classe dalla parte dei lavoratori.

2. Perché, a tuo avviso, la maggioranza del PRC – a cominciare dal suo segretario, compagno Paolo Ferrero – ha respinto la proposta dell’unità dei comunisti?

R. Il fatto stesso che la domanda sia posta in questi termini riflette il paradosso della situazione, e cioè che da parte di Ferrero e del gruppo dirigente del PRC non si esplicitino le posizioni, su un tema che è comunque all’ordine del giorno. Così si devono azzardare interpretazioni, col rischio di non azzeccarci.

Mi pare di aver letto che nel PRC si considerano equivalenti come importanza, entrambi “sostantivi”, i termini Rifondazione e Comunista. Credo che qui ci sia un nodo di ambiguità non sciolta. Quando al congresso fondativo si scelse di chiamarsi Partito della Rifondazione Comunista, era chiaro a tutti i militanti che la rifondazione riguardava il partito comunista e non un qualunque soggetto politico. Rifondazione come ricostruzione, facendo tesoro dell’esperienza e degli errori, di un nuovo, più forte, creativo e combattivo Partito Comunista.

Viceversa con l’affermarsi indiscusso dell’egemonia bertinottiana, favorita anche – va riconosciuto autocriticamente – dalla scissione del ’98, c’è stato uno slittamento semantico e uno spostamento di importanza da Comunista a Rifondazione, fino a che questa è diventata rifondazione di qualcos’altro non avente più niente a che fare con il comunismo.

Mi pare che in Rifondazione permanga ancora questa ambiguità non risolta, anche perché una parte che sosteneva la tendenza della liquidazione comunista, sconfitta a Chianciano, è rimasta nel partito in posizioni influenti e dirigenti, e coltiva la speranza di riguadagnare terreno, ma per questo ha bisogno di impedire l’unificazione con il PdCI.

Ferrero, a cui va riconosciuto il merito di aver salvato all’ultimo congresso il Partito nella sua identità comunista, mi pare però che per la preoccupazione nobile e comprensibile di evitare altri traumi, dopo le molte lacerazioni e l’ultima soprattutto che per poco non è stata mortale, sia rimasto volontariamente prigioniero di quella ambiguità, che costituisce la sintesi irrisolta degli attuali equilibri interni.

Trovo la stessa preoccupazione nel modo in cui Ferrero, nel primo numero di “Su la testa”, affronta il problema del rapporto con la tradizione del movimento operaio e comunista del ‘900, inglobato “complessivamente” nella categoria del fallimento, da cui non sarebbe conveniente prendere qua e là dei “pezzi”. “Tra l’altro – egli scrive motivando appunto l’atteggiamento nichilista con la ragione utilitarista – (ciò) moltiplica i rischi di scissione, perché i ‘pezzi’ del passato sono un’infinità, e ognuno può sentirsi legittimato a scegliere quelli che gli sembrano più adatti. Per questa via, in poco tempo, non resterebbe più nessuna forma organizzativa che vada al di là del circolo amicale”.

Certo se si riferisse alla propensione dei seguaci delle varie scuole trozkiste a spaccare e irrigidire il capello in 32, non gli si potrebbe dare torto. Ma se si riferisce invece, tanto per intendersi, a Gramsci e alla storia nel suo complesso del Pci, sarebbe questo un terreno di sradicamento nichilista assai pericoloso su cui non lo si può seguire.

Il movimento rivoluzionario ha sempre e ovunque attinto forza dal bilancio delle esperienze passate, dei suoi successi e dei suoi errori. Che poi un approccio siffatto, sradicato e avventuroso, possa mettere al riparo da contraddizioni e lacerazioni è molto dubbio.

3. Naturalmente, l’Appello per l’unità dei comunisti sottintendeva e sottintende l’esigenza sociale, politica, culturale del rilancio di un Partito Comunista più forte, nel nostro Paese.
Condividi quest’assunto di base? E perché? E come dovrebbe essere, oggi, un Partito Comunista all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe?

R. Il capo del governo non cessa di accusare chiunque a lui non sottomesso – sia giudice per la giustizia uguale per tutti, sia giornalista per la pluralità di informazione, sia sindacalista contro la precarietà e per i diritti del lavoro – di essere dei “comunisti”. Recentemente Ernesto Galli della Loggia in un editoriale del “Corriere della Sera” ha rivolto al capo del governo e al suo partito l’accusa di essere “comunisti inconsapevoli”. Questo dimostra che, ad onta della debolezza che manifestano oggi i comunisti, il comunismo è tuttora in Italia uno spettro che agita i sonni dlele classi dominanti e una “potenza” politica. Il rilancio di un Partito comunista dovrebbe partire da qui, scrollandosi di dosso la sindrome della residualità e dichiarando apertamente che cosa vogliono oggi in Italia i comunisti: per i lavoratori, per i cittadini uomini e donne, per il nostro paese nel contesto internazionale. Un programma positivo e in prospettiva risolutivo della crisi economica, sociale e di civiltà prodotta dal capitalismo e che il capitalismo non può risolvere.

Un più forte partito comunista non è in contrasto, ma è anzi l’elemento costitutivo essenziale per un più forte raggruppamento della sinistra. Il Partito comunista deve promuovere la più larga federazione delle forze della sinistra, per fronteggiare meglio la lotta di classe, che il capitale conduce con tutti i mezzi contro il lavoro.

E anche sulla questione democratica il Partito comunista deve assumere un ruolo attivo e tendenzialmente di guida, non ritenere che la questione democratica sia questione che riguarda le forze democratiche borghesi, a cui si possa dare o meno appoggio in funzione subalterna.

L’errore principale commesso nelle varie esperienze di coalizioni di centro-sinistra da parte dei comunisti in questi anni, credo sia stata la sostanziale subalternità con cui si sono vissute, a prescindere dai rapporti di forza.

La lotta politica comprende non solo la ricerca del più ampio schieramento contro il fascismo e il semifascismo, ma anche la competizione attiva nello schieramento democratico per accrescere le proprie forze e dunque la consapevolezza della contraddizione e della diversità anche nell’unione.

C’è poi un problema anche di scelta e di controllo dei rappresentanti da parte dei rappresentati. Non è tollerabile che individui approfittino del sacrificio generoso di tanti militanti disinteressati per incollarsi con l’attack alle cariche che arrivano ad occupare, esibendosi in penosi trasformismi per poterle mantenere. Dai Rossi ai Bianchi per quanto ci riguarda l’elenco è lungo e un partito che non può garantire l’affidabilità dei propri rappresentanti non può accrescere la fiducia popolare di cui invece ha vitale bisogno. E’ un problema serio, che non ha una facile soluzione, ma che bisogna porsi assolutamente nella costruzione del Partito per evitare che ci sia chi con troppa leggerezza scambia il Partito per un autobus.

4. A differenza di altri Paesi ed aree del mondo, il movimento comunista italiano soffre, oggi, di una crisi profonda. Quali, a tuo avviso, le ragioni di fondo di tale crisi?

R. Occorre fare un bilancio serio della storia del Pci per capire come proprio il più grande partito comunista dell’Occidente si sia dissolto così rapidamente; per cui oggi la forza più consistente residuata da quell’eredità, e cioè il PD, sia a un passo dall’anticomunismo, e viceversa la parte resistente dei due partiti comunisti non sia stata capace finora di innestare un processo di ripresa. Nel ventennale della Bolognina ci sono state molte ricostruzioni, alcune di grande interesse, ma che non hanno focalizzato questo tema.

Personalmente richiamerei l’attenzione su due momenti che mi paiono decisivi all’origine del declino. Il primo è la decisione sulla cosiddetta “autonomia” del Sindacato, dietro cui è passata la delega ai sindacalisti comunisti e più in generale ai sindacalisti di professione delle questioni sindacali e del rapporto con i lavoratori.

In questo modo il Partito comunista, che era un soggetto attivo nei luoghi di lavoro e nelle organizzazione sindacali e l’anima dell’autonomia sindacale dal governo e dal padronato, ha separato in qualche modo la sua vita quotidiana e il suo destino dal rapporto diretto con i lavoratori e con la condizione e i problemi del lavoro. E’ stato un ritorno alla vecchia divisione del lavoro dei tempi del PSI, che il PCI di Gramsci aveva superato: per cui il partito si occupava delle competizioni elettorali e delle amministrazioni locali, mentre il sindacato si curava delle lotte dei lavoratori.

Il secondo momento è stato nel periodo della solidarietà nazionale l’accesso al sottogoverno di un gran numero di dirigenti, divenuti di colpo amministratori e quindi resistenti a ogni politica di allontanamento.

Un terzo aspetto da considerare è che ad onta delle auto rappresentazioni il gruppo dirigente del Pci era probabilmente il più legato all’esperienza e al destino dell’Unione Sovietica, e per questo anche le manifestazioni di eterodossia apparivano maggiormente clamorose.

Nella figura eroica e solitaria di Enrico Berlinguer, l’ultimo grande dirigente comunista che abbia avuto il PCI, si compendiano drammaticamente questi aspetti. C’è il tentativo di recuperare un rapporto diretto del partito con la classe operaia, simboleggiato dalla presenza ai cancelli della Fiat; c’è il ritorno all’opposizione dura e la denuncia della corruzione; e c’è lo “strappo” rispetto all’Urss, nel tentativo di separare il destino del PCI da quello della dirigenza sovietica.

Su tutti e tre i versanti Belinguer, forse anche per la morte prematura, è uscito sconfitto. E’ da lì che viene secondo me la profondità della crisi.

Nessuno di questi aspetti è stato affrontato nella ricostruzione e rifondazione comunista. In rapporto al Sindacato bastì vedere l’ultimo congresso della Cgil dove i sindacalisti comunisti si sono schierati e divisi sulle mozioni secondo la loro personale sensibilità e collocazione e i partiti, PdCI e PRC, sono stati di fatto emarginati dalla scelta. Ma anche il gran parlare che si è fatto e si fa di Izquierda spagnola o di Link tedesca è a ben guardare il vecchio riflesso condizionato della ricerca di modelli esterni. Non è entrato davvero nella testa che non ci sono modelli da imitare, che occorre piuttosto conoscere meglio il proprio paese, che la tattica e la strategia, come la proposta stessa di socialismo del XXI secolo per l’Italia non può che rapportarsi alle peculiarità nazionali. Una volta si diceva: applicare il marxismo alla realtà concreta del proprio paese.

In questo modo si è anche effettivamente e più produttivamente internazionalisti.

5. La fase politica italiana appare essere in fase tellurica. Il dominio berlusconiano, il suo sistema di potere, sembrano in crisi. Il grande capitale, la borghesia italiana, sembrano alla ricerca di un nuovo referente politico. Come giudichi questo passaggio? E, all’interno di esso, che compiti sono affidati ai comunisti e alla sinistra anticapitalista?

R. Non sarà facile liberarsi di Berlusconi e soprattutto ritornare a una situazione di normalità democratica e di rispetto dei principi costituzionali, come non fu facile – ed anzi fu impossibile – per le forze del capitalismo liberale che avevano fiancheggiato e aiutato Mussolini nell’ascesa al potere, liberarsi poi di lui. Berlusconi oltre al ferreo controllo instaurato su quasi tutti i mezzi di comunicazione ha una grande capacità di rimonta sui versanti in cui è attaccato, potendo disporre dei servizi e mezzi di un governo autoritario. Se gli Usa non gradiscono rapporti troppo stretti con la Russia di Putin, Berlusconi si affretta a inviare altri mille uomini in Afghanistan, a spese del paese. Se si attacca il suo stile di vita da satrapo orientale, la reazione smerdatoria colpisce a destra e a manca, non risparmiando la Chiesa e lo stesso Vaticano spa. La Confindustria può segnalare un malessere per l’assenza di misure efficaci anti-crisi, ma ecco che viene compensata con misure legislative che esautorano l’art.18 dello statuto dei lavoratori, estendono la precarietà e l’arbitrio del padrone nel luogo di lavoro. Non dimentichiamo poi il supporto della Lega Nord, con i suoi legami con la media e piccola impresa, che ha prima ottenuto il reato di clandestinità per l’immigrato irregolare, per poi escludendolo dal “processo breve” costringere l’immigrato colpevole di reato di clandestinità a restare in Italia a tempo indeterminato per essere sfruttato senza diritti a discrezione del padrone.

In tutto ciò si vede la debolezza dell’alternativa borghese a Berlusconi, che per affermarsi avrebbe bisogno di mobilitare i lavoratori, ma teme di farlo per non contrariare quella stessa classe che appoggia Berlusconi.

I comunisti dovrebbero fare il loro mestiere. Agire in questa situazione facendo leva sui “proletari”, quelli che un tempo si chiamavano i “lavoratori del braccio e della mente”, coloro che vivono del loro lavoro, sviluppare la lotta di classe e il fronte democratico e far avanzare senza subalternità la situazione politica per ripristinare l’agibilità democratica.

E’ grave che dal ’98 si sia dimenticata di fatto la legge per organismi effettivamente rappresentativi ed elezioni democratiche nei luoghi di lavoro.

6. Per ultimo, ma non ultimo: lo scorso 19 dicembre, a Roma, anche con la tua adesione e presenza, è stata presentata pubblicamente l’Associazione politico-culturale “Marx XXI”. Quali sono i suoi compiti?

R. Nell’attuale situazione l’associazione Marx XXI può dare un grande contributo a favorire il superamento degli steccati organizzativi e la ricomposizione comunista. Al tempo stesso può occupare stabilmente il fronte della lotta delle idee, in questi ultimi vent’anni di fatto abbandonato e anche per questo si è stati così facilmente esposti all’incalzare della lotta ideologica incessante e corruttrice del capitalismo in crisi e per questo anche più aggressivo.