Fascismo, antifascismo, comunismo

Mi pare giusto aprire queste riflessioni con le parole rivolte da Sergio Romano ad un lettore (Corriere della sera 21 marzo 2005, p. 31): «Fra nazismo e comunismo vi fu effettivamente una fondamentale differenza. Il primo credeva nella superiorità della razza ariana e nel suo diritto di governare il mondo. Il secondo era fondato sulla convinzione che gli uomini fossero eguali e avessero tutti gli stessi diritti. La Germania hitleriana fu uno Stato razzista. L’Unione sovietica fu uno Stato multirazziale. Dopo lo scoppio della guerra il Terzo Reich trattò i polacchi e le altre popolazioni slave dei territori occupati come Untermenschen, esseri inferiori destinati a servire il popolo dominatore; mentre l’Urss, dopo la fine del conflitto, considerò ideologicamente “fratelli” i comunisti degli Stati satelliti ».
Anche se nel seguito della sua risposta Romano sottolinea che nel corso del tempo (in particolare sotto il governo di Lenin e di Stalin, dunque fino al 1953) queste differenze si «appannano» a causa del terrore contro i «nemici del popolo », resta il fatto che, anche a giudizio di un conservatore per lo più equanime, quale Sergio Romano, quella differenza “alla radice” (cioè radicale) resta.
Su La Stampa del 22 gennaio 1987 Primo Levi scrisse un articolo intitolato Il buco nero di Auschwitz. Ecco cosa scrisse: «Che il Gulag fu prima di Auschwitz è vero; ma non si può dimenticare che gli scopi dei due inferni non erano gli stessi. Il primo era un massacro fra uguali; non si basava su un primato razziale, non divideva l’umanità in superuomini e sottouomini: il secondo si fondava su un’ideologia impregnata di razzismo. Se avesse prevalso, ci troveremmo oggi in un mondo spaccato in due, “noi” i signori da una parte, tutti gli altri al loro servizio o sterminati perché razzialmente inferiori. Questo disprezzo della fondamentale uguaglianza di diritti fra tutti gli esseri umani trapelava da una folla di particolari simbolici, a partire dal tatuaggio di Auschwitz fino all’uso, appunto nelle camere a gas, del veleno originariamente prodotto per disinfestare le stive invase dai topi». Non a caso lo stesso Levi, ne I sommersi e i salvati, definì quello dei campi nazisti «massimo crimine nella storia dell’umanità». L’8 giugno 1999 Cesare Segre sul Corriere della sera scrisse un elzeviro intitolato La differenza fra Gulag e Lager (p. 36), in cui molto opportunamente notava: «Ciò che distingue il Lager dal Gulag è pertanto questa non piccola differenza: che per molti deportati (gli ebrei, gli zingari ecc.) il Lager annienta subito, sistematicamente, direi freddamente. Per i politici, il Lager è comparabile al Gulag; in entrambi, la morte dei deportati è un risultato possibile, persino in molti casi auspicato dai capi. Ma l’annientamento programmatico è una triste esclusiva dei campi tedeschi. In altre parole, tanto i Lager quanto i Gulag erano destinati a persone considerate, per motivi contorti e capziosi, spesso per sospetti assolutamente indimostrabili, dei nemici del rispettivo regime. Ma quello che caratterizza il Lager è di considerare nemiche genti intere, e di distruggerle. Senza volerlo, anche Herling conferma questa affermazione, ma con frasi che mi fanno venire i brividi. È quando dice che nel Lager, almeno si sapevano i motivi della deportazione; nei Gulag invece si rinfacciavano ai prigionieri generiche “attività controrivoluzionarie”. Dunque Herling protesta a ragione contro l’illegalità degli arresti e la mancata imputazione di colpe precise ai deportati dei Gulag; mentre gli pare che l’essere ebreo, zingaro od omosessuale costituisca una motivazione in qualche modo valida per quelli dei Lager. Gli ebrei, gli zingari o gli omosessuali avrebbero insomma avuto, rispetto ai prigionieri politici dei Gulag, un vantaggio: sapevano bene di dover essere deportati. Una condanna a priori, e irrevocabile, alla morte sarebbe, in altre parole, più ammissibile, o più sopportabile, di una imputazione ingiusta. Spero che Herling si sia espresso male. Altrimenti si dovrebbe pensare che i nazisti hanno vinto, rendendo, almeno in linea di principio, accettabile come motivazione per l’annientamento l’appartenenza a un popolo, o etnia, o gente».
Che poi i circa quaranta anni di storia sovietica che vanno dalla morte di Stalin alla fine dell’URSS vengano occultati o meglio presentati come una prosecuzione immutata del passato (che era un passato di rivoluzione e di guerra civile e di guerra esterna) fa parte della consueta stolta malafede con cui si parla della storia dell’URSS.

L’esperienza sovietica – scrisse una volta Hobsbawn – almeno per una ragione dovrebbe essere considerata in Occidente con apprezzamento positivo: perché ha salvato i sistemi politico-sociali europeo-occidentali dalla sicura distruzione cui Hitler li aveva destinati (Nouvel Observateur, 21-27 ottobre 1999, p. 136). Il 22 giugno 1941, all’indomani dello scatenamento dell’“ Operazione Barbarossa”, Churchill disse alla radio: «Nessuno è stato più di me avversario accanito del comunismo in questi ultimi 25 anni. Oggi non ritiro una parola di quello che ho detto sul comunismo. Ma oggi tutto impallidisce dinanzi allo spettacolo che si offre ai nostri occhi. Vedo i soldati russi fermi sul limitare della loro terra natale, che i loro avi hanno coltivato da tempo immemorabile. Li vedo mentre difendono le loro case, dove le madri e le spose pregano – sì perché vi sono ore in cui tutti pregano – per la salvezza dei loro cari. Vedo i diecimila villaggi dove i mezzi per vivere sono strappati al suolo con tanti stenti, ma dove tuttora permangono gioie primordiali, dove le giovani ridono e i bambini giocano. Vedo avanzare verso tutto questo, nel suo orrendo assalto, la macchina di guerra nazista. Vedo le masse ottuse, addestrate, docili, brutali, della soldataglia unna procedere pesanti simili allo sciamare di brulicanti locuste».
Il 16 giugno 1941 Ribbentropp aveva detto a Ciano, che lo interrogava sulle voci di un imminente attacco alla Russia: «Caro Ciano non posso ancora dirvi niente. Ogni decisione è chiusa nel petto impenetrabile del Führer. Ma comunque una cosa è certa. Se attaccheremo, in otto settimane la Russia di Stalin sarà cancellata dalla carta geografica » (Ciano, Diario, vol. I, Rizzoli 1946, p. 6). La campagna di Russia fu invece, nonostante il vantaggio enorme dell’attacco a sorpresa, la tomba del Terzo Reich. La Russia ebbe perdite inaudite, oltre venti milioni di morti (che i deficienti, autori del L i b ro nero del Comunismo, mettono nel conto dei “crimini di Stalin”). Nessun paese ha mai sofferto tanto. Tutto quello che noi siamo lo dobbiamo a quei morti. Solo delle menti abiette potevano concepire l’idea della equiparazione dei due simboli. Il nazifascismo ha trascinato l’umanità e il suo stesso popolo nel baratro di una guerra distruttiva, pur di non arrendersi. I lutti determinati dalla resistenza ad oltranza concertata in modo folle e criminale da Hitler e Mussolini – ormai sconfitti ma speranzosi di arrivare primi a usare l’arma atomica – sono forse la gran parte dei lutti patiti dall’umanità nella seconda guerra mondiale. L’URSS, quando ebbe chiaro che la “guerra fredda” era persa, preferì la smobilitazone e la fine indolore. Chi non capisce neanche questo è intellettualmente irrecuperabile.

A questo punto si deve fare un passo indietro e chiedersi quali furono le matrici culturali dell’uno e dell’altro movimento. Il fascismo italiano (conviene concentrarsi su di esso) ebbe una sua articolazione in correnti e anime differenti: da quella proveniente dal liberal-conservatorismo alla Rocco o alla Gentile (quest’ultimo sostenne che il fascismo rappresentava il culmine e il logico sbocco del liberalismo) a quella “popolar-eversiva” dei ras di provincia (Arpinati per esempio) al “fascismo di sinistra” dei nati tra il 1910 e il 1920 (raccolto ad esempio intorno a L’Universale di Berto Ricci etc.), per non parlare del fascismo ridiventato “repubblicano” a Salò e fattosi “socializzatore”. Ma in tutte queste varianti restò forte la componente nazionalistica-razziale. Anzi, a Salò sinistrismo fascista e razzismo assassino si davano la mano. Nel caso del comunismo si può ben dire che esso rappresenta un innesto della pratica giacobina (tornata in auge grazie a Lenin) nel grande fiume del movimento marxista europeo. Si può disquisire sulla congruità o meno di queste due componenti, resta il fatto che le “eresie” che esso ha prodotto hanno messo in discussione (prima o poi, consapevolmente o meno) la pratica leninista, ma non il marxismo. Al contrario il fascismo raccoglie “umori” di molteplice provenienza mai coagulati in una vera “dottrina”: la voce dottrina del fascismo nell’Enciclopedia italiana, scritta da Mussolini e Gentile, è la prova più chiara di questa carenza. Coloro che hanno ritenuto di dar vita ad “eresie” di sinistra del fascismo hanno presto o tardi rotto col fascismo come tale.
Questo significa che il vuoto di idee e di premesse culturali che stava dietro al fascismo non portava a nulla: chi se ne distaccava non manteneva alcun “cordone ombelicale”.

L’attacco che da almeno vent’anni è in atto ha come bersaglio l’antifascismo. Uno storico francese già comunista, poi accanitamente anticomunista, François Furet, nel mastodontico pamphlet intitolato Il passato di un’illusione, tutto rivolto contro ogni aspetto della rivoluzione russa e del socialismo “realizzato”, ha dedicato molte pagine a sviluppare il concetto «l’antifascismo fu l’utile idiota di Stalin». Il fatto è che, se questo ragionamento dev’essere condotto con rigore alle sue estreme conseguenze, esso comporta che aveva ragione Hitler quando disse allo svizzero Carl Burckhardt (commissario della Società delle Nazioni a Danzica), in pieno 1939: «Tutto ciò che io intraprendo è rivolto contro la Russia. Se in Occidente sono troppo stupidi e troppo ciechi per capirlo, sarò costretto a raggiungere un’intesa coi russi per battere l’Occidente, per poi, dopo averlo sconfitto, lanciare tutta la mia forza contro l’Unione Sovietica» (C.J. Burckhardt, Meine Danziger Mission 1937-1939, dtv, München 1962, p. 272). La lotta “cosmica” contro il bolscevismo divenne man mano qualcosa di sempre più incombente e imminente fino all’operazione “Barbarossa” (21 giugno 1941) lanciata nella persuasione appunto che quell’attacco fosse il coronamento di tutta l’azione politica e della stessa ragion d’essere del nazismo. Ecco perché è inevitabile riconoscere che solo grazie alla resistenza opposta dall’URSS, e poi grazie al contrattacco che portò al crollo del Reich, l’umanità ha evitato di finire per chi sa quanto tempo sotto il dominio hitleriano. Con il crollo e la resa dell’URSS un tale esito sarebbe stato inevitabile: e gli USA prima o poi (uscito di scena Roosevelt) sarebbero giunti ad un compromesso. Dunque un antifascismo senza URSS (e senza movimento comunista) non solo non è concepibile, ma è perdente.
Per alcuni anni (dopo il 1973/ 1975) entrò nel lessico politico italiano la formula “arco costituzionale”. Esso includeva i comunisti ma non i parlamentari missini. Del resto, nell’ultimo congresso del MSI che animò con la sua presenza, Giorgio Almirante (maestro di G. F. Fini) definì la Repubblica italiana con il delicato epiteto di “repubblica bastarda”: appunto perché nata da una grande intesa comprendente anche i comunisti. Circa nello stesso tempo Craxi “aprì” al MSI (incontro con i loro dirigenti) mentre cercava di tagliare ogni ponte verso il PCI; e, sull’onda di una celebre intervista a Renzo De Felice, fu aperta allora la questione della cancellazione della “norma finale” della nostra costituzione contenente il divieto di «ricostituzione sotto qualsiasi forma del partito fascista ». Tutta l’operazione Forza Italia mira a invertire l’arco costituzionale: missini dentro, comunisti fuori. Perciò costoro si stanno avventando contro la Costituzione. Perciò contro costoro non c’è che da combattere: se prevarranno, l’antifascismo sarà definitivamente annoverato tra i disvalori.