Donne, apriamo un confronto

Da tempo desideravo intervenire sui temi della liberazione della donna, del femminismo, della differenza di genere per esprimere il mio punto di vista nel modo più schietto e per dispormi al confronto con altre. Ma ho esitato.
Come tante mi sono formata, oltre che sul marxismo, nel confronto con altre donne. Poi, dopo il riflusso degli anni ’80 e ’90, ho seguito la problematica da lontano. Ora la curiosità, la voglia di capire, di esserci sono tornate . E finalmente mi sento di dire qualcosa.
Credo che questa esigenza nasca dalla realtà.
Vedo infatti uno scarto troppo grande tra la (debole) incisività del movimento femminile e l’esigenza di contrastare (con forza) le politiche neo-liberiste di smantellamento del welfare e di precarizzazione del mercato del lavoro, che colpiscono particolarmente le donne.
Temo fenomeni involutivi sul terreno della sessualità. Mi spaventano la vergogna dello schiavismo sessuale, alimentato dall’invisibile, ma potente mercato dello sfruttamento della prostituzione, in cui il corpo della donna non è solo oggetto di mercificazione, ma anche della più brutale violenza o il nuovo ipocrita disegno di legge sulla prostituzione.
Osservo, come altre, che nel recente Social Forum Europeo di Firenze, nel vasto fronte del movimento antagonista (nelle sue più svariate componenti: pacifista, antimperialista, antiliberista), del tutto marginale è stata la presenza dei gruppi femminili e femministi.
E mi domando: che cosa ha codotto il movimento femminile a tale isolamento? come riprendere un’iniziativa politica incisiva e di massa? esiste ancora lo spazio per affrontare il tema della liberazione della donna, il suo ruolo nella società, nel partito, nel movimento, per chi si propone la trasformazione della società? Oppure ciò che resta del femminismo è una lettura della realtà unicamente in chiave di “differenza di genere”, senza più un progetto complessivo di trasformazione in cui far vivere anche la diversità di essere donna? E’ riproponibile oggi, ed in che termini, un movimento delle donne che sappia operare questa sintesi?

Le risposte sono difficili e stimolanti al tempo stesso, come stimolante è cercare di riavviare i fili della discussione teorica che ha percorso il movimento femminile dalla teoria emancipazionista, al femminismo, alla differenza di genere e riflettere su luci e ombre di tale percorso.
Per trovare qualche risposta ho sentito l’esigenza di rivisitare la storia del pensiero e della pratica femminile e femminista che, ormai, abbraccia l’intero novecento. Una storia complessa e contraddittoria, a volte, con grandi conquiste, momenti alti e passi indietro. Ma comunque indispensabile perché le donne potessero finalmente uscire da quel circolo vizioso di oppressione e passività che le inchiodava ad un ruolo subalterno, per trovare la coscienza di sé, divenire un soggetto dotato di propri valori e conquistare nuovi diritti.
Si è trattato di una mia esigenza che spero possa essere utile ad altre e altri, magari alle giovani generazioni che proprio ora riprendono passione politica. Chissà se riuscirò a trasmettere il senso di questa storia?

Un po’ di storia

Il marxismo, a partire dalle sue origini, si è occupato dell’oppressione femminile. Il tema della posizione familiare e sociale della donna ricorre nelle opere di Marx e di Engels, negli studi sul lavoro femminile, nella tesi, già enunciata da Fourier, secondo cui il grado di emancipazione della donna dà la misura dei progressi di tutta la società. E occupa un grande spazio nell’ “Origine della famiglia” di Engels che, in parte, è un vero e proprio manifesto a favore dell’emancipazione femminile .
Marx osservava, con un linguaggio modernissimo ed efficacissimo che “la moderna famiglia contiene in germe non solo la schiavitù (servitus) ma anche la servitù della gleba … Essa contiene un sé, in miniatura, tutti gli antagonismi che si svilupperanno più tardi largamente nelle società e nello Stato”1.
Engels, a sua volta, che aveva studiato la famiglia antica e moderna della società borghese, rilevava che “ … la liberazione della donna diventa possibile solo quando ad essa sia permesso di partecipare su larga scala alla produzione e l’impegno del suo lavoro domestico sia ridotto ad una quantità irrilevante…”2.

Dunque nella visione di Marx ed Engels l’oppressione che la donna subisce nella famiglia borghese può essere superata con l’inserimento nella produzione.
Tesi, questa, considerata emancipazionista, perché rimane ancorata agli aspetti economici del problema.
Osservo, a riguardo, che la donna è sì entrata nel mondo della produzione, ma senza la riduzione “ad una quantità irrilevante” del lavoro domestico che, ancora oggi, grava sulle sue spalle, impedendole, in buona misura, di dedicarsi ad altre attività di svago, di studio, di arricchimento culturale, di impegno politico.
Dunque questa interpretazione antica è ancora attuale per liberare la donna dal nuovo sfruttamento: nella produzione e nel lavoro domestico.

Ben presto, tuttavia, anche all’interno del marxismo, la problematica femminile si allarga al complesso rapporto delle relazioni familiari, giungendo sino alla relazione sentimentale ed a tutto ciò che ha a che fare con le tematiche dell’eros.
Ciò dimostra che il marxismo ha la capacità di far proprie tali problematiche. E tale capacità gli deriva dal fatto che la critica al modo di produzione capitalistico non è solo di tipo economicistico: la liberazione dal lavoro riguarda tutti gli aspetti della vita umana, lo sviluppo della personalità, il benessere, la creatività degli uomini e delle donne.

Aleksandra Kollontaj, nel suo libro “L’amore alato”, inizia una riflessione acuta e moderna sul rapporto uomo-donna, sulle varie facce dell’amore, in generale sull’eros3.
E siamo solo negli anni ’20.
Conserva ancora oggi un grande fascino l’immagine dell’uomo come di un grande dragone, che porta su di sé tutto il peso ed i retaggi della vecchia società borghese e quella della donna, raffigurata come un uccello bianco, in volo verso i valori del nuovo mondo. E l’idea nuovissima che “l’amore non è soltanto un fattore imperioso della natura, una forza biologica, ma è anche un fattore sociale”.

Amore e rivoluzione

Dunque parla con spregiudicatezza dell’amore e di libere relazioni, ma non per questo si allontana dall’analisi di classe della società.
Occorre dire che tale pensiero si inserisce in un confronto teorico e politico molto vivo che si sviluppò negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione di ottobre e all’attenzione che i bolscevichi ebbero per la condizione della donna.
Ugualmente spregiudicata, nel nostro paese, fu Camilla Ravera, dirigente dell’Ordine Nuovo e successivamente dell’UDI, la quale si interessò degli aspetti privati dell’esistenza. Come la Kollontaj, denunciò quanto l’ideologia borghese fosse radicata nel modo di essere degli stessi compagni e come la donna fosse costretta in una situazione di brutale sfruttamento dentro le mura domestiche. E’ inoltre elaborazione della Ravera “l’intelligentissima individuazione del fondamento della società patriarcale nel dovere maschile di produrre reddito, cui corrisponde l’obbligata subalternità femminile”4.

Simili analisi stentarono a farsi strada nel PCI del dopo liberazione, non tanto per l’ arretratezza culturale dei suoi dirigenti, ma piuttosto per l’arretratezza del nostro paese, segnato dalla cultura cattolica e bloccato, sul piano democratico, da vent’anni di dittatura fascista.
Tuttavia nella resistenza antifascista si formarono molte donne che poi divennero dirigenti del PCI.
Erano rivoluzionarie che concepivano la loro azione, anche per la conquista dei diritti delle donne, non sganciata da una visione complessiva di trasformazione in senso socialista della società.
Sull’originalità delle loro esperienze ho ascoltato racconti che ancora oggi ci stupirebbero, ma che non ho, purtroppo, lo spazio di riferire.
Mi ha colpito questa frase perentoria di Teresa Noce: “Personalmente il lavoro “femminile” non mi è mai piaciuto e mi sono sempre rifiutata di compierlo, anche se sono sempre stata attiva in difesa delle donne. E’ il concetto stesso di lavoro femminile che mi sembra sbagliato, in quanto quasi contrapposto o comunque separato da quello generale. Secondo me, come non vi può essere emancipazione femminile se non si emancipano anche gli uomini, così nel partito non vi devono essere organismi e tanto meno organizzazioni differenziate per sesso”5.

Gli anni ’60, come afferma Laura Lilli,6 furono “per le donne italiane un periodo straordinario di semina, di intensa vigilia; e di premesse indispensabili per la futura esplosione femminista. Invece si ha la sensazione che su quegli anni sia calata una sorta di silenzio imbarazzato, se non addirittura privo di interesse, come avviene da parte femminista”. Ed è comprensibile che sia così: il femminismo infatti allora non c’era, anche se c’era nell’aria un’acuta sensazione di prefemminismo, come nota giustamente Carla Ravaioli7.
Queste parole colgono appieno l’epoca. Furono anni in cui vennero tradotti moltissimi saggi sulla questione femminile, vennero effettuate inchieste che costituivano un primo affondo sul privato come “Le Italiane si confessano” di Gabriella Parca nel ‘71 o “Le svergognate” di Lieta Harrison del ‘63.
Una sensibilità che prendeva corpo anche se non riusciva a vivere come problema storico.

Un lavoro molto importante, anche se cauto, venne svolto dal PCI negli anni ‘50 e ‘60, che tentò di organizzare le donne in movimento, nell’ambito di una politica emancipazionista, che puntava all’inserimento della donna in un’attività extradomestica, stabile, qualificata e retribuita. E’ anche grazie a questa perseverante attività che le donne poterono conquistare maggiore libertà nel costume ed acquisire nuovi diritti, come la riforma del diritto famiglia.
Nel PCI si aprirà negli anni 70 una discussione sul femminismo.
Adriana Seroni, responsabile nazionale della questione femminile, spiegherà, in modo, secondo me, credibile, che quella del PCI era stata piuttosto una reazione al “femminismo, che nelle sue prime formulazioni si è presentato su posizioni di attacco, di condanna se non di ignoranza di tutto quanto era stato fatto in Italia per l’emancipazione della donna , innalzando una vera e propria barriera contro la lunga e faticosa tradizione politica della sinistra in questo campo”8.
Sono parole che contengono qualche verità. Nel 1976, con la VI conferenza delle donne comuniste, dopo un lungo travaglio, si determina una svolta in ordine alle problematiche poste dal femminismo ,che viene riconosciuto un interlocutore, ma sollecitato ad una prospettiva progettuale – costruttiva nel senso della trasformazione socialista della società.

Un libro che lessi a suo tempo, ma che trovo ancora oggi significativo è “Il rapporto uomo-donna nella civiltà borghese” di Umberto Cerroni che cerca di colmare quella che egli definiva una grave lacuna della cultura marxista, vale a dire il non aver affrontato il rapporto uomo-donna al livello teorico9.
Osservando che il tema dell’eros e quello della famiglia erano diventati oggetto di discipline separate (l’eros degli psicoanalisti, la famiglia dei giuristi e dei sociologi), egli afferma che “si tratta di evitare che una trattazione separata devasti l’unità del problema e riduca la dialettica degli affetti a inerte cascame della configurazione socio-economica dell’istituto familiare, legittimando così per altro verso , l’idea …che la storia sia soltanto storia di istituti e rapporti materiali, ma non anche storia di soggetti e di rapporti spirituali”, cioè sentimentali.

Una questione che investe tutto il genere umano

E’ lo stesso autore a dichiarare nella premessa al suo libro: “la tesi conclusiva di questo mio discorso è che una società lacerata dalla divisione in classi non riesce a soddisfare la necessità di gestione sociale degli istituti connessi con la vita individuale privata, e li deve affidare ad una ristretta, angusta, artigiana organizzazione domestica, o alla speculazione dell’impresa commerciale e industriale…Su queste funzioni sociali viene innestata in maniera coatta, perché giuridico significa coatto, anche la regolazione degli affetti che ne restano gravemente vincolati e condizionati”.
E pertanto la questione femminilenon è questione esclusiva della donna, ma “una questione specifica del genere umano, la cui oppressione ha reso drammatico e doloroso il rapporto generale dell’uomo con la donna, e cioè il rapporto stesso del genere con sé…”.

Il femminismo degli anni settanta in Italia, sulla scorta del pensiero femminista di origine anglosassone e americana,10 aveva iniziato una riflessione sui limiti della politica dell’emancipazione, in quanto non intaccava la supremazia dei valori maschili, scontrandosi con le forze politiche, tra cui il PCI, che invece sostenevano una politica emancipazionista.
Prende avvio la ricerca lungo i tormentati sentieri dell’introspezione, attraverso l’autocoscienza e l’analisi del passato delle donne.
Il nuovo concetto di liberazione che si fa strada, pone al centro della ricerca l’identità della donna, il suo essere altro rispetto all’uomo, la necessità di liberarsi dai modelli culturali, storici e psicologici che il maschio aveva stabilito per lei..

Tale percorso portò alcune femministe a sganciarsi dal filone del marxismo, a capovolgere il ragionamento, a focalizzare l’attenzione su di sé. E dunque inizia una discussione lacerante.
Nel 1949 era uscito in Francia un libro di Simone de Beauvoir , “Il secondo sesso” 11 pubblicato in Italia nel 1961, il quale metteva in luce l’alterità della donna rispetto all’uomo e all’universale maschile.
Più tardi Simone de Beauvoir, in una intervista alla rivista italiana Effe ebbe a dichiarare: “Dal tempo in cui ho scritto “Il secondo sesso” ad oggi , la mia attitudine è cambiata. Ero una teorica, sono diventata una militante. Analizzavo la condizione della donna piuttosto che sentirmene partecipe e dal contatto con le femministe del movimento di liberazione della donna ho capito allora definitivamente, cosa che non avevo capito affatto scrivendo Il secondo sesso, che non si può contare sulla lotta di classe per ottenere la liberazione della donna”12.
Questa riflessione dimostra come il pensiero e la pratica femminista siano sempre stati in movimento, un pensare e ripensare continui.

In Italia, un paese fortemente influenzato dal movimento operaio, il femminismo di matrice marxista era forte nei primi anni ’70. Esso non privilegiava gli aspetti desunti dalla differenza biologica tra maschi e femmine, ma analizzava la condizione femminile con gli strumenti dell’interpretazione dialettica della storia, come risultante di fattori economici, culturali e sociali.
Scriveva Lidia Menapace nell’introduzione ad un testo Per un movimento politico di liberazione della donna13: “la marginalità (della donna) prima apparentemente imposta dalle cosiddette leggi di natura… viene svelata dalla rivoluzione borghese che, anche in questa come in altre questioni, ci fa uscire dalla preistoria, fa cadere i miti e le visioni naturalistiche dell’umanità e rivela la radice strutturale, economica dei rapporti tra le persone, che sono rapporti di produzione, e da questi influiti”.
Nel contempo, non solo nei partiti politici della sinistra storica, come abbiamo visto nel PCI, ma anche in quelli della nuova sinistra, si aprì un confronto anche aspro sulla tematica del femminismo.
Luciana Castellina sul Manifesto osservava: “il conflitto (nella sinistra) nasce quando dell’oppressione delle donne si rilevano non solo gli aspetti economico-sociali, ma quelli che attengono alla divisione gerarchica dei ruoli sessuali, che curiosamente i compagni ritengono un dato privo di storicità e dunque esente dalle distorsioni sofferte per effetto dell’organizzazione sociale che ha affidato alla donna il ruolo esclusivo di riproduttrice e che l’ha collocata in una posizione di sbordinazione”.14
Altri gruppi , invece, si ponevano in una posizione di critica rispetto al marxismo.
Il gruppo Demau (demistificazione autoritarismo) teorizzò la necessità di analizzare tutti i campi della vita umana per capire come in ogni ambito si manifesti l’oppressione dell’uomo sulla donna e come fosse necessaria una teoria che emancipi l’uomo stesso dal suo ruolo di oppressore. Teorizzò soprattutto la separaratezza dei gruppi femministi.
Carla Lonzi estremizzò tale posizione e nel suo libro “Sputiamo su Hegel”15 criticò il marxismo in quanto moralista ed autoritario ed in quanto non teorizzatore della libertà sessuale per le donne. Anche tale gruppo iniziò la cosiddetta pratica “separata”, criticando persino il concetto di organizzazione in quanto autoritario e “maschile”.

Rapporto critico con la psicoanalisi

Il dibattito, tra i gruppi femministi, si sviluppò fortemente sulla società in cui le donne si trovavano a vivere, la società a capitalismo avanzato, definita patriarcale. Ed è a partire da questo tratto dominante della società che le donne iniziarono a percorrere la strada della differenza di genere, la ricerca della propria identità e dell’affermazione della donna come soggetto storico.
Non è semplice sintetizzare questo pensiero variegato, che è di facile percezione, ma complesso, anche nella singolarità del linguaggio e che, soprattutto, presuppone la conoscenza della teoria di Freud, che venne studiato e talora criticato e sul cui giudizio i gruppi femministi si divisero16.
Ciò che viene riconosciuto a Freud è che non sarebbe stato possibile accedere all’analisi delle donne, come di essere sessuati, se egli non avesse introdotto nella cultura del suo tempo questo tema, ma gli viene rimproverato di aver ricondotto la sessualità al fine ultimo della riproduzione.
Per Freud la libido è sempre di tipo virile, sia che si manifesti nell’uomo che nella donna. Ciò pone la donna nella necessità di abbandonare in età infantile le pulsioni aggressive, di tipo maschile, per lasciare posto alla femminilità, la quale dovrà trasformarsi nel suo contrario, cioè in passività, per disporsi ad accogliere il godimento maschile e in esso riconoscere il proprio godimento.
E dunque alcune autrici, come Luce Irigararay, si domandano perché le teorie principali della psicoanalisi non hanno preso in considerazione i desideri della donna, prospettandone la rappresentazione sessuale in positivo, anziché solamente in negativo
Nel suo libro “Speculum”17 afferma che per dare voce ai desideri femminili occorre far riemergere l’amore della bambina per la madre e così elaborare un ordine genealogico femminile: per essere sé stesse le donne devono mantenere vivo quel primitivo rapporto con la madre.
Dunque prende corpo la teoria della dualità sessuale. Tale dualità non discende tuttavia unicamente da un dato biologico, bensì simbolico, quindi culturale, che l’uomo possiede con radici profonde e che la donna deve costruire a partire dal proprio corpo, che diventa terreno di indagine e di riscoperta.
Occorre precisare, ma non mi addentro, che i termini “differenza sessuale”, “genere” e “sesso” ricorrono nei testi femministi, a volte come sinonimi, a volte come concetti distinti e contrapposti. La mappa delle diverse posizioni o filoni è molteplice. Maria Luisa Boccia vede due aree principali: quella dell’ “identità” e quella della “differenza di genere”18. A me preme mettere in luce taluni aspetti del pensiero, senza la pretesa di analizzarli tutti.
In Italia Luisa Muraro ne “L’Ordine simbolico della madre”19 svilupperà il concetto secondo cui “per scrostarsi da modi di essere o pensare indotti dalla cultura patriarcale, occorrerà imparare ad amare la madre”.
L’autrice osserva che “la società patriarcale nella quale la filosofia si è sviluppata, cura l’amore tra madre e figlio, come il suo bene più prezioso… se c’è una cosa che io invidio agli uomini… è questa cultura dell’amore della madre in cui sono allevati…”
Dunque, come dicevamo, il fulcro del ragionamento diventa saper amare la madre. Questo “rompe il circolo vizioso e mi fa uscire dalla trappola di una cultura che, non insegnandomi ad amare mia madre, mi ha privata anche della forza necessaria a cambiarla, lasciandomi soltanto quella di lamentarmi indefinitamente”.
Precedentemente, nel 1981, Luisa Muraro aveva scritto un testo, considerato il punto di partenza in Italia della teoria della differenza di genere, “Maglia o Uncinetto”20, che analizzava il rapporto tra ordine simbolico e mutamento storico e nel quale veniva formulata la teoria secondo cui l’ordine simbolico è in qualche modo costitutivo dell’ordine sociale. Da qui parte l’analisi del rapporto tra corpo e linguaggio che tanto influenzerà il pensiero della differenza, il suo stesso modo di esprimersi.
“Il corpo della donna – scrive Adrienne Rich – è il terreno su cui è stato eretto il patriarcato. La donna viene controllata inchiodandola al suo corpo. Tanto stretto è il rapporto tra potere e potenzialità riproduttiva della donna che venne creata la famiglia come luogo in cui il patriarcato erige il suo potere privato”21.

Se questi ultimi possono essere definiti alcuni cenni estremamente rudimentali del pensiero della differenza di genere, giacchè si tratta di un pensiero variegato ed in movimento, ciò che ne deriva è che – secondo tale approccio – occorre pensare e ripensare alla storia, alla cultura, al sapere, alla sessualità, come a storie, culture, saperi, sessualità differenziate dell’uomo e della donna e tutto deve essere pensato in questa doppia chiave.

Brevi riflessioni: luci e ombre

Credo sia utile analizzare pregi e limiti di tale pensiero ed in generale della esperienza femminista.
Senza dubbio essa ha avuto il pregio di contribuire a rafforzare la soggettività femminile, svelando non solo l’esistenza di una propria sessualità, ma anche una cultura, una storia, dei valori che appartengono alle donne ed al loro atteggiarsi.
Si è interrogata, come diceva Si-mone de Beauvoir, su come si diventa donna. Senza tale processo le donne non avrebbero saputo rielaborare la propria storia e trasformarla, da una storia di passività e subordinazione, in una storia di consapevolezza e forza. E tale sensibilità ha attraversato, anche in modo sotterraneo, la nostra società, influenzandola e arricchendola.

I limiti che individuo, sul piano teorico, sono: la separatezza e l’aver subito un’influenza eccessiva dello psicologismo; sul piano politico: il rinchiudersi intimistico e lo sganciamento dall’analisi di classe, come se la liberazione della donna fosse ormai scollegata dalla critica al capitalismo. Più precisamente, anche quando un’analisi di classe è stata mantenuta, essa non si è tradotta in un’azione conseguente ed adeguata. L’esperienza dei gruppi femministi, anche di quelli di impostazione marxista, è infatti caratterizzata dalla frantumazione e dalla difficoltà nel rapporto con i movimenti di massa Tali limiti mi sembrano intrecciati e consequenziali.

Quanto alla separatezza è storia dello stesso movimento femminista l’aver oscillato tra una tendenza che ha privilegiato l’azione verso l’esterno, per incidere e modificare la realtà e un’altra, che ha fatto leva sull’estraneità, per modificare la relazione tra il gruppo e l’esterno.
Giacchè la storia del movimento femminile e femminista è anche storia di importanti vittorie, dobbiamo avere la consapevolezza che queste, (il divorzio, l’aborto, il principio di autodeterminazione, i consultori…) sono state ottenute dal movimento delle donne in connessione con i partiti di sinistra ed il movimento operaio che, nel nostro paese, si è battuto per i diritti delle donne.
Ora è venuto il momento di rompere questo indugio, di porre fine a questa oscillazione, di tornare alla politica nei movimenti di massa, senza paura di perdere la propria identità o la propria differenza, consapevoli che, storicamente, la separatezza, che è stata anche separazione dal movimento operaio e dalla società, si è tradotta in una debolezza delle donne.
Essa ha condotto a smarrire il fine, vale a dire la lotta per la costruzione di una società alternativa al capitalismo ove entrambi i sessi o i generi possano esprimersi liberamente. Ha infine relegato il femminismo ad un fatto culturale e di coscienza individuale diffusa ben tollerati dalla moderna società capitalistica in quanto non in grado di incidere sui rapporti di classe.22
Dunque si può affermare che il femminismo può ritrovare la propria “anima” antagonista solo ricollocandosi nei più vasti movimenti anticapitslistici e contro la guerra. Abbandonando la logica della separatezza.

Un rapporto storicamente determinante

Ho la sensazione, peraltro, che le giovani generazioni non comprendano il senso di un’azione separata tra ragazze e ragazzi, tanto è vero che non la praticano nelle loro forme di lotta. Mi domando, e mi piacerebbe domandare a persone competenti, se tale atteggiamento non nasca anche dalla percezione di una sessualità più aperta, che accetta il lesbismo e l’omosessualità come libere espressioni di sé e che rende i confini della sessualità maschile e di quella femminile meno definiti, (benchè si tratta sempre di sessualità diverse). Del resto se anche il rapporto uomo-donna è storicamente determinato, perché stupirci dei mutamenti che avvengono nella percezione della sfera più intima?

L’influenza dello psicologismo risulta evidente anche dalle citazioni della Irigary e della Muraro e dal dibattito che si è sviluppato, anche nel nostro paese, tra le varie tendenze del femminismo e della psicoanalisi. Ora, per quanto mi riguarda, non è in discussione la validità della psicoanalisi come teoria e terapia capace di consentire a uomini e donne una più consapevole conoscenza di sè e delle relazioni umane. Il fatto è che essa, focalizzata sui percorsi singoli, è lontana dall’idea di cambiamento collettivo della società di cui, per altro, non si occupa.
Le donne perciò hanno bisogno di tornare ad intrecciare la lotta per la loro liberazione complessiva con quella contro il capitalismo.
E noi, donne comuniste, dobbiamo riprendere il filo della storia del movimento operaio di cui ci sentiamo parte, arricchendolo con la nostra esperienza e la nostra pratica, ma assumendo l’impegno di un progetto generale di trasformazione della società.

In questo quadro, mi permetto di sottolineare che nessun risultato tangibile sarà possibile perseguire se i luoghi delle donne resteranno separati dalla società, ma anche dal partito nel quale operiamo, come è stato il Forum delle donne, troppo élitario e preconfezionato, non adeguatamente disposto all’ascolto ed al coinvolgimento di tutte le iscritte, già così poco numerose. Mi auguro vi sia una apertura, anche alla luce dell’esplosione di nuovi movimenti, ben calati nella realtà.
Sollecito, pertanto, con forza l’urgenza di un confronto tra tutte le compagne del partito, libero e trasversale, possibilmente disancorato dalle logiche di appartenenza e rivolto al che fare.

Per un nuovo movimento delle donne

Infine la pars contruens. Sono convinta che in questa fase, caratterizzata dalla nascita di un movimento contro la globalizzazione capitalistica e contro la guerra e dalla ripresa delle lotte operaie, vi sia lo spazio per una nuova stagione di lotta delle donne, dentro la dinamica più vasta dei movimenti.
Un’iniziativa da assumere in primo piano è quella contro lo smantellamento dei servizi pubblici, che il governo Berlusconi sta attuando con rapidità e che colpisce particolarmente le donne. Permanendo forte nella società capitalistica la divisione sessuale dei ruoli, il venir meno dei servizi o l’alto costo derivante dalle privatizzazioni significa far gravare sulle donne una carico di lavoro sempre maggiore o, al più, scaricarlo su altre donne: nonne, zie, sorelle, amiche. Un circolo vizioso che penalizza le donne e che le conduce o fuori dal mercato del lavoro o a sopportare ancora una fatica immensa dentro e fuori casa. E contro la precarizzazione del mercato del lavoro, per la difesa dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Emblematica è la lotta delle donne di Termine Imerese, che hanno sentito il bisogno di fare la propria battaglia contro i licenziamenti FIAT.
Un campo enorme di intervento è quello contro le guerre che hanno insanguinato il mondo in questo ultimo decennio e contro quella annunciata dagli USA in Iraq. Non c’è spazio in questo articolo per approfondire un tema così rilevante, ma certamente utilissimo sarebbe smascherare la campagna propagandistica volta a far credere che la guerra degli Stati Uniti abbia liberato le donne afgane. Come è possibile se queste donne hanno visto morire i loro figli? Chi, se non le donne comuniste, possono affrontare anche le problematiche più spinose relative alla condizione femminile in altri paesi ed in altre culture, senza cedere alla tentazione eurocentrica?
Sul terreno della lotta alla guerra vi è un’iniziativa volta a raccogliere i vari gruppi e/o associazioni di donne, attorno ad una convenzione di donne per la pace. Ad essa va dato un carattere di massa e va ricercata la partecipazione delle lavoratrici e delle giovani generazioni.
Su queste lotte può crescere una nuova generazione di donne, consapevoli del proprio ruolo, con una visione anticapitalistica ed antimperialista.

E ancora, ma mi limito ad una elencazione: la difesa del principio dell’autodeteminazione della donna, sotto tiro; il contrasto al progetto sulla procreazione medicalmente assistita; il rilancio dei consultori pubblici, come luoghi in cui viene tutelata la salute della donna; la difesa del carattere pubblico delle scuole di ogni ordine e grado, in cui sia possibile realizzare l’integrazione dei bambini e degli adolescenti immigrati; l’incentivazione di spazi per i giovani, dove produrre musica, teatro, poesia e dare libera espressione alla creatività umana; la lotta contro ogni discriminazione di sesso, contro la mercificazione del corpo della donna.

Occorre perciò apertura, tornare nei luoghi dove vive lo scontro di classe, dove gli esseri umani si formano, dove si confrontano culturalmente per dare concretezza a quello slogan, divertente e al tempo stesso emblematico, secondo cui le brave bambine vanno in paradiso mentre quelle cattive (in primo luogo noi, donne comuniste) vanno ovunque. Ebbene, cominciamo ad andare.

Note :

1 citazione riportata da Engels in “L’origine della famiglia” (1884) Editori Riuniti, Roma 1963;

2 Engels “L’origine della famiglia” ibidem;

3 Claudio Fracassi “Aleksandra Kollontaj e la rivoluzione sessuale” Editori Riuniti, Roma, 1977, testo che affronta il dibattito sul rapporto uomo-donna nell’URSS degli anni 20 con brani della Kollontaj, la quale affronta in modo spregiudicato i vari aspetti dell’amore legandoli all’evoluzione dei rapporti economico e sociali ;

4 Carla Ravaioli prefazione al libro di Mechthild Merfel “L’emancipa-zione della donna e la morale sessuale nella teoria socialista”;

5 Teresa Noce (Estella) “Rivoluzionaria professionale”;

6 Laura Lilli prefazione al libro “Care compagne. Il femminismo nel PCI e nelle organizzazioni di massa” Editori Riuniti, Roma, 1979;

7 Carla Ravaioli prefazione scritta nel 1977 alla riedizione della sua “Donna contro sé stessa” che uscì per la prima volta nel 1969;

8)Carla Ravaioli “La questione femminile” Bompani;

9 Umberto Cerroni “Il rapporto uomo-donna nella civiltà borghese” Argomenti/Editori Riuniti, 1975, testo che affronta la storicità del rapporto uomo-donna anche attraverso brani poetici;

10 Luciano Gruppi “Matrici ideali e sociali della formazione neo-femminista” in Donne e politica , n.17 in cui sostiene che l’Italia non è un paese tipico di movimenti femminili, in quanto tutte le rivendicazioni delle donne sono state fatte proprie dal movimento operaio;

11 Simone de Beauvoir “Il secondo sesso” Il Saggiatore, Milano 1961;

12 Simone de Beauvoir “Non basta il Socialismo” Effe ottobre-novembre 1974;

13 Lidia Menapace “Per un movimento politico di liberazione della donna”. Bertani Verona, 1972;

14 Luciana Castellina “Lettera aperta ai compagni del Manifesto a proposito della questione femminile” Il Manifesto 13 febbraio 1973;

15 Cara Lonzi “Sputiamo su Hegel” Rivolta femminile, Milano ,1974;

16 Juliet Mitchel “La condizione della donna” Einaudi, Torino, 1972 autrice inglese la quale cercò di tenere insieme psicoanalisi e marxismo, affermando”dobbiamo porci le domande femministe e cercare di rispondervi marxisticamente;

17 Luce Irigary “Speculum L’altra donna”, Feltrinelli, Milano, 1975;

18 Maria Luisa Boccia “La differenza politica”, Il saggiatore,Milano 2002;

19 Luisa Muraro “L’ordine simbolico della madre” Editori Riuniti, Roma, 1991;

20 Luisa Muraro “Maglia o uncinetto” scritto nel 1981, Manifestoli-bri, Roma, 1999 con ampia introduzione di Ida Dominijanni;

21 Adrienne Rich “Nato di donna”, Garzanti 1977;

22 La Prof. Barbara Epstein, nel numero di settembre 2002 di Monthly Review (www.montlyreview.org/0902 epstein.htm), si domanda come mai il femminismo americano sia diventato un fenomeno non più antagonista della società americana. Ella, tra l’altro, osserva che il movimento delle donne è declinato negli anni ’80 e ’90 soprattutto perché la base sociale su cui si fondava era costituita per lo più da giovani donne bianche delle classi medie che in quegli anni si sono allontanate dalla politica ed hanno beneficiato di quella che Galbraith ha chiamato la “cultura dell’appagamento” degli anni ’80 e ’90 (cfr, John Kenneth Galbraith, The Culture of Contentment, Boston, Houghton Miffin, 1992)

Ho inoltre consultato i seguenti testi: Aida Riberi “Una questione di libertà” Rosemberg & Sellier , Torino, 1999; a cura di Manuela Fraire “Lessico Politico delle donne: teorie del femminismo”, Fondazione Badarac-co , Franco Angeli Milano, 2002; Libreria delle donne di Milano “Non credere di avere diritti” Rosem-berg & Sellier , Torino, 1987; Maria Rosa Cutrufelli “Economia e politica dei sentimenti” Editori Riuniti, Roma, 1980.