Torino: la parola alla classe operaia

fabbrica catena operaiRiceviamo e volentieri pubblichiamo

di Bruno Steri

Di questi tempi è davvero difficile tenere acceso il televisore sull’attualità politica, resistendo se va bene alla noia ma spesso anche alla rabbia: dibattiti interminabili quanto inconsistenti, che passano senza soluzione di continuità dalla tracotanza fascio-leghista al vuoto pneumatico del “politicamente corretto”, impreziositi dall’educata presenza della sardina di turno, oramai ospite fisso dei salotti televisivi, o da quella immancabile dell’ “amico americano” – al secolo Alan Friedman – che non perde occasione per pubblicizzare il suo libro, dispensando consigli circa la necessità di non far fuggire dall’Italia le multinazionali straniere. E via di questo passo.

Poi un compagno mi invia il video di una riunione tenutasi nella sala del Consiglio regionale del Piemonte, con la giunta regionale medesima, alcuni sindaci di quel territorio, sindacalisti e soprattutto lavoratori delle aziende in crisi: e – direi finalmente – la realtà torna a far irruzione, squarciando il velo di un’informazione violentata e distorta. Il confronto tra il resoconto della suddetta riunione, da un lato, e quel che passano i tg e le trasmissioni cosiddette “politiche”, dall’altro, è impietoso: l’organizzazione della “distrazione di massa” risulta immediatamente palese. Non può sorprendere che poi vi sia chi finisce per chiedersi: ma di che diavolo parlano questi politici?

E’ bene quindi lasciare subito la parola alle lavoratrici e ai lavoratori. Mahle, Lear, Alpitel, ex Embraco, Alcar, Blutec, Olisystem, Manital, Cnh, Comital, Martor. Queste sono alcune delle tante aziende in crisi che popolano il territorio piemontese, con il drammatico corredo di centinaia di famiglie, a volte con padre e madre entrambi impiegati in azienda, dall’oggi al domani gettate nell’incertezza lavorativa e familiare. La crisi esplosa nel 2008 non è affatto un lontano ricordo. Continua a calare la produzione industriale della manifattura metalmeccanica. Sono in crisi aziende in settori di punta e con alti livelli di professionalizzazione come l’Alpitel, che posa chilometri di fibra ottica sul territorio nazionale; ma soffre in particolare il settore dell’automotive, dove, secondo le stime della Fiom, nel prossimo anno si prevedono per il territorio piemontese 5 mila licenziamenti. Se va bene si fa part-time, con una forte penalizzazione salariale. Lo spettro della deindustrializzazione è insomma dietro l’angolo. Si chiama crisi capitalistica; e non dipende dal destino cinico e baro.

Nella sala consiliare sono presenti molti lavoratori della Mahle (altri sono restati fuori e si fanno sentire con tamburi e sirene). Si tratta di una multinazionale tedesca di subfornitura che produce pistoni per il diesel e che è passata senza soluzione di continuità dalla cassa integrazione ordinaria all’annuncio della chiusura degli stabilimenti di Saluzzo e La Loggia (450 lavoratori): l’azienda ha aperto la strada dei licenziamenti collettivi come se aprisse una cassa integrazione, senza minimamente pensare ad una soluzione industriale. Lo ha fatto, dopo aver goduto di decontribuzioni e finanziamenti pubblici e dopo sei anni di attivi (nel 2018, ha vantato un +15% di profitti). E’ incredibile: in un Paese pur appartenente all’Occidente capitalistico, si è chiesto almeno conto dei soldi pubblici concessi a chi è venuto a far profitti? O ci si limita a fare fuori tempo massimo il dolente conto dei licenziamenti? “E’ un problema politico – precisa un dipendente Mahle – non si devono firmare accordi che prevedono esuberi, vogliamo una soluzione industriale”. E una delegata sindacale prosegue: “Quel che voleva fare la Mahle era già chiaro un anno fa. Le multinazionali sanno cosa fare e vanno dove conviene. La legge italiana glielo consente. In 75 giorni possono andarsene e mandare a casa i lavoratori. Il loro ragionamento è molto semplice: c’è un calo di richieste del 20%, quindi chiudiamo. E peggio per chi ha lavorato duro in questi anni. Non può essere che, davanti alla crisi, una multinazionale possa fare quello che vuole. I lavoratori non sono bestie”.

Un altro dipendente Mahle così sintetizza: “Se ci avessero detto: ‘da domani, basta motori a scoppio, si fa tutto con l’elettrico’, avremmo provato ad adeguarci. Ma non è così. In realtà a noi non mancherebbe il lavoro; il lavoro ci è stato portato via! Verso luoghi dove costa di meno. Coi nostri sacrifici, avevamo superato la crisi, sanato il debito e pareggiato il bilancio aziendale. Ma poi ci hanno tolto l’ufficio tecnico, trasferendolo in Germania dove decidevano tutto. Non potevamo più parlare coi clienti e sta di fatto che abbiamo perso il grosso di quelli che avevamo. Questa situazione è stata teleguidata. E’ sbagliato pensare che il nostro lavoro non c’è più perché c’è l’elettrico. Questo stesso lavoro lo fanno in Polonia, in Brasile e altrove. E attenzione, più si andrà avanti e peggio sarà; perché arriveranno a contesti sempre meno provvisti di tutele (India, Africa). Noi siamo in grado di fare qualsiasi tipo di pistone (per diesel, gas, ibrido). Hanno preso le nostre capacità e le hanno portate dove costa meno, in Polonia. Vi pare giusto? Non si tratta di fare stupide guerre tra lavoratori di diversi Paesi. Ma c’è da chiedersi: l’Europa esiste? Mi pare di no”. In effetti, a guardarla da questa sala consiliare, l’Europa, se esiste, esiste solo per i padroni.

Un delegato rsu della Lear, altra azienda della componentistica che produce sedili per Fca (Fiat Chrysler Automobiles), mette il dito sul tema proprietà: “Come sempre, la competizione viene fatta sui costi. I sedili per la 500 elettrica se li è aggiudicati una multinazionale turca, che ha vinto l’appalto perché offre un lavoro che costa meno e che ha meno diritti. Così da noi, dopo una procedura di uscite incentivate (si tratta comunque di licenziamenti), su 525 dipendenti si annunciano 350 ‘esuberi’. Tutto questo è inaccettabile. Qui il problema non è tanto quello del management quanto quello delle responsabilità della proprietà. A Torino, nel corso di decenni si sono sedimentate competenze e professionalità: la famiglia Agnelli si è imposta economicamente nel mondo anche e soprattutto grazie al nostro lavoro. Dovrebbe quindi rispettarlo e ripagarlo. La cosiddetta fusione tra Fca e Psa (Peugeot) non può essere solo per noi un salto nel buio. Il governo francese sa quali sono i tempi, quali le ricadute sull’indotto, dove vanno le vetture, quali stabilimenti si salvano e quali no. E il nostro governo che fa? Dov’è? Quali sono gli oneri della proprietà? Non sarebbe opportuna la costituzione di un tavolo nazionale sull’auto, dove la politica e i lavoratori possano far valere i loro diritti?” E conclude in modo lapidario: “La nostra Costituzione dice che l’iniziativa privata deve avere un’utilità sociale! O no?”.

L’incontro piemontese continua su questi toni, con i rappresentanti istituzionali ammutoliti, a constatare tanto la profondità delle critiche quanto l’inadeguatezza delle loro possibili risposte. In effetti come rispondere operativamente, stanti le vigenti compatibilità di classe, ad una constatazione come la seguente: “Non esiste che il tessuto produttivo italiano si stia sgretolando (dall’Ilva al Piemonte) e, nello stesso tempo, che gli italiani siano tra i primi detentori di risparmio privato nel mondo!”. E che dire di quest’altra: “Non esiste che dove si delocalizza non vigano gli stessi diritti che in Italia; ma vi siano turni di 12 o 14 ore al giorno, magari anche senza ferie né malattia. A maggior ragione se si delocalizza in Europa! E’ ora di dire basta, Così non si può continuare!”. In fondo, si sta parlando di una stessa semplice constatazione: non è vero che le risorse siano scarse (come dicono quelli che devono giustificare una manovra e strutturalmente inconcludente). Una constatazione che ne sintetizza altre due: 1) i soldi non mancano, vanno presi dove sono; 2) la cosiddetta Unione europea è in realtà un’unione senza popolo, un’unione solo padronale. Se non si fanno qui ed ora ragionamenti e atti conseguenti, coraggiosi in merito a queste constatazioni di fondo, meglio star zitti.

Intanto i tamburi, fuori, hanno continuato a battere per tutto il tempo.