ILVA: l’unica soluzione è la nazionalizzazione

ilva corteo sindacaledi Stefano Barbieri per Marx21.it

La vicenda ILVA, che in questi giorni riempie le cronache dei giornali nazionali, è paradigmatica della condizione di sfacelo in cui versano i diritti dei lavoratori ed, in generale, il futuro occupazionale di questo Paese, al di là delle balle colossali raccontate dal Governo e dal principale partito di quella maggioranza, il PD, all’indomani di ogni dato ISTAT, INPS o altro ente che sia.

La farsa messa in campo dal governo su questa questione è, poi, persino imbarazzante; il Ministro dello Sviluppo Calenda, con una mossa inaspettata ai più ed, in sé certamente condivisibile, fa saltare il tavolo tra le parti sociali rimproverando, rivolgendosi alla cordata padronale AM InvestCo/Marcegaglia, che non era possibile aprire un confronto senza il rispetto delle condizioni già concordate per quanto riguardava i dipendenti.

In sintesi, il governo sbotta perché non vanno bene i salari, che non sarebbero quelli concordati in precedenza, ma non ha niente da dire rispetto al fatto che i lavoratori del Gruppo verrebbero tutti licenziati e riassunti uno ad uno con l’applicazione delle regole del Jobs Act e quindi senza articolo 18, con il contratto a tutele crescenti per 3 anni e con la perdita dei diritti acquisiti, primi fra tutti i livelli di anzianità conseguiti. Perdita stimata per i “fortunati” che manterrebbero il posto di lavoro (circa 10.000 sui 14.000 presenti e per i rimanenti 4.000 dichiarati in esubero solo il licenziamento senza prospettiva alcuna) circa 6.000 euro all’anno su stipendi di circa 1.200/1.300 euro mensili. Nessuna indicazione, poi, sui quasi 8.000 lavoratori del cosiddetto indotto.

Un gran contratto quindi, sul quale, appunto, ne il ministro Calenda, ne il resto del Governo e del PD dice niente. Come potrebbe, peraltro dopo aver voluto e imposto il Job Act che a questo serve, a demolire definitivamente i diritti e i salari dei lavoratori, e dopo aver assegnato alla cordata AM InvestCo/Marcegaglia la proprietà dell’ILVA dopo il commissariamento?

In questo senso la decisione del governo era contestabile sin dall’inizio per molti motivi, a partire dal fatto che Arcelor Mittal (la multinazionale capofila), era già largamente presente in Europa ed era evidente che l’acquisizione del complesso italiano, in una situazione di sovraccapacità produttiva del settore a livello mondiale, serviva soprattutto come mezzo per bloccare velleità espansive di altri concorrenti di mercato, fino a pensare di arrivare con il tempo ad una chiusura pilotata dello stesso. La presenza poi di un’impresa come la Marcegaglia, i cui risultati economici e finanziari degli ultimi dieci anni sono stati disastrosi e le imprese dell’ex Presidente di Confindustria si sono spesso contraddistinte per essere all’avanguardia solo nel peggioramento dei diritti e delle condizioni salariali dei lavoratori, era la garanzia del fallimento dell’intera operazione.

Non esisteva poi, ne esiste oggi, nessun piano industriale ne a medio ne a lungo termine per questa azienda, una volta orgoglio dell’industria nazionale e oggi ridotta come molte altre grandi imprese del Paese, ad un rimorchio ingombrante di cui sbarazzarsi, cosa ovvia peraltro se si pensa che in Italia da circa 30 anni manca un piano industriale degno di questo nome.

Eppure si è tirato dritto su quella strada, con tanto di plauso dell’allora presidente del consiglio Matteo Renzi nonché, ieri come oggi, segretario del PD.

Questo autentico capolavoro di disastro non ha soluzione se non la NAZIONALIZZAZIONE dell’ILVA. Il governo pensa che la siderurgia sia ancora un pilastro sul quale basare la propria politica industriale si o no? Se si allora si possono fare investimenti produttivi, risanare l’ambiente e dare un futuro all’occupazione in aree importanti della nostra penisola. 

Se non è così, la si consegna alla privatizzazione più selvaggia secondo le regole del mercato capitalista, supportate da leggi sul lavoro quali il Job Act.

Su questo punto, è bene che anche i sindacati e la sinistra di questo paese riflettano e decidano cosa fare e lo facciano anche coloro che irridevano chi, come noi, sosteneva che il Job Acts era una sciagura che sanciva il passaggio, per i lavoratori, dal diritto al lavoro al diritto allo sfruttamento, che in parlamento quella legge l’ha votata, a qualunque partito appartenga in data odierna, e che oggi si scandalizza, magari anche in virtù di una prossima campagna elettorale che non sarebbe conveniente fare sperticando lodi su decreti che hanno riportato i diritti dei lavoratori indietro di 50 anni, perché quella legge viene applicata.

L’essere “sinistra”, politica o sindacale, si misura su QUESTO argomento: la centralità della contraddizione capitale/lavoro, la rappresentanza degli interessi di classe, il nuovo mondo del lavoro e la nuova condizione dei lavoratori, il passaggio da LAVORO a SCHIAVITU’ sancito per legge. Nessuna di queste questioni è compatibile con “…cosa fa Pisapia o D’Alema o Bersani o Civati o Fratoianni o Ferrero..” o altri mille ancora e mille partiti ancora.

La vertenza ILVA è uno spartiacque importante.

I comunisti, oltre ad esprimere la loro solidarietà alle lavoratrici ed ai lavoratori ed a stare al loro fianco nella lotta, devono essere pronti ad affrontare questa sfida.