“L’Irisbus è nostra e non si tocca!”

PdCI Valle Ufita | l’articolo è tratto in anteprima dal numero in uscita di MarxVentuno

 

MARXVENTUNO ORGANIZZA UNA TAVOLA ROTONDA CON LE AVANGUARDIE DI LOTTA DELL’IRISBUS-IVECO, L’UNICA FABBRICA DI AUTOBUS IN ITALIA, DA OLTRE CENTO GIORNI IN LOTTA CONTRO LA CHIUSURA IMPOSTA DALLA FIAT

 

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MarxVentuno avvia un’inchiesta sulla condizione della classe operaia dell’industria, sulle forme organizzative, sul ruolo del sindacato sulle resistenze e le lotte in corso contro chiusure e licenziamenti, sui loro sbocchi possibili e le prospettive strategiche. Lo fa dando la parola ai lavoratori e alle avanguardie delle lotte, ai protagonisti degli scioperi, dei presidi davanti ai cancelli delle fabbriche, delle assemblee permanenti, delle occupazioni degli stabilimenti. Il quadro che emerge dalla tavola rotonda organizzata con i lavoratori dell’Irisbus è di un’indomita combattività e volontà di resistenza dei lavoratori, ma pure di contraddizioni con le organizzazioni sindacali, anche con quelle, come la Fiom, che si è contrapposta a Marchionne e costituisce un presidio importantissimo, fondamentale, per la resistenza anticapitalistica, ma che non è stata esente in passato da errori di valutazione, cedimenti, pratiche consociative con le direzioni aziendali in un Mezzogiorno in cui la disoccupazione di massa è un fattore potente di corruzione e clientelismi. Solo riconoscendo i propri errori e apprendendo dall’esperienza, il movimento operaio e le organizzazioni sindacali di classe possono ricostruirsi su basi più avanzate, tanto più necessarie oggi, in un presente attraversato e sconvolto dalla grande crisi capitalistica.

 

L’otto luglio 2011 la Fiat comunica agli operai dello stabilimento Irisbus- Iveco in Valle Ufita, provincia di Avellino, la procedura di cessione dello stabilimento. L’unico candidato all’acquisto sarebbe il gruppo molisano Di Risio, il quale dovrebbe contrattare con gli operai un “rilancio” a partire da una drastica riduzione delle maestranze. Sull’affidabilità di Di Risio, acquirente in pectore anche della Fiat di Termini Imerese, basti dire che risulta già mul tato di 60.000 euro per falsa pubblicità: spacciava per auto italiana la produzione del Suv Dr5 completamente costruito in Cina. Gli operai non ci stanno, comincia una grande stagione di lotta. Non sono solo in gioco poco meno di 700 posti di lavoro, la vita di 700 famiglie – e molti altri con l’indotto – in un Mezzogiorno già pesantemente provato dalla crisi, ma si tratta della prospettiva industriale del nostro Paese. L’Irisbus è l’unica fabbrica di autobus in Italia. Per istallarla e mantenerla la Fiat ha ricevuto miliardi di contributi statali, anche se non ha mai onorato l’impegno, annunciato nel settembre 1974, di occupare 3000 lavoratori a pieno regime, e ha impiegato 17 anni per adeguarsi, nel 2007, alla prescrizione degli ispettori del lavoro – mandati dalla Procura di Ariano su esposto degli operai – di sostituire il lavoro operaio con i robot nel cancerogeno e altamente nocivo reparto verniciatura. I lavoratori dell’Irisbus hanno subito coinvolto la popolazione della valle dell’Ufita e cercato il collegamento con l’intera regione Campania, dove sono a rischio 36.000 posti di lavoro. Alla manifestazione del 15 luglio a Grottaminarda partecipano quasi 10.000 persone provenienti da tutta la Regione. I lavoratori informano i cittadini, ogni occasione è buona, dalla sagra del paese più piccolo e remoto dell’Irpinia, fino al concerto di Roberto Vecchioni a Lioni. Grande è stata la partecipazione allo sciopero generale indetto dalla CGIL il 6 settembre. Alle iniziative di lotta e alla determinazione dimostrata dagli operai, la Fiat risponde cercando di spaccare il fronte dei lavoratori: a trenta di essi offre pochi mesi di lavoro nello stabilimento di Suzzara in provincia di Mantova, dove gli operai sono in cassa integrazione! Ma il gioco non riesce, i “trasferisti di Suzzara” ritornano in Irpinia, è una cocente sconfitta per la direzione Fiat. La questione Irisbus non è una mera vertenza locale, rivela ben presto, in tutta la sua drammaticità, il suo carattere di questione nazionale e generale, perché interroga il modello di sviluppo, l’intervento pubblico in economia, la pianificazione di un settore fondamentale quale quello del trasporto pubblico. La rivista MarxVentuno ha organizzato sabato 10 settembre nell’assolatissimo piazzale antistante la fabbrica, che gli operai presidiano giorno e notte, una tavola rotonda. A introdurre e moderare è Luca Servodio (PdCI Valle Caudina), insieme col direttore della rivista Andrea Catone e Giovanni Sarubbi, segretario provinciale del PCdI di Avellino. Sono intervenuti i lavoratori dell’Irisbus Dario Meninno (RSU-Fiom), Silvia Curcio, Nicola Ferragamo, Antonio Di Donato (Failms), nonché Rossella Iacobucci, portavoce della FdS Irpinia e Arcangelo Valentino, venuto da Bari per portare la solidarietà dei lavoratori della Bosch.

 

Vogliamo far sentire – ha esordito Luca Servodio – le vostre voci all’Italia intera, un’Italia in cui ci sono oltre 300 presidi permanenti operai, che lottano contro le delocalizzazioni e le chiusure di stabilimenti. L’Irisbus ha iniziato la produzione nel giugno del 1977, esito di un accordo di programma messo in atto tre anni prima quando si sviluppò una lotta tra potentati politici in territori diversi. Allora reggeva il ministero dell’industria Ciriaco De Mita, che spinse perché lo stabilimento andasse nella “sua” Irpinia invece che nella Piana del Sele, dov’era in un primo momento previsto. L’Irisbus iniziò la sua storia in Valle Ufita, prevedendo il lavoro di tremila addetti, occupazione mai raggiunta neanche nei periodi di forte produzione (1.872 addetti). La debolezza politica dell’investimento però risultò subito evidente: senza una chiara strategia del trasporto pubblico a lunga portata ci si rifugiò nel finanziamento occasionale anno per anno. Una debolezza denunciata dai più attenti tra gli operai, ma che non riuscì mai a mutare il progetto strategico sui trasporti. Anche gli operai ne fanno le spese, con ristrutturazioni che tagliano l’occupazione e con qualche avanguardia di fabbrica messa fuori gioco. Memoria di molti è la lotta dei primi anni Novanta, con la mitica tenda “25 aprile” che fece da punto di riferimento e coscienza critica per moltissimi mesi. Possiamo ricostruire insieme con voi la storia di questa fabbrica, le politiche aziendali, le risposte e le lotte dei lavoratori?

 

Dario Meninno: Prima si lavorava quasi solo per commesse pubbliche, praticamente tutte finanziate dallo Stato. Si lavorava anche per l’estero, la Libia per esempio. Ma la produzione si è spostata qui dopo la chiusura di una parte dello stabilimento di Cameri, a Novara. Lì hanno dismesso la produzione di autobus e quella gamma è stata spostata qui in Valle Ufita. Noi già siamo nati sulla scorta di una dismissione, anche se a Cameri facevano sia autobus che meccanica. Le prime avvisaglie di scricchiolamento di questo stabilimento le abbiamo avute dopo il terremoto dell’Ottanta, quando assaporammo la cassa integrazione, anche se allora era quasi il 90% del salario. In quel periodo ci definimmo simpaticamente “metal-mezzadri”, perché mentre si lavorava in fabbrica, la cassa integrazione ci riportò nei campi. Da allora fino agli anni ‘90 abbiamo avuto vari approcci con la cassa integrazione, anche se nel frattempo hanno fatto delle assunzioni per soddisfare le commesse di autobus in vista dei mondiali di calcio del 1990. Poi però quel lavoro è saltato e siccome quelle assunzioni erano contratti a tempo, noi “vecchi” siamo andati in cassa integrazione, mentre i nuovi assunti hanno perso tutto, sono stati buttati fuori. Dopo la mancata commessa dei mondiali sono sorti i problemi: ristrutturazioni, tagli, richiesta di sovvenzionamenti pubblici, licenziamenti.

 

 

Antonio Di Donato: Questo stabilimento è nato malato. Ha scippato al territorio un milione e 150 mila mq. di terreno. Né le forze politiche né l’Area di Sviluppo Industriale hanno chiesto conto di questa situazione al padronato. Abbiamo un territorio vastissimo non occupato e i governatori locali hanno fatto altri siti produttivi sotto Frigento, invece di fare un raggruppamento industriale, che poteva essere il gioiello dell’Irpinia. Ma ritorniamo all’Irisbus. Si prevedeva un indotto di 3.500 unità, che non è mai nato. L’azienda non ha mai voluto che si sviluppasse l’indotto. A volte capitava che alcune lavorazioni della zona venissero acquistate da aziende del nord, poi la Irisbus riacquistava dal nord il prodotto per questo stabilimento. Insomma, ci sono assurdità di tutti i tipi. Dopo il terremoto c’è stata la prima cassa integrazione e non c’è mai stata sicurezza del lavoro. Fino ad arriva- re agli anni ‘90, quando l’azienda prima assume e poi dichiara esuberi per eccedenza di personale. Già all’epoca si voleva ridimensionare la forza lavoro. Nel 1991 quando i dipendenti sono già scesi a 1.100, la Fiat annuncia di voler procedere a prepensionamenti e mobilità per 490 dipendenti, che dal giorno dopo mette in cassa integrazione. Ottocento operai invadono l’autostrada, e nella piazza di Grottaminarda si monta la Tenda della Resistenza. Fu il primo vero scontro frontale, dal quale l’azienda esce sconfitta: nel 1994 è costretta a richiamare al lavoro gli esuberi, riuscendo ad ottenere soltanto meno di un centinaio di pensionamenti incentivati.

 

 

Interviene Silvia Curcio, una delle poche operaie (la presenza delle donne in fabbrica è solo il 10%): Venendo in questa realtà, dopo anni di lavoro nel settore auto a Pomigliano, ho notato lassismo, un numero sproporzionato di impiegati e una classe dirigente aziendale squallida. Viene da pensare che tutto ciò sia stato fatto apposta per demolire questo stabilimento, dimostrando che non andava bene. Dove lavoravo io, i capi operai cambiavano spesso, mentre qui vedo gente che ha costruito una “capannella” attorno a quel posto, creando conflittualità fra operai e capi. Se ognuno avesse svolto il suo compito in modo adeguato, forse non ci ritroveremmo in questa situazione. Vedevo uno spreco esagerato e nessuno diceva niente. Rottamavano materiali nuovi, per ordini sbagliati. Io non so i particolari, ma vedevo che qualcosa non andava. Qui arrivava un pinco pallino qualsiasi e diventava capo squadra, senza conoscere la fabbrica. È stata una politica disastrosa. Poi è arrivata la chiusura, nello stupore di qualcuno! Loro vogliono addossare la colpa agli operai, che però facevano solo il lavoro che veniva loro assegnato. Se qualcuno provava a far notare che così non andava, gli dicevano che era pagato per lavorare e non per pensare.

 

Dario Meninno: Nel 2004, quando c’era la produzione di tre tipi di autobus (380, 471 e Crossway), sono cominciati i primi problemi seri, un nuovo piano industriale, che taglia 300 dipendenti, da mettere in mobilità. L’accordo non viene firmato da Fiom e Failms, perché i piani di ristrutturazione non convincevano. Ma nessuno ha visto ciò che realmente si nascondeva: la prospettiva di smantellare lo stabilimento. La conferma è arrivata pochi anni dopo. Infatti nel 2007 è stata proposta una nuova mobilità con un nuovo piano industriale, che annullava quello del 2004. La Fiat mette altre 200 persone in mobilità, sostenendo che è l’unico modo per an – da re avanti con la produzione. Ma abbandona il modello Crossway, che oggi sta facendo furore nella Repubblica Ceca. Il costo del lavoro su un bus incide per il 30% circa. Se pensiamo che nella Repubblica Ceca si lavora per 7 euro all’ora circa, mentre da noi per circa 27 (considerando oneri e tutto il resto), è ovvio che sia concorrenziale sul mercato. Di tutto quel programma del 2007 l’unica certezza è stata l’abbandono delle gamme, ma nulla di più. Arriviamo così al 2010 e a un’ulteriore richiesta di mobilità per 135 persone e un investimento di 8 milioni di euro.

 

Luca Servodio: Vi sono stati segnali che rivelavano il programma della Fiat per questo stabilimento? Come si sono sviluppate la presa di coscienza e la lotta? Quali le difficoltà iniziali e attuali, anche rispetto ai media nazionali che mirano, assieme ad esponenti politici filo governativi, a derubricare la vostra lotta a un caso locale e non nazionale, come in effetti è?

 

Nicola Ferragamo: A partire dall’ultima messa in mobilità, coi compagni più politicizzati del Failms già si volantinava, informando sui problemi della fabbrica. Ci accorgemmo allora che la Fiat voleva andare via, ma né un sindacato nazionale, né provinciale, né le RSU avevano capito che la nostra iniziativa era nei fatti l’inizio di una lotta. Quella cecità, quando c’erano ancora le condizioni per fare una battaglia, ha portato a questa situazione di sfascio. Anche i compagni della Cgil nel 2010 hanno firmato un accordo in cui accettavano 135 dipendenti in mobilità, mezz’ora in più di lavoro con cento euro in meno al mese. Quest’ultimo accordo ci ha fatto capire che la Fiat voleva chiudere, nonostante l’investimento di otto milioni di euro. Non è accettabile che la Cgil acconsenta a queste condizioni senza dire nulla. È questa la vera sconfitta.

 

Antonio Di Donato: Anche negli anni 90 i lavoratori non videro di buon occhio le posizioni prese dal sindacato. Noi ci siamo sempre annacquati e abbiamo sempre fatto in modo di avallare ogni nefandezza di questo padronato. Venni anche avvicinato da qualche esponente politico di “sinistra”, se possiamo definirlo tale, dato che questo accattone di voti mi disse: “perché non la smettete? Rientrate all’interno e facilitiamo il tutto”. Abbiamo sempre rigettato queste proposte. Facemmo con l’allora Pds una riu – nione in cui derisero le nostre idee, considerandole una causa persa. Dopo lo sciopero ci fu un incontro informale con il dott. Doria, un dirigente che contava nella Fiat. Ci disse che era disposto a far tornare tutti i lavoratori al lavoro se smantellavamo la Tenda della resistenza e se 35 impiegati erano disposti ad indossare la maglia operaia. Questi ci dissero che era opportuno fare quest’accordo, perché c’era necessità di lavorare. Rientrarono tutti e incominciammo a lavorare, ma senza sicurezza per il lavoro, perché continuava ad esserci la cassa integrazione. La nostra responsabilità è stata che fin dal 2004 abbiamo notato che la fabbrica non andava bene, però non abbiamo detto nulla e abbiamo sempre lasciato correre. Nel frattempo, alcuni sindacati e RSU facevano la corsa a chi firmava prima accordi aziendali con espulsione di manodopera. Abbiamo fatto finta di non capire. Abbiamo messo la testa sotto la sabbia, nonostante sapessimo che l’accordo del 2004 non dava un futuro. Ma, forse per una questione clientelare, non c’è stata mai la volontà di reagire a questa situazione. Così come non c’è stata da parte del sindacato, che si accordava con le forze politiche di governo e con il padrone. Parlo dei sindacati concertativi. Alcuni di noi furono cacciati dai sindacati perché li denunciammo, nonostante fossimo dirigenti di essi. La Fiom azzerò il suo gruppo dirigente in fabbrica perché criticava il modo di fare sindacato. Io stavo con la Uilm e mi fecero fuori perché denunciammo gli accordi aziendali che prevedevano l’espulsione di molti lavoratori. Il colpo di grazia comunque arrivò il 2010. Si eliminavano gamme di pullman con il consenso del sindacato. Poi ci fu un accordo come quello di Pomigliano. La Rsu e la segreteria provinciale fecero il gioco delle tre carte. Ci furono due accordi: uno lo firmò la segreteria provinciale dicendo alle Rsu che poteva firmare anche l’altro. Però in apparenza le segreterie non firmarono l’accordo “stile Pomigliano”, mentre le Rsu accettarono che si lavorasse solo nel turno centrale, con una notevole espulsione di manodopera, dato che si eliminava un turno di lavoro. Tutto questo fu una brutta pagina della storia ufitana, anche perché lo firmò la Fiom, che solo in seguito ammise l’errore. C’è anche da dire che gli operai, invece di dare fiducia a chi voleva sostenerli, diedero fiducia a chi si muoveva sul piano clientelare. Molto probabilmente anche questo condizionò la Fiom che pensò: “non siglando gli accordi del 2004 e del 2007 ho perso consensi e iscritti, in fabbrica non siamo stati capiti, allora i lavoratori vogliono altro”. Ciononostante ci siamo mossi. Ma l’errore qual è stato? Non capire cosa succedeva attorno a noi, accettando tutto ciò che voleva l’azienda.

 

Dario Meninno: Sì, l’accordo del 2010 – al contrario di quelli del 2004 e del 2007 – è stato sottoscritto anche dalla Fiom, di cui mi fido. Sembrava che potesse mettere in carreggiata lo stabilimento, ma così non è stato. Credo che se non avessi firmato quel contratto, lo stabilimento lo avrebbero chiuso il mese dopo. È stata proprio una brutta pagina quella del 2010. Oggi c’è la richiesta di dismissione. Come abbiamo avuto la notizia ci siamo subito mobilitati, con l’aiuto di una parte della popolazione.

 

Antonio Ferragamo: Si perderanno 700 posti di lavoro. Un dramma, ma nonostante questo siamo riusciti a creare tra i giovani una condizione di lotta bellissima.

 

Dario Meninno: Quando abbiamo capito che qui sarebbe finito tutto, è cominciato il presidio. Fino al 29 di agosto siamo stati in cassa integrazione. Ciò ha fatto sì che la mia ultima busta paga fosse di 343 euro. Alla fine del mese non si prende niente, ma di positivo c’è che la gente non vuole rientrare, non si arrende. C’è però qualche problema con gli impiegati.

 

Silvia Curcio: Qui non si era abituati a protestare e scioperare. Voglio portare un esempio: quando lavoravo nel settore auto, facemmo uno sciopero di settimane perché ritirarono il colore nuvola da un’auto. Noi abbiamo scioperato per il solo fatto che avevano ritirato un colore, mentre qui tutti ritenevano che la fabbrica non avrebbe mai potuto chiudere, e solo quando si sono scontrati con la crisi hanno iniziato a lottare. In tante occasioni, in cui si dichiarava lo sciopero, la partecipazione dei lavoratori e degli operai era ridicola, quindi vedere oggi questa partecipazione, mi esalta e mi inorgoglisce, anche se siamo sempre in cento a fare questa lotta, su uno stabilimento di quasi 700 lavoratori. Ovviamente ci sono anche difficoltà, che vengono fuori proprio dall’inesperienza di queste situazioni. La Fiat cerca di dividerci, ci ha provato mandando i trasfertisti a Suzzara, vuole creare un clima di conflitto fra gli operai.

 

Rossella Iacobucci: La Fiat è venuta qui ad impiantare quest’azienda perché questa era una terra di contadini abituati a svegliarsi la mattina all’alba e a zappare la terra fino a quando tramonta il sole. Questa gente non era abituata a ribellarsi perché il sole è troppo forte o il pane troppo duro. La Fiat è venuta a colonizzare un territorio dove non esisteva il concetto di ribellione. In questi mesi invece la ribellione c’è stata, gli operai che lottano sono una grande forza. In queste settimane si sono stabiliti rapporti umani straordinari, questa classe operaia è diventata una famiglia disposta a lottare a fondo, nonostante tutte le difficoltà.

 

Luca Servodio: Nella missiva inviata al Presidente della Repubblica, avete posto in luce l’antica e sempre attuale questione meridionale, che è stata cancellata negli ultima anni dall’agenda politica a causa dei cedimenti delle forze democratiche e dell’aggressione del blocco conservatore che, seppur differenziato al suo interno sul piano degli interessi sociali e territoriali, tende a ricompattarsi sotto la spinta antimeridionale della Lega. La vostra lotta rientra o può rientrare nella battaglia per risollevare la questione meridionale e sviluppare una strategia che eviti al Sud, il ruolo di un’area di “modernità squilibrata”, di flessibilità, di precarietà, di alti tassi di disoccupazione e di illegalità diffusa?

 

Rossella Iacobucci: Il mezzogiorno sta vivendo un periodo storico senza paragoni. Ci stanno consegnando in mano alla camorra, per demeriti nostri certo, ma soprattutto per colpa di chi ci ha messo in mano a loro. Se ci tolgono la fabbrica, dove dobbiamo andare? Con questa crisi strutturale non possiamo neanche emigrare! Perciò dobbiamo costruire una forte unità del popolo, dei lavoratori e della classe operaia.

 

Andrea Catone: Quali sono gli sbocchi possibili di questa lotta?

 

Dario Meninno: Siamo d’accordo sul fatto che non possiamo fidarci di Di Risio, perché è scorretto. Siamo convinti che Di Risio è colui che deve fare il gioco sporco per la Fiat. Noi dobbiamo fare in modo che la lotta di oggi serva per mantenere vivo lo stabilimento, per dare una prospettiva a chi resta, alle future generazioni. Di Risio non è una certezza, avrebbe fatto un’azione di killeraggio alla scadenza della cassa integrazione. Ciò che vogliamo è mantenere la produzione di pullman. Se guardiamo questo stabilimento dall’alto, ci rendiamo conto che è un gioiello, tecnologicamente avanzato. È per questo che lo difendiamo da mesi. Non vogliamo svendere questo patrimonio straordinario che abbiamo in Italia.

 

Rossella Iacobucci: La questione non è Di Risio sì o Di Risio no. Di Risio, se vuole, può venire, ci sono tante zone e tante fabbriche abbandonate da aprire e recuperare. Ma questo stabilimento deve restare con queste caratteristiche, perché bisogna mantenere la produzione di autobus. Ciò significa che al posto della Fiat deve venire un’azienda equivalente, oppure deve subentrare lo Stato per creare qualcosa di pubblico, di tutti. E non sarebbe male ciò, visto che il trasporto è pubblico. La Fiat continua a gareggiare e ad avere appalti per il 50% del trasporto pubblico in Italia. Qual è allora l’intenzione della Fiat? abbandonare i siti dove non c’è più nulla da spremere dallo Stato e andare via. Quando parliamo di fondi pubblici, parliamo di soldi nostri. Uno dei primi slogan usati durante le lotte è stato “l’Irisbus è nostra e non si tocca”, perché per mantenere questa azienda in questi anni i soldi li abbiamo cacciati noi.

 

Andrea Catone: Data la situazione, non pensate che una possibilità concreta potrebbe essere rappresentata dall’intervento dello Stato nella proprietà, come indica anche l’art 41 della costituzione? Visto che questa fabbrica è un gioiello e c’è una manodopera con idee chiare, perché il pubblico non deve poter intervenire direttamente nella proprietà e si cerca invece un privato a caccia di profitti?

 

Antonio Di Donato: Non si possono fare questi ragionamenti, perché al contrario si sta andando verso le privatizzazioni. Ciò però non significa che la prospettiva non interessi ai lavoratori, solo che è impensabile proporlo a questo Governo. Inoltre, la miseria fa comodo ai politicanti. La sfruttano per governare le masse!

 

Luca Servodio: È possibile rilanciare l’autogoverno dei lavoratori associati? Se lo Stato vi finanziasse, sareste capaci di portare avanti lo stabilimento, autogestendovi?

 

Dario Meninno: Le capacità teoricamente ci sono, vista anche l’incompetenza dei dirigenti. I più competenti siamo noi lavoratori. Ma il problema dell’autogestione sta nei capitali elevati. Prima di questo, però, dovremo parlare di problemi attuali. Oggi l’autogestione è impensabile. Parliamo, ad esempio, delle divisioni negli organismi di fabbrica e nei sindacati. Oggi gestiamo una situazione che ci mette sempre in contrasto con il sindacato. Siamo noi a dire no a determinati accordi e ad obbligare il sindacato a fare lo stesso. Chi vuole firmare contro la nostra volontà farà i conti con i lavoratori. Noi oggi siamo riusciti a mantenere i lavoratori uniti, indipendentemente dalla decisione aziendale di venderci a Di Risio. Questa vertenza, in altra situazione, si sarebbe chiusa subito, cercando ognuno il suo tornaconto. Noi invece siamo preoccupati del nostro territorio, tutto quello che facciamo è per la Valle Ufita. ed ovviamente anche per noi, ma que- sto è un discorso relativo.

 

Arcangelo Valentino: Sono venuto non solo ad esprimere piena solidarietà con un popolo in lotta ma anche a portare la testimonianza della condizione di lavoro della Bosch di Bari. La Fiat insegna a tutte le fabbriche italiane il modo di lavoro, la contrattazione a livello sindacale e l’organizzazione di produzione. La Bosch a Bari si è insediata nel ‘96 comprando un settore Fiat che produceva freni. Nel ‘97 comprò da Magneti Marelli il Centro Ricerche, dove hanno inventato il famoso common rail. Le nostre pompe dovrebbero essere montate anche su questi autobus. Ogni tre anni c’erano sgravi fiscali e finanziamenti pubblici, quindi, nulla di nuovo. Nel 2005, raggiunto il top, con livelli occupazionali sulle 2.500 unità, comincia una politica di indietreggiamento. Una volta scaduto il brevetto sulla pompa, cominciano i piagnistei e le crisi aziendali. La direzione chiede tagli al personale, minacciando di spostare tutto all’estero. Partono quindi mobilità in – cen tivate, con grosse somme di de – naro, anche in nero. Io ho lavorato sulla sicurezza. Da quando mi sono ribellato a certi metodi di produzione, l’azienda mi ha subito etichettato, ma nonostante questa situazione i sindacati non mi hanno aiutato, anzi mi hanno fatto la guerra, tanto che nel 2007, dopo la prima cassa integrazione, sono stato silurato e non sono potuto rientrare in fabbrica. Arriviamo ad oggi, con 1.200 persone. In questi anni sono andati via molti giovani, che non hanno più prospettive. In mano è rimasto loro solo un pugno di mosche e l’illusione di aver avuto un gruzzolo di soldi. Poi è arrivato il primo “piangersi addosso”: non siamo più competitivi, diminuiscono gli utili… Tutto questo veniva detto pensando che fossimo degli ignoranti. Si firmò quindi un accordo con flessibilità a scorrimento sul lavoro. Dopo questo accordo, fino a giugno 2008 si è prodotto tanto, ma l’azienda sfruttava la crisi che intanto sopraggiungeva per chiedere la cassa integrazione. Oggi dobbiamo fare i conti con un accordo che traballa da giugno: l’azienda vuole eliminare l’indennità di disagio sullo scorrimento, ridurre le maggiorazioni dei turnisti di pomeriggio e notte con aumento di flessibilità a 21 turni. Non si sa la fine che faremo, ma temiamo che la Rsu firmerà, sotto il ricatto dell’azienda, se – con do cui senza questo accordo ci rimetteranno un sacco di persone. Diverse cose, come vedete, sono si – mili tra Bosch e Irisbus. Continueremo a seguire da vicino la vostra lotta.

 

Dopo la tavola rotonda, la lotta dell’Irisbus si acuisce. L’assemblea dei lavoratori svoltasi qualche giorno prima approva un documento unitario (Fiom, Fim, Uilm, Ugl metalmeccanici, Fismic e Failms), che rivendica la definizione e il finanziamento del piano per la salvaguardia dell’industria nazionale del settore e organizza una manifestazione a Roma per il 21 settembre, per imporre un incontro con la Presidenza del Consiglio. Qualche giorno dopo Di Risio comunica ufficialmente la sua rinuncia alla Irisbus, poiché “il nostro piano di riconversione da autobus a veicoli commerciali è stato accolto con grande conflittualità”. Il 14 settembre Irisbus Italia annuncia l’avvio dell’iter per la chiusura della fabbrica, imputando ai lavoratori di essersi opposti al piano di cessione alla Di Risio. La risposta dei lavoratori è l’indizione dell’assemblea permanente, una quasi occupazione della fabbrica: “Non molliamo, se ci deve chiudere qualcuno meglio che lo faccia la Fiat, non potevamo accettare una soluzione di riduzione e lenta agonia come prospettato dall’ipotesi cessione a Di Risio che prevedeva la riduzione consistente del personale”. Il 21 settembre, di fronte alla sede del ministero dell’industria, dove si tratta il destino della fabbrica, i lavoratori e alcuni dirigenti sindacali della Cgil subiscono la carica di un centinaio di poliziotti in assetto antisommossa. Il governo propone di congelare la dismissione dello stabilimento Irisbus fino al 31 dicembre 2011; la Fiat vincola la possibile cassa integrazione al sì dei lavoratori a Di Risio (che comporterebbe un taglio del 60% degli occupati) e lancia l’ultimatum: o accettate o lo stabilimento chiuderà. La Fiat punta così a riproporre un’operazione stile Marchionne, dividendo i lavoratori con un referendum sul sì al suo diktat, come denuncia puntualmente il comunicato del Pdci irpino, che prospetta l’obiettivo della “nazionalizzazione della fabbrica con gestione da parte dei lavoratori, con approvazione da parte del Governo del piano nazionale dei trasporti e il rinnovo pressoché totale del parco macchine largamente obsoleto ed insufficiente alle esigenze della popolazione”. L’assemblea del 26 settembre, all’unanimità e su proposta di tutte le sigle sindacali, respinge nuovamente l’ipotesi della cessione dello stabilimento a Di Risio e rilancia la richiesta alla presidenza del Consiglio di avocare a sé la vertenza, convocando urgentemente la Fiat, i vertici sindacali nazionali e la conferenza Stato- Regioni per definire il finanziamento del piano nazionale dei trasporti. Indice lo sciopero a oltranza, che bloccherà la produzione residua fino al prossimo incontro col governo: è necessario che la vertenza diventi un’emergenza nazionale. Intanto, la Cgil lancia una raccolta di fondi per gli operai per “per dimostrare concreta solidarietà alle maestranze impegnate da tre mesi in una estenuante iniziative che rappresenta non solo la difesa del proprio posto di lavoro, ma un presidio di democrazia e di tutela dei diritti di tutta la provincia”. Ai primi di ottobre la Fiat avvia le procedure di licenziamento dei 680 lavoratori. per la cessazione della produzione di autobus.

 

Si apre però un’altra prospettiva. La cinese Dongfeng Motor Corporation, che con 50mila dipendenti produce in Canada, Arabia Saudita e Usa, formalizza la richiesta di rilevare l’Irisbus per continuare a produrre autobus, mantenendo gli attuali livelli di occupazione. La Fiat però pone la condizione di non operare sul mercato europeo con i bus prodotti in Irpinia, almeno per i primi anni. La grande impresa Fiat, che per un secolo ha munto miliardi di aiuti dallo stato italiano e che ha oggi la mente e il cuore negli USA, preferisce che si distrugga un’impresa e si rovinino migliaia di famiglie piuttosto che s’installi un concorrente competitivo in Europa.