La scuola delle competenze?

scuola libro competenzedi Alessandro Pascale
da lacittafutura.it

Si è svolto il 14/11/2019 alla Casa della Cultura di Milano un incontro sul tema “Una scuola senza cultura e senza conoscenza? Dalla cancellazione del tema di storia a quella delle discipline”, relatori i docenti Giovanni Carosotti, Vittorio Perego, Marco Cuzzi (UNIMI, Milano), Lucio Russo (Uni Tor Vergata, Roma)

La storia sotto attacco e i progetti ministeriali

Mentre inizia a parlare, Carosotti mostra una dichiarazione dell’Associazione Nazionale Presidi (ANP): “Scuola senza materie, la sfida della scuola del futuro”. Una follia, eppure Andrea Gavosto, presidente della Fondazione Agnelli sulla Stampa porta avanti periodicamente questa campagna, senza contraddittorio.

Secondo Carosotti l’abolizione del tema di storia non è parte di una politica disciplinare ma rientra nell’ambito di un progetto sistematico che va avanti da 25 anni e la cui ultima tappa è la modifica dell’esame di Stato che fa sparire di fatto l’interrogazione sui contenuti disciplinari. I dirigenti ora tendono a imporre ai dipartimenti le programmazioni per macro-argomenti (UDA), che insistono nell’indicazione delle “competenze” più che sui contenuti, suggerendo di ridurre al minimo le lezioni frontali in classe da parte del docente. È la trasformazione delle discipline in discipline trasversali. Che dire poi dell’ultima uscita del ministro Fioramonti che propone di introdurre la “educazione ambientale”? Carosotti spiega che è una cosa che si fa già di fatto, a partire dalle materie coinvolte. Riguardo all’insegnamento di storia e filosofia le indicazioni ministeriali sono portate a vederle come qualcosa che fornisce “pillole”, “spunti per gli studenti”. Quali sono le conseguenze sul lungo periodo per studenti che non conoscono argomenti non trattati dal docente perché non inseribili nelle UDA?

Il documento programmatico che permette di comprendere il progetto politico rivolto a dissolvere le discipline è l’Appello pubblicato sul Corriere della Sera il 14 agosto scorso (L’educazione sfida centrale anche nel mondo produttivo), redatto da un fantomatico “gruppo per la sussidiarietà”, e firmato da rappresentanti di tutte le forze politiche. Carosotti mostra poi un titolo di Repubblica: La Storia vince e torna alla maturità. Un falso. In realtà il tema storico è previsto nella modalità di analisi del testo, come l’anno scorso. In esso resta preponderante la parte di analisi linguistico-argomentativa mentre solo in ultima istanza si chiede il commento allo studente. Il tema non è quindi fondato sul libero pensiero, ma sulla capacità di seguire un percorso guidato dal ministero. Segue la denuncia della strategia mediatica del ministro: parlare con gli storici e non con gli insegnanti; questi ultimi devono solo applicare le indicazioni degli specialisti e dei consulenti del ministero. In linea con quanto detto finora le nuove linee guida della storia per il 2022 prevedono una storia decontestualizzata meramente funzionale alle UDA.

In chiusura segue un appello: gli insegnanti hanno difficoltà a far emergere la propria voce e sono con le spalle al muro senza la visibilità che hanno gli accademici.

Su questi temi, per chi volesse approfondire, Carosotti segnala l’uscita del libro La scuola dell’ignoranza. La tesi di fondo è che l’ignoranza abbia un futuro assicurato a seguito delle politiche scolastiche degli ultimi anni. Da segnalare i saluti all’assemblea di Liliana Segre, che ritiene “importante ripristinare un esplicito tema di storia all’esame di Stato”. La Segre fa notare che finora, nonostante i proclami del ministero, non sia infatti ancora stato introdotto un tema esplicito di storia.

La condizione dell’università

Nella sua relazione Cuzzi, docente di storia contemporanea all’Università Statale di Milano, esprime solidarietà con la battaglia per il ripristino della 3° ora di storia in quinta superiore e del tema di maturità. “Il ‘900 è cruciale”. L’insegnante, dice, è oggi impegnato in prima fila in una “battaglia civile” per costruire i cittadini del domani. L’offensiva riguarda però anche l’università: le accademie tendono a chiedere a tutte le materie umanistiche un immediato riscontro dei saperi da spendere nel mondo del lavoro. Cuzzi riporta poi un sondaggio choc fatto in aula durante le sue lezioni a 200 studenti: “fino a dove siete arrivati al liceo?”.

– Il 98% è arrivato al 1939.
– L’80% è arrivato al 1945.
– Il 30% è arrivato al 1989-91.
– Solo il 5% ha affrontato gli anni ’90.

Il problema che si pone all’università diventa concludere la formazione data al liceo. Non è evidentemente questa la funzione dell’università. I docenti sono così obbligati a fare corsi di storia nozionistici. “Dovrei aggiungere qualcosa in più”, dice Cuzzi, e invece ci si trova ad essere “una seconda linea”. Eppure la nuova generazione ha un forte desiderio di apprendere, “una voglia straordinaria di imparare”. Oltre lacune sulle conoscenze Cuzzi lamenta tra i difetti strutturali anche problemi di carattere mnemonico, di collegamento e rielaborazione; nonostante i proclami del ministero di volerle sviluppare, queste competenze sembrano sempre più assenti tra i giovani. Non si tratta però di una degenerazione antropologica perché “il materiale è buono”.

Ci sono ulteriori ragioni che alimentano tali difficoltà. Uno è un classico problema ‘tecnico’ di ogni studente: l’incubo di far fronte ad una sessione di esami raggruppati in breve tempo, che obbliga ad uno studio superficiale, o a sviluppare un metodo di studio adeguato a far fronte al carico didattico. La questione dell’organizzazione si scontra però con il drammatico problema economico delle famiglie che premono il figlio perché si laurei in fretta; non mancano poi i casi di studenti che arrivano a svolgere anche diversi lavori per pagarsi gli studi, senza aver poi il tempo di studiare in maniera adeguata. La tendenza è quindi di fare in fretta e accontentarsi del fatidico “18”, che nel caso della storia contemporanea non significa altro che avere i rudimenti minimi che si sarebbero dovuti apprendere al liceo.

Cuzzi lamenta infine la netta riduzione delle risorse dedicate agli studi umanistici. Riguardo alla teoria delle competenze porta l’esempio del dipartimento di studi storici dell’università di Milano, uno dei pochi composti interamente da storici purosangue, laddove la tendenza universale nelle università sarebbe quella di trasformarsi in dipartimenti di scienze umane in cui ci sono economisti, giuristi, ecc., meno che storici. I dipartimenti di storia sarebbero diventati insomma delle sorte di “bad bank” in cui entra di tutto. Il non detto di questo discorso di Cuzzi sarebbe quindi lo scadimento del livello scientifico storico degli accademici piazzati nei dipartimenti di storia. Stesso discorso per quanto riguarda il dipartimento di filosofia, ma perfino le facoltà di scienze politiche si stanno trasformando in tante piccole “Bocconi” statali.

L’attacco descritto da Cuzzi è ingente ma sorge un quesito: perché non c’è una reazione nel mondo accademico? La risposta è che prevale la rassegnazione, nonché la difficoltà di far fronte alla mole di lavoro dedicata alla “burocrazia”, che toglie perfino il tempo alla ricerca e alla didattica. Che fare quindi? Non emergono molte indicazioni da parte di Cuzzi, se non quella di non dare pretesti e di evitare “lezioni troppo ampollose” per ravvivare l’interesse verso la disciplina tra gli studenti. Una soluzione un po’ idealistica.

La distruzione dei saperi disciplinari

A seguito di tale quadro Perego ha gioco facile a ricordare il paradosso di 945 parlamentari che, senza alzare una mano per chiedere chiarimenti, hanno approvato la cancellazione del tema di storia. Stigmatizza le intenzione del Ministro dell’istruzione di rimodulare sulla questione dello sviluppo sostenibile le discipline di geografia, matematica, fisica e ridicolizza il programma ridicolmente vasto che è stato previsto per la reintroduzione di educazione civica. Sotto osservazione anche i prossimi emendamenti riguardanti “l’educazione emotiva” (si discute di trasformare l’amicalità e il lavoro di gruppo in discipline curricolari), su cui già non manca l’ironia, non per la questione in sé ma perché già si immagina sia un ulteriore progetto che andrà ad erodere il tempo dedicato alla normale attività didattica. Per Perego questi provvedimenti sono dettati da ideologia e retorica: “Sono convinti che la scuola debba aprirsi al mondo”. Come se non lo facesse già. In conclusione domanda provocatoriamente, ricordando il necessario nesso tra conoscenze e competenze: “Chi ha paura dei saperi disciplinari?” “Sembra che ormai la scuola debba fare tutto tranne che queste cose”. Non c’è però risposta alla domanda posta.

Una lettura materialista del fenomeno

L’intervento di Russo è stato forse il più apocalittico: ricorda che l’attacco non è solo alla storia ma a tutte le discipline: anche la geografia è scomparsa da tempo, ma perfino l’italiano, la matematica (“non si dimostrano più i teoremi al liceo”), le lingue classiche (vd la retorica “contro le traduzioni”). La conclusione è perentoria: “È un attacco alla cultura” in cui si ha l’indecenza di “contrabbandare come tema di storia una parafrasi”…

Russo argomenta: la ‘trasversalità’ invocata dal Ministero necessita di una conoscenza solida delle varie discipline. L’idea è invece di sostituire le discipline con questi argomenti in generale. Il disegno è abbastanza chiaro e, dopo vent’anni e passa di provvedimenti rivolti a questo obiettivo, ha trovato piena conferma con la riforma dell’esame di maturità.

Perché è avvenuto questo? È la prosecuzione di una linea seguita da più di 20 anni non solo dall’Italia, ma da tutto l’Occidente. La sua idea è che sia venuta meno la funzione della scuola secondaria. Sia gli istituti tecnico-industriali sia le scuole professionali fornivano una serie di competenze più o meno tecniche e settoriali. Il liceo serviva a fornire una cultura generale considerata indispensabile per avere competenze di elevato livello. Era chiaramente una scuola riservata a chi faceva poi l’università, diventando la classe dirigente del paese. Un processo che garantiva una certa mobilità sociale, pur con le dinamiche consuete che favoriscono le famiglie più benestanti. In quella scuola la storia era (“ed è tuttora”) una disciplina indispensabile, perché “chi non conosce la storia non può capire il presente”.

Perché però c’è questo masochismo di non volere davvero quelle competenze che vengono invece sbandierate? La ragione è strutturale: con la globalizzazione, dal punto di vista produttivo e tecnologico ci sono state una concentrazione e innovazione tali per cui non c’è più bisogno di un cospicuo ceto dirigente. Non c’è bisogno di avere milioni di persone che sappiano riparare un computer; pochissimi sono in grado di rispondere alle esigenze. Non è necessario quindi sviluppare più tecnici del dovuto in questo e altri settori. Ne consegue un processo di “rarefazione delle competenze in tutti i campi”. All’interno delle aziende diventa più importante l’ambito commerciale, il marketing, rispetto all’ambito creativo e ingegneristico, riservato a pochi. Si è abbassata drammaticamente la richiesta di competenze da parte del mercato e chiaramente non servono elevate competenze per fare il venditore o per lavorare al call center.

La conseguenza è che la mobilità sociale è diminuita invece di aumentare. Una volta esisteva un vasto ceto medio che oggi sta scomparendo, a fronte di una composizione sociale che prevede un’élite ristretta e una massa dequalificata. Oggi ha senso studiare solo se uno vuole capire il mondo in cui vive ma lo studio non ha più la funzione sociale di ascesa che aveva una volta. È comprensibile quindi anche che lo studente non voglia fare fatica per studiare cose che non gli servono.

La richiesta di competenze c’è ancora, ma riguarda una piccola minoranza. Il modello di riferimento sono gli USA, in si trova un 95% di scuole dequalificate e una piccola serie di scuole di alto livello che sfornano i tecnici necessari. Il processo si collega anche al livello nazionale-governativo: si pensi al fatto che l’Italia non ha più una politica monetaria e una diplomazia autonome, quindi non ha bisogno di specialisti (per esempio storici nella diplomazia). Di qui la crisi della cultura, che non è mera erudizione ma parte dall’unione di tante conoscenze specialistiche indipendenti.

Che fare quindi? Anche in questo caso mancano risposte. Per ora c’è la constatazione della decadenza della civiltà occidentale, probabilmente superata in futuro da quelle dell’India e della Cina. La nostra civiltà starebbe vivendo un’involuzione irrazionalistica e anti-scientifica simile a quella verificatasi nel II secolo a.C. nella civiltà greco-romana: “Resistere mi sembra difficile. Sono abbastanza pessimista”. “Occorre cercare isole di resistenza”. Cosa farci di queste isole non è detto, né vengono dati suggerimenti su come trovarle.

Il nuovo regime in costruzione

Urgono alcune riflessioni su questi interventi: il quadro analitico che emerge è quella di una ristrutturazione profonda del settore dell’istruzione. Questa ristrutturazione avviene attraverso una campagna propagandistica che batte sulle tesi “anti-nozionistiche” figlie della protesta del ’68: si sbandiera la volontà di costruire una scuola in cui gli studenti non imparino solo un sapere erudito ma inutile dal punto di vista pratico, spiegando di voler insegnare gli studenti a maneggiare i saperi ottenuti attraverso lo sviluppo delle “competenze”. Questa modalità però impoverisce l’acquisizione delle stesse conoscenze di base, il che rende impossibile esercitare poi competenze adeguate, dato che il possesso delle prime è condizione necessaria per l’acquisizione delle seconde. Su questo tutti sono d’accordo.

Russo aggiunge che tali competenze avanzate continuano ad essere fornite solo ad una stretta élite, verosimilmente quella proveniente dalle famiglie più ricche che possono aiutare i figli nella frequentazione delle scuole e università più solide. Ciò alimenta un sistema semi-castale nei fatti, rendendo sempre più difficile che vi sia un’effettiva mobilità sociale. La conseguenza è che in 10 anni l’Italia ha perso 250 mila giovani che sono andati a lavorare all’estero. In particolar modo è colpito il Sud. Alcune delle migliori menti del nostro paese non vedono altra alternativa che la fuga, dando una risposta individuale ad un problema collettivo di una classe in sé ma non ancora per sé, in quanto per lo più inconsapevole del progetto strutturale che vi è dietro.

Chi rimane, con le sue competenze limitate, affronta la disoccupazione o il precariato, e se proprio va male può usare il reddito di cittadinanza per sopravvivere in attesa che il sistema riesca a riciclarlo in qualche posto da servo moderno. A livello politico ha spesso una cultura ancora superficiale e inadeguata a cogliere le reali contraddizioni della nostra società. L’egemonia culturale è d’altronde saldamente in mano alla borghesia nella nostra epoca, potendo le masse scegliere tra una dialettica costituita da un antifascismo di salsa capital-liberale (PD-M5S) e un populismo dai tratti razzisti e xenofobi (Lega). Entrambe le proposte politiche rimangono salde all’interno di un’opzione social-imperialista, concetto a molti sconosciuto. “L’invisibilità” mediatica dei dati che attestano questa realtà non fa altro che confermarci la potenza di fuoco a disposizione del regime e la difficoltà che sorge nella costruzione di una forza anticapitalista capace di costruire un’opposizione di rilievo, anche sul tema dei saperi

Mi sembra che nelle relazioni non sia emersa l’esplicitazione di questi punti che meriterebbero invece riflessione. Anzitutto manca un collegamento tra l’offensiva subita dal mondo dell’istruzione e quella subita nello stesso periodo (anzi, fin dalla fine degli anni ’70) dal mondo del Lavoro. La scuola neoliberista rientra nel progetto complessivo di una società fondata sulla globalizzazione neoliberista. La revisione dei manuali scolastici e tutte le iniziative politiche più importanti del Ministero e delle istituzioni repubblicane sono funzionali ad un sistematico revisionismo storico che non deve essere scoperto. Gli studenti italiani non devono conoscere i crimini dell’imperialismo occidentale, né cosa sia stato lo stragismo in Italia, né il fatto che siamo tuttora un paese “a sovranità limitata” da parte degli USA, come dice candidamente anche Massimo Giletti (!) negli studi di Lilli Gruber. I giovani non devono avere gli strumenti per capire di vivere in un mondo truccato alla radice. Non devono contestare la costruzione europea né pretendere diritti diversi da quelli che sono stati previsti per loro. Non devono avere gli strumenti per contestare il futuro fatto di disoccupazione, precarietà e sfruttamento.

La demonizzazione del comunismo e di qualsiasi altra versione alternativa al “totalitarismo liberale” attuale sono funzionali all’obiettivo di farne lavoratori privi di un’idea alternativa di società; se poi non saranno pienamente competenti non è importante; basta che siano rassegnati ad essere manovalanza a basso costo. Al limite i più “svegli” saranno pure contenti di andarsene all’estero per cercar sorte migliore, sfruttando le frontiere aperte garantite dall’UE. Questo è il progetto in corso: un piano politico premeditato e criminale. Mi sembra difficile pensare che tra i 945 parlamentari non ce ne siano molti che non abbiano ben chiari questi aspetti, anche perché nella pratica quotidiana fanno sistematicamente gli interessi di Confindustria o dei settori finanziari, ossia della borghesia.

Personalmente ho inquadrato la questione nel sesto capitolo (“L’elogio dell’ignoranza e la distruzione della cultura” del libro Il totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale [1], presentando la nota “ipotesi su come distruggere la scuola pubblica” formulata da Piero Calamandrei nel 1950, mettendola in collegamento con “le ragioni di classe della distruzione della scuola pubblica” fatte da Domenico Losurdo in La seconda Repubblica, confrontando poi i modelli scolastici statunitensi e sovietici. Le considerazioni finali con le proposte costruttive su come agire sono disponibili online: La riforma scolastica necessaria per creare menti critiche e I manuali scolastici della borghesia.

Finora il movimento dei docenti critici è stato trasversale e non ha affrontato tali questioni analitiche che rischiano di essere divisive. A mio avviso non è però possibile ottenere avanzamenti se non si assume consapevolezza che la battaglia fa parte di una guerra più grande, di classe e rivolta contro il complesso della classe lavoratrice, italiana e non. Se l’offensiva è di tali proporzioni, e se il regime dispone del completo controllo dei media e di altre preziose tecniche che ne garantiscono il controllo sociale, occorre interrogarsi sul limite di offrire dettagliati quadri analitici che non sfocino in un’azione politica concreta. Il movimento, e con esso tutti gli studenti e i progressisti, devono cominciare anzitutto ad accettare l’idea di vivere in una forma moderna di regime. Le attuali rappresentanze politiche parlamentari sono totalmente inadeguate, per scelta o per incompetenza, a dare rappresentanza al movimento. Non ci sono ricette facili: occorre ragionare sul livello di analisi raggiunto per capirne i limiti e le possibilità concrete di azione politica da sviluppare, ragionando anche su forme concrete di organizzazione e di lotta. Certamente occorre cercare alleanze nella società civile e nelle forze sociali, politiche e culturali rimaste sane nel Paese, ma bisogna attrezzarsi per una guerra di resistenza permanente. Non c’è tempo per concedersi il lusso della rassegnazione.

Note

[1] Si trova una presentazione generale su Intellettualecollettivo.it.

24/11/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.