L’ILVA tra disastro ambientale e conflitto di potere

di Salvatore D’Albergo per Marx21.it

ilva fumiIllegittimità del decreto ILVA e riferimenti mistificanti agli artt. 41 e 43 della Costituzione

Si sono da poco allentate le attenzioni alla crisi della Fiat, e alla contesa Fiom/Marchionne, che è esplosa con estrema virulenza una contesa tra poteri dello Stato sulla gestione e i destini della più grande impresa monopolistica dell’acciaio – l’Ilva di Taranto – con cui si è squarciato il velo dell’irresponsabilità di un’impresa che denuncia – oltre alla conduzione sempre più criminogena a carico degli interessi sociali e nazionali, intrecciati con quelli della produzione e utilizzo dell’acciaio – la contestuale cronica carenza di una politica industriale, di cui l’economia italiana soffre, specialmente da quando, in combutta con gli Stati dell’U.E., è stata avviata e consolidata la politica delle privatizzazioni.

Una politica dell’acciaio rimessa nelle mani esclusive di proprietari privati senza scrupoli

Se, infatti, in termini episodici oggi la questione produttiva e dell’occupazione ha potuto emergere per iniziativa della magistratura, mossa dalla tutela – insieme – della salute e dell’ambiente, sia “territoriale” di Taranto, sia dell’”ambiente di lavoro”, sarebbe un gravissimo errore se le forze sociali e le forze politiche si rifugiassero in un disimpegno all’ombra della protervia del sistema di “decretazione d’urgenza” con cui il governo c.d. “dei tecnici”- proseguendo una metodologia incostituzionale di cui sino a qualche tempo fa il Presidente della Repubblica si era impegnato a imporre la cessazione, non rifiutando però la firma di decreti che ormai stanno stravolgendo tutta la normativa passata e recente votata dal Parlamento – sta tentando di circoscrivere e ammortizzare un disastro che va ben oltre Taranto, i lavoratori dell’Ilva e gli abitanti della zona.

Il caso Ilva precipita a macchia d’olio in tutto il paese e oltre confine, per le molteplici conseguenze di una politica dell’acciaio rimessa nelle mani esclusive di proprietari e dirigenti che continuano ad operare senza scrupoli, cercando di utilizzare l’avallo improvvisato e arbitrario degli atti di governo unicamente impegnati a contrastare l’autonoma, competente iniziativa di procure e giudici. I quali, dal 29 giugno – e di seguito con la sentenza del tribunale di Taranto (in funzione di giudice del riesame) del 25 luglio – hanno chiamato in causa una serie di reati in esecuzione di un medesimo disegno criminoso con quantità imponente di emissioni diffuse sia all’interno del siderurgico, sia nell’ambiente urbano circostante, nonché con lo sversamento nell’aria-ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, provocando altresì la contaminazione dei terreni con danni per le aziende agricole locali, con l’avvelenamento conseguente all’attività di pascolo del bestiame. Il tutto omettendo di gestire in maniera adeguata impianti ed apparecchiature idonee a impedire i descritti danni.

Gli effetti perversi della privatizzazione dell’ILVA

Quel che va sottolineato in via preliminare e riassuntiva – concernente il ruolo dell’impresa e gli addebiti contestati dal Gip, implicanti il sequestro preventivo dell’impresa medesima – è che il Tribunale, per ogni capo di imputazione, ha testualmente contestato il risalire dei fatti già “dal 1995 sino alla data odierna e in permanenza”, cioè a partire dal giorno della cessione dell’impianto ex-Italsider al gruppo Riva. Il che oggi merita di essere adeguatamente rimarcato, non solo per i titoli di merito acquisiti dall’Ilva sia nella fasi precedenti (1905-1932), che nelle fasi successive all’ingresso nell’IRI (1933-1961) e poi al ritorno in Ilva (1988).

Ciò per meglio inquadrare il giudizio di critica dell’operato del governo Monti, del tutto insensibile al fatto che l’industria siderurgica è stata sempre fondamentale per lo sviluppo del paese. Per questo essa fu inserita nel famoso “piano Sinigaglia” che caratterizzò anche la natura “mista” del capitalismo italiano nella fase di elaborazione dei principi economico-sociali della Costituzione del 1948: donde la costruzione del “quarto polo siderurgico” a Taranto e la conquista del ruolo più significativo tra le imprese a partecipazione statale, come conferma nel contempo la natura della partecipazione italiana alla CECA, la Comunità che ha preceduto il compendio di istituzioni fondate via via nei Trattati Europei.

In tale contesto è essenziale annotare che la sentenza che ha scatenato le reazioni dell’impresa e del governo non è un episodio isolato: è stata preceduta da altre pronunce nel 2002, nel 2005 e nel 2008; sì che nella recente sentenza del Tribunale non ci si è potuti esimere dal rilevare, sulla scorta dei precedenti, che “non è pensabile che la tipologia di emissioni – protrattasi per ben diciassette anni – non abbia determinato alcun inquinamento”, che invece dovrebbe essere ricondotto, secondo la prospettiva difensiva, “esclusivamente alla passata gestione”!

Arbitrarietà e organica illegittimità del decreto del governo per l’ILVA

A fronte di tutto ciò il governo – a parte il ricorso indebito all’abusato metodo della decretazione di urgenza – non solo ne ha violato i presupposti di urgenza, intervenendo dopo quattro mesi dalla sentenza che ha confermato il sequestro preventivo, ma, nel merito, ha usato argomenti e strumenti abnormi, con l’intento conclamato – anche con un emendamento proposto nell’iter che precede l’intervento delle Camere – di precludere la stessa operatività della sentenza.

Infatti, già nel “preambolo” del testo primitivo del D.L. 3/12/2012 n. 217 – in cui si tace sulla situazione giuridica in atto a Taranto e si enuclea arbitrariamente l’”autorizzazione integrata ambientale” (AIA) come unico atto giuridico idoneo a far proseguire l’attività di uno o più stabilimenti (sia con riguardo a quella precedente in data 4 agosto 2011, sia a quella futuribile attribuita alla competenza del Ministero dell’ambiente) – si riconosce la necessità di una immediata rimozione delle condizioni di criticità esistenti. Ma poi, in modo contraddittorio, si accenna alla continuità del funzionamento produttivo dell’Ilva, omettendo ogni riferimento alle attuali e prospettiche condizioni gestionali dell’importante monopolio dell’acciaio, nel momento stesso in cui si è intitolata ai “prevalenti profili di protezione della salute, di ordine pubblico, di salvaguardia dei livelli occupazionali” la declaratoria sulla “priorità strategica di interesse nazionale” riferita alla continuità del funzionamento produttivo astrattamente previsto senza riguardo allo stabilimento siderurgico Ilva.

Affidata così la soluzione del caso ILVA a un gioco semantico volto ad eludere le questioni connesse alla politica industriale di un’impresa ad alta intensità di capitale come quella dell’acciaio, che coinvolge una vasta articolazione di imprese in altre regioni del paese e all’estero, e relegata la citata e ripetuta formula di stile in dipendenza diretta e permanente dalle scelte industriali che hanno provocato un “disastro ambientale” di rilevanti dimensioni, “peraltro tuttora in atto” (area parchi minerali, area agglomerato, area altoforno, area acciaieria), il decreto n. 207, dopo un così farraginoso “preambolo”, ha attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri il compito di identificare “il caso” di stabilimento di interesse nazionale con riferimento a un numero “non inferiore a 200 lavoratori occupati”, peraltro facendo sempre leva sul Ministro per l’ambiente per l’autorizzazione integrata ambientale (AIA) necessaria alla prosecuzione dell’attività produttiva per un periodo non superiore a 36 mesi, prevedendo quindi, in caso di mancata osservanza delle prescrizioni, una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10% del fatturato.

Ma ciò posto, mentre nei commi 1 e 3 dell’art. 1 del decreto nulla traspare innovativamente dal ripetuto uso della formula “interesse strategico nazionale” che vada oltre il nesso tra motivi della conduzione dell’attività produttiva e tutela dell’ambiente, della salute, dell’ordine pubblico e dei livelli occupazionali, nel comma 4 del medesimo art. 1 si è puntato a vanificare i provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa che nel frattempo l’autorità giudiziaria aveva adottato, come infatti era già avvenuto, sì da ovviare all’inerzia totale degli organi politico-amministrativi dello Stato. I quali pretendono ora, con la tardiva emanazione del decreto-legge, di interporsi in senso preclusivo/interruttivo dei provvedimenti già operanti per la necessità, rivelatasi ormai impellente, di ovviare al disastro ambientale, risalente da tempo alla responsabilità del proprietario e dei dirigenti dell’Ilva. E fondano tale pretesa sull’affermazione apodittica secondo cui “in tal caso” i provvedimenti di sequestro “non impediscono nel corso del periodo di tempo indicato nell’autorizzazione, l’esercizio dell’attività di impresa”. È un esempio lampante di arbitraria sopraffazione da parte del governo delle attribuzioni per se stesse incontestate, stante la provvidenzialità degli atti posti in essere dei giudici, appartenenti a un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere (articolo 104 della Costituzione).

Uso strumentale e ambiguo della formula “interesse strategico nazionale”

Ora, a parte quanto potrà sostenersi in sede di “conflitto di attribuzioni” dinanzi alla Corte Costituzionale da parte dei giudici invasi nelle loro attribuzioni, va pregiudizialmente sollevata una questione di legittimità del decreto (e della relativa legge di conversione), in quanto non è consentito ritenere che formule come quella adottata nel decreto n. 207 nel parlare di “interesse strategico nazionale” abbiano o un mero valore “enfatico”, o, all’opposto, possano legittimare una forma di “sur-valenza”, tanto più in caso di decreto legge, che già come tale, ove ne ricorrano i presupposti, ha la forza di innovare che manca sia alla legge che al decreto delegato.

Sicché, d’altro lato, non si può non cogliere nella sopravvenuta declaratoria sulla “strategicità” invocata dal governo e (a quel che un docente ha riferito) soprattutto dal Presidente della Repubblica, l’obiettivo duplice: quello contingente, di frapporsi al potere dei giudici già in atto e, quello più ampio, di dar vita a una “categoria di imprese” inquadrabile a futura memoria in tale ambito qualificatorio, privo di presupposti reali nella politica di governo, e nel “caso Ilva”.

La questione è censurabile soprattutto perché la declaratoria in oggetto è riferita in modo specifico a imprese in “crisi”, senza motivare la natura di un fenomeno che sarebbe arbitrario circoscrivere ad una sia pur grande impresa monopolistica come l’Ilva, i cui dirigenti sono “rei” (sino al giudizio definitivo) di un disastro ambientale e della salute clamorosamente in atto per il lungo periodo che decorre dalla sua privatizzazione, dovendo addebitarsi all’Ilva la crisi di una serie di valori concernenti ed avvolgenti la società civile: tanto che un “comitato di cittadini liberi e pensanti” ha preso iniziative che convergono con l’esigenza ravvisata dalla magistratura di porre riparo alle cause del disastro, non avendo i dirigenti dell’Ilva speso (a quel che risulta) alcun argomento volto a denunciare l’urgenza di uscire da una situazione non paragonabile alla crisi industriale nei termini già noti al legislatore sin dalla fine degli anni ‘70, quando (non solo in Italia) si affacciarono esigenze di “agevolazione” per ovviare a dissesti aziendali che mettevano in pericolo il tessuto economico nazionale.

Ma nel caso dell’Ilva non sono stati accampati dall’impresa né dal governo motivi circostanziati di esigenze di “risanamento” per ovviare al ripercuotersi di alterazioni diverse da quelle connesse all’ambiente inquinato. È infatti del tutto incoerente e capziosa la menzione (nel citato “preambolo” del D.L. n. 207) del D. L. 7.8. 2012, n. 291, che ha attinenza ad altra materia: “riconversione e riqualificazione produttiva di aree di crisi industriale complessa”2. Donde la pretestuosità, appunto, della qualifica introdotta per arrestare l’operato del Tribunale nei già richiamati termini di “stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale”, la cui applicazione concreta richiede oltretutto – a causa della “crisi ambientale”, e non “industriale” – l’individuazione con decreto del Presidente del consiglio dei ministri (articolo 1 del D.L. n. 207).

Siamo quindi di fronte ad un sofisma volto a rovesciare la natura del rapporto fra l’Ilva, Taranto città e operai. Lo prova il fatto, documentato in sede parlamentare, dell’avvio del processo di privatizzazioni, con la trasformazione di enti pubblici economici in “SPA”. Esso fu perseguito come “obiettivo di carattere strategico esso stesso”, come si legge nella “Nota illustrativa della Commissione Cappugi” posta alla base del D.L. n. 386/19913. Inoltre, in base alla legge numero 359/92, si parlò per la prima volta di attribuire alla presenza pubblica in situazioni di monopolio di fatto un “diritto aggiuntivo” simile alla “golden share”, con un riferimento implicito ripreso nel D.L. n. 332/944, laddove fu previsto che i “poteri speciali” da attribuire al Ministro del Tesoro tenessero conto “degli obiettivi nazionali di politiche economiche industriali” (art. 2).

Come si vede, le questioni, pur nella varietà delle situazioni verificatesi, seppure facciano intravedere sinonimie, richiedono rigore di analisi, anche tenuto conto del mutare degli indirizzi politico-legislativi per il succedersi di maggioranze parlamentari di opposte vedute. Sicché non v’è ora da sorprendersi nel constatare che con D.L. n. 90/2008, allo scopo di localizzare i siti individuati per lo smaltimento dei rifiuti, il governo dell’epoca ha provveduto a dotare tali siti di uno speciale regime giuridico, qualificandoli come “siti di interesse strategico nazionale”. Così lo stesso governo Monti, pochi mesi prima di emanare il D.L. n. 207 qui criticato, nel D.L. n. 83/2012 recante misure urgenti per il paese, è ricorso a formule analoghe, parlando di “linee di indirizzo strategico per assicurare la ripresa socio-economica del territorio comunale” (art 10 n. 11); di “promozione di progetti di ricerca, sviluppo e innovazione di rilevanza strategica” per il rilancio della competitività del sistema produttivo (art. 23 n.1 sub a); di infrastrutture “strategiche” (art. 57 bis) e di insediamenti “strategici”, con richiamo alla legge 239/2004, individuando così aree di “crisi industriale complessa con impatto significativo sulla politica industriale nazionale” (art. 27, n. 1-3).

Riferimento mistificante agli artt. 41 e 43 della Costituzione

Ma quel che riassume, pur nella sua specificità, i motivi di organica illegittimità del D. L. n. 207, è la pretesa del governo di dislocare con maggiore compiutezza il provvedimento che abusa del concetto di “crisi” adombrante motivi di interesse nazionale per sanarli, ponendo a supporto di tale fantomatica ipotesi strategica gli articoli 41 e 43 della Costituzione.

Il primo, nel caso specifico, può esser chiamato in causa solo per il secondo comma relativo ai danni dell’impresa arrecati alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana di cittadini e lavoratori; mentre il secondo attiene solo al “trasferimento allo Stato, enti pubblici o a comunità di utenti o lavoratori di imprese” (come l’Ilva) “che si riferiscono a situazioni di monopolio” e non ad altro tipo di potere.

È una mistificazione provocatoria assolutamente inaccettabile: si usa fraudolentemente una norma costituzionale che invece, può essere invocata – a fini disocializzazione/nazionalizzazione – dalla popolazione e dal complesso di spezzoni di classe operaia su cui incombe quotidianamente l’effetto perverso del disastro ambientale maturato in regime di privatizzazione dell’Ilva.
Ancor più mistificante è il testo del decreto quando abilita il “garante”5 a proporre “eventuali provvedimenti di amministrazione straordinaria” in considerazione degli artt. 41 e 43 della C., abusando di una menzione priva di fondamento se adottata per obiettivi diversi dal trasferimento della proprietà dell’Ilva agli unici soggetti necessari per attribuire alla collettività compiti di coerente gestione della produzione dell’acciaio a fini di utilità generale ed avente carattere di preminente interesse generale.

E in proposito, infatti, l’art. 43 può consentire di allargare il dibattito di questi mesi sui c.d. “beni comuni”, che, mirando a dequalificare la tradizionale concezione del “bene pubblico”, ha bensì chiarito come affrontare l’esigenza di immunizzare i beni “dell’umanità” da illecite speculazioni di interessati gestori dell’esercizio dei poteri inerenti tali categorie di beni destinati a funzioni sociali. Ciò non ha giustificato il silenzio che è caduto sui beni privati, che inaspettatamente una Commissione preposta alla riforma del regime dei beni ha evitato però di sottoporre ai principi operativi dell’art. 42 della Costituzione entrata in vigore già dal 1948.

Soprattutto, si dà ora il caso di approfondire la costruzione dell’istituto delle comunità (utenti e/o lavoratori), che la dottrina ha sempre trascurato, e che ora sembra munita di alcuni dei presupposti elaborati a proposito dei “beni comuni”, per disciplinare anche “beni collettivi”, perché legittimamente sottratti alla gestione di imprenditori privati senza scrupoli, come il caso di Taranto ci ripropone ancora drammaticamente.

NOTE

1 Convertito in L. 4. 10. 2012, n. 171.

2 Cfr. art. 27 del D.L. 22/6/2012, n. 83 (convertito in L. 7.8.2012, n. 134), a sua volta attuato con D.L. 7.8.2012, n. 129 con riguardo “all’area industriale di Taranto”.

3 convertito in L. n. 35/2.

4 convertito in L. n. 474/1994.

5 La nomina del garante è prevista nell’art. 3 comma 2 per vigilare sull’attuazione del decreto.