Ripartiamo dal «no» a Monti

di Giorgio Cremaschi | su il Manifesto

 

cremaschiMi dispiace tanto, ma questa volta non sono proprio d’accordo con il mio amico Marco Revelli. Io non bacio il rospo e mi preparo a fare tutto quel che mi è possibile per mandarlo via. Confesso che non sono sceso in piazza con la bandiera tricolore per festeggiare la caduta di Berlusconi. Ho passato questi ultimi 17 anni a combattere Berlusconi, la sua cultura, le sue prepotenze. Prima ho fatto lo stesso con il suo maestro Craxi. Eppure la sera del 12 novembre non l’ho sentita come una liberazione. I paragoni storici che si stanno facendo mi paiono fuorvianti. Come Revelli non vedo nessun 25 aprile in atto. Non mi risulta che il governo di allora fosse di larghe intese tra Cln e Repubblica sociale. Ma non vedo nemmeno un chiaro 25 luglio, se non per l’annuncio del governo Badoglio: «La guerra continua». Se proprio si deve ricorrere ai paragoni storici, bisogna tornare all’Europa del 1914. Al suicidio di un continente nel nome della guerra e del nazionalismo, e alla corrispondente dissoluzione di gran parte della sinistra socialdemocratica e dei sindacati. Oggi per fortuna non siamo a quel punto, ma è sicuramente in atto un suicidio e una dissoluzione dell’Europa e della sinistra in essa. La guerra del debito, scatenata in tutto il continente, sta mettendo in crisi democrazia e conquiste sociali. Tutti i governi europei sono soggetti alle stesse scelte e agli stessi indirizzi economici. Poi, benignamente, questa tirannia finanziaria ci concede la facoltà di accettarla. Ma non si può dire di no. A me tutto è più chiaro da quando Marchionne disse agli operai di Pomigliano che se volevano lavorare, nell’epoca della globalizzazione, dovevano rinunciare a tutti i loro diritti. E aggiunse che potevano solo votare sì al referendum sul suo diktat, perché il no avrebbe comportato la distruzione dell’azienda. Marchionne, fino a poco tempo prima incensato come borghese illuminato, così come oggi Monti, ottenne il consenso pressoché unanime del parlamento italiano. Il governo Monti è espressione diretta del grande capitale italiano e internazionale, con suoi intellettuali organici di valore. È la prima volta che questo avviene nella storia della nostra repubblica ed è sicuramente un segno della crisi totale della classe politica. In questi venti anni il padronato italiano ha alternato politiche di rottura populista e politiche di concertazione democratica. L’obiettivo era sempre lo stesso: contenere il salario ed estendere flessibilità e precarietà, allargare la sfera del profitto con le privatizzazioni. Quando le condizioni lo permettevano e si sentiva particolarmente forte, il padronato italiano ricorreva a Berlusconi e alla destra. Se la risposta sociale e politica cresceva, allora si tornava alla concertazione. Quest’ultima ammorbidiva le scelte, le rallentava, ma non ne fermava la direzione di fondo. La novità è che oggi il sistema economico dominante salta qualsiasi mediazione politica, non si fida più non solo di Berlusconi, ma anche dell’opposizione e decide di agire in proprio. Altro che governo tecnico, questo è uno dei più politici e ideologici tra i governi della repubblica. È il governo che più nettamente sposa l’ideologia neoliberale. La crisi economica mondiale ha travolto la ridicola classe politica italiana. Sarà un puro caso, ma tutti i paesi piigs sono stati posti rapidamente sotto controllo. Se si fossero messi assieme, se avessero fatto una comune politica del debito, come i paesi dell’America Latina, banche tedesche e Fmi sarebbero dovuti venire a patti. Anche a me fa piacere la sobrietà e lo stile del nuovo governo, contrapposto ai nani e alle ballerine, ai bordelli, alle barzellette che facevano piangere, al degrado culturale e civile che ispirava quello precedente. Tuttavia la mia esperienza sindacale mi ha insegnato che il padrone per bene può farti molto più male del padrone sfacciato e impresentabile. Questo governo ha un mandato chiaro, quello della Bce. È il mandato di quel capitalismo internazionale che pensa di affrontare la sua stessa crisi con riforme neoliberali, come negli ultimi trent’anni. Con la solita ipocrisia dell’equità e del rigore si mettono in discussione ancora una volta le pensioni dei lavoratori, la tutela contro i licenziamenti, i contratti, i diritti punto e basta. Si risponde al referendum sull’acqua con le privatizzazioni e si annuncia quella mostruosità giuridica ed economica del pareggio di bilancio in Costituzione. Si risponde agli studenti in sciopero esaltando la riforma Gelmini. Sì, certo, la sobrietà del governo produrrà dei contentini. Un po’ di privilegi di casta politica verranno tagliati, ma solo per giustificare i sacrifici sociali. Si annuncia che non ci sarà massacro sociale. Ma questo è già in atto. Sono la crisi e la recessione che stanno producendo una drammatica selezione sociale. Il governo può anche non volere il massacro, ma se opera con riforme neoliberali lo agevola e lo accresce. È la ricetta neoliberista che è destinata a fallire. Perché non si riuscirà, per quanti sacrifici si impongano, a far ripartire il meccanismo della globalizzazione. Per questo sarebbe necessario prendere atto della crisi di sistema, cosa che Monti nella sua relazione programmatica si è ben guardato dal fare. E costruire una vera alternativa. Il debito non può essere pagato da un’economia in recessione, pretendere di farlo a tutti i costi significa aggravare la recessione e appesantire il debito. È successo alla Grecia e succederà all’Italia, nonostante la professionalità di Monti. Bisogna partire dall’opposizione al nuovo governo per costruire un’alternativa economica, sociale e politica al programma della Bce e del capitalismo internazionale. Sarà dura, ma si riparte dal no a questo governo.