Una nuova fase politica per la ristrutturazione capitalistica: i vincitori e i perdenti

cartelloni elettorali vuotipubblichiamo l’editoriale di Bruno Steri del n.7 di Ragioni&Conflitti

di Bruno Steri

Nei siti, nelle riviste e nelle dichiarazioni di esponenti della sinistra di classe c’è un giudizio univoco e assai preoccupato sul governo di Mario Draghi e sul salto di qualità che esso rappresenta sulla scena politica del nostro Paese (e non solo). La biografia politica dell’attuale Presidente del consiglio non autorizza dubbi sulla sua autorevolezza e sul fatto che essa possa perfino esser giocata con profitto per l’Italia al tavolo della ripartizione dei costi e dei benefici tra i Paesi dell’Occidente capitalistico. Non a caso, tale credibilità è stata subito fiutata da tutta la stampa mainstream che ha salutato in un sol coro il successore di Giuseppe Conte con il tripudio che si riserva ai “salvatori della patria”. Il fatto è che, per assolvere ardui compiti, occorrono personalità forti e all’altezza della bisogna: tale è la necessità dell’attuale contesto politico-storico, se è vero che già nel 2020 il nostro Paese ha visto ridursi del 9% la sua ricchezza nazionale, chiudere centinaia di migliaia di piccole imprese, perdere mezzo milione di posti di lavoro. Questa è l’entità del dramma sociale determinato dall’onda lunga della crisi capitalistica e acuito da un’emergenza pandemica che, solo entro i nostri confini, ha fatto superare l’apocalittica soglia di 100 mila vittime. La parola d’ordine di cui lo stesso Draghi si fa promotore è: investimenti e non assistenza. Ciò sta a significare che la ristrutturazione del sistema produttivo non sarà un pranzo di gala. 

E’ bene annotare che, sotto la spinta della crisi capitalistica, agiscono improrogabili esigenze oggettive. Su tutte campeggia la cosiddetta “transizione ambientale” o, più enfaticamente, la necessità di una “rivoluzione verde”: non semplicemente protezione dell’ambiente ma profonda trasformazione della produzione energetica. Le maggiori potenze mondiali, compresa l’Unione europea, si sono adeguate alla prospettiva di giungere compiutamente entro il 2050 all’azzeramento della produzione di CO2, con il contestuale passaggio alle energie rinnovabili e all’idrogeno, nonché all’elettrificazione delle attività industriali e dei trasporti. Solare, eolico, bioenergia: si tratta certamente di settori che necessitano di determinate competenze tecniche ma che comunque non si presentano chiusi a nuovi ingressi imprenditoriali. Del resto, il modello sociale imperante ci dice che la convenienza pratica aiuta in modo determinante la spinta etico-ideale; e i rilievi statistici presentano in proposito confortanti conferme: le nuove fonti di energia offrono la possibilità di apprezzabili profitti sul lungo periodo, con rischi contenuti per i relativi investimenti. Gli stessi giganti del settore che sin qui avevano privilegiato i combustibili fossili, le Big Oil Company, hanno recepito il messaggio di un mercato che si prepara a prendere le distanze dalla produzione di petrolio e gas, “colpevole della maggior parte delle emissioni di CO2 del pianeta” (come leggiamo nello studio di Kairos, società di gestione del risparmio del gruppo Julius Baer): così Shell, Total, British Petroleum, Eni nel 2020 hanno considerevolmente incrementato gli investimenti in Green Economy

Non per caso quindi Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia, qualche giorno fa dichiarava: “Noi abbiamo indicato l’ambiente come la priorità del Recovery Plan, con almeno il 37% obbligatorio degli investimenti per il clima”. E’ questo uno dei temi salienti della ristrutturazione industriale, benché non sia l’unico: ad esempio, un’altra delle condizioni stabilite dal Next Generation Eu è che almeno il 20% dei 750 miliardi di euro resi disponibili (209 per l’Italia) sia destinato al riassetto digitale. Tuttavia non si tratta meramente di questioni tecniche sollecitate da esigenze obiettive. In gioco ci sono consistenti interessi di classe, conflitti di potere interni alla classe dominante e durature configurazioni dello sviluppo capitalistico. Se “ i ristori non fanno ripartire l’economia” e “i bassi tassi di interesse sono un palliativo”, come avvertono gli entusiasti del nuovo governo, resta da chiedersi: chi deve distinguere e come si deve distinguere tra singoli settori o singole imprese? Stante il fatto che si vuole intendere il Recovery come un momento “trasformativo” in direzione di una maggiore efficienza, chi e come verranno scelti i vincitori, le aziende con potenzialità di crescita, e i perdenti, le aziende giudicate decotte? E, a proposito di piccole e medie imprese (PMI), quando ad esempio si annota criticamente che 36 mila strutture alberghiere sono nelle mani di 34 mila proprietari, evidenziando la conseguenza che questa polverizzazione della proprietà determina “pochi investimenti in un settore vitale”, cosa esattamente si propone per questi “perdenti”? Da ultimo – ma per noi in primissimo luogo – che fine faranno i lavoratori? Saranno dalla parte dei vincitori o dalla parte dei perdenti? Purtroppo non abbiamo dubbi sulle propensioni del governo Draghi.

A dare risposta alle suddette domande non sarà una tranquilla e bonaria chiacchierata tra amici: il contesto della contesa è infatti quello rappresentato dalla giungla di interessi e privilegi propri della società capitalistica. Per averne un assaggio, si può leggere lo sconsolato allarme di Paolo Zabeo, direttore dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre CGIA: “Il bazooka messo in campo dall’ex premier Conte non è riuscito ad aggredire con successo la cronica mancanza di liquidità che storicamente assilla in particolare le PMI. Solo un quarto delle garanzie messe a disposizione dallo Stato tramite Sace e MCC è finito nelle casse degli imprenditori, mentre si sono avvantaggiate le banche”. Le quali, infatti, hanno semplicemente trattenuto le risorse affluite così da compensare vecchi prestiti e scoperti di conto. Nulla di nuovo sotto il sole. Con il perdurare della crisi si esaspera la guerra di tutti contro tutti, il cui esito finisce per penalizzare la parte socialmente più debole: a meno che questa non imbocchi con determinazione la strada di una lotta vincente invece che quella di una concertazione puntualmente perdente.

Invero, la strada intrapresa dall’Unione europea e, in essa, dal governo italiano è tutt’altro che tranquillizzante. Il 16 febbraio scorso la signora Ursula von der Leyen, a nome della Commissione europea, ha affidato la supervisione del programma di Green Economy per l’Europa alla compagnia finanziaria statunitense BlackRock, una delle massime espressioni del potere capitalistico mondiale. Si tratta di una mega-società finanziaria privata che investe capitali nel mondo, controllandone la distribuzione: il totale delle risorse investite nei vari settori supera i 3 trilioni (3000 miliardi) di dollari. Assieme ai tre investitori istituzionali che detengono quote del suo pacchetto azionario (Vanguard Group, State Street, Fidelity Investments), BlackRock arriva ad un capitale equivalente al 25% del Pil mondiale. Lawrence Douglas Fink, presidente di BlackRock, ha recentemente dichiarato: “La vera libertà si esercita attraverso il mercato, non attraverso le elezioni (…). Il mondo, l’economia, la politica dovrebbero esser gestite da chi è capace, da chi sa. Se un Paese non è in grado di gestire la propria economia, arriviamo noi”. E in effetti, con le suddette intenzioni, lorsignori sono arrivati anche in Europa: Black Rock deciderà quindi per il nostro continente quali imprese siano ecologiche e quali no, quali chiudere e quali finanziare. E, ovviamente, quali debbano essere le più “efficienti” politiche del lavoro. 

Su questa medesima linea di condotta, com’è noto, Mario Draghi non è stato da meno.  Già un mese prima di esser nominato Presidente del Consiglio, egli aveva presentato un documento al G30 (associazione internazionale fondata nel 1979 dalla Fondazione Rockefeller che riunisce i principali finanzieri e accademici del mondo capitalistico), in cui anticipava i punti nodali di quello che avrebbe potuto essere il suo programma di governo: lasciare al loro destino le “imprese zombie” e imporre una ristrutturazione della produzione industriale all’altezza del mercato mondiale, con al centro i temi della digitalizzazione e della Green Economy da porre sotto il controllo di private compagnie globali. Detto fatto. Il governo italiano ha firmato un contratto con la società di consulenza internazionale McKinsey per dare un “supporto tecnico-operativo di project-management “ al Recovery Plan. Bene ha fatto la rivista comunista ‘Contropiano’ a puntare i riflettori su tale questione e a puntualizzare ciò di cui stiamo parlando: “(Secondo la pagina web Startmag.it) McKinsey è diventata un governo ombra , non soltanto negli Stati Uniti, che consiglia alle grandi aziende come interagire con i governi, ai governi quali servizi esternalizzare alle aziende, agli investitori in quali aziende investire, con tutti gli inevitabili conflitti di interesse che ne derivano”. Non può sorprendere la preoccupazione autorevolmente espressa in proposito su ‘il manifesto’ da Massimo Villone, anche davanti all’eventualità che la versione finale del Recovery possa non passare per l’approvazione del Parlamento. Da qui la sua messa in guardia: “Sono indispensabili due cose. La prima, che sia noto il carteggio con la McKinsey concluso con la consulenza. La seconda: che sia noto il report che la McKinsey consegnerà. Il ministero renda tutto pubblico sul suo sito. Il parlamento avanzi una richiesta in tal senso”.

Per concludere. Secondo l’orientamento generale che è proprio dello stesso Draghi, si è sempre ritenuto che premiando i profitti, qualche provvidenza sarebbe arrivata, attraverso gli investimenti, anche verso il basso della gerarchia sociale: è la famigerata “teoria dello sgocciolamento”, secondo cui arricchendo i ricchi si garantisce qualche “goccia” anche ai poveri. Purtroppo la storia dice che si tratta di un imbroglio: dappertutto, con tali premesse, l’unico risultato ottenuto è stato unicamente l’aumento della ricchezza per pochi privilegiati e un generale peggioramento per il resto della popolazione. In tema di prelievi fiscali, nel nostro Paese abbiamo assistito al progressivo ridimensionamento dell’aliquota massima richiesta a chi ha di più: nel 1974, quando è entrata in vigore la riforma Visentini, tale aliquota era del 72%; oggi è precipitata al 43%, a beneficio di profitti e rendite. In questi giorni, Draghi ha ripreso a parlare di riforma fiscale: c’è da rabbrividire al pensiero che della sua maggioranza di governo fa parte la Lega di Salvini, promotrice di un’ipotesi di riforma fiscale all’insegna della “tassa piatta”. Anche ammesso che una tale proposta non passi come tale, non crediamo di andar lontano dal vero se immaginiamo che la mediazione di Draghi potrebbe implicare un’ulteriore ammorbidimento dell’aliquota fiscale massima. 

Anche per questo è urgente organizzare un’opposizione contro l’attuale governo. In questa prospettiva, noi comunisti ostinatamente riproponiamo una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Beninteso, non è il socialismo; ma è almeno un passo avanti nel contrasto all’arroganza padronale e allo sfruttamento capitalistico.