Storia del Porto di Trieste

1PortoTrieste MariaMorigi image001

Riportiamo un interessante intervento di Maria Morigi che ricostruisce la storia del porto di Trieste. Particolarmente importante è l’analisi degli ultimi sviluppi, che in nome di un improvvisato sovranismo anti-cinese hanno visto il porto passare sotto l’influenza tedesca

di Maria Morigi

da http://www.civg.it

Il 18 marzo 1719 l’imperatore austriaco Carlo VI istituì il regime di Porto Franco, che avrebbe dato a Trieste un ruolo come crocevia di trasporti marittimi e via terra nel corridoio del Mare Adriatico: una scelta politica che fece di Trieste l’affaccio dell’impero asburgico sul mare.

Con le patenti del 1745 e del 1769 Maria Teresa d’Austria confermò la natura di Porto Franco, ampliandone i privilegi (assenza di dazi) per i beni di consumo destinati alla città e al suo territorio, per l’importazione di materie prime e l’esportazione di prodotti dalle fabbriche triestine verso le province dell’impero. Con la Pace di Vienna del 1809, il porto passò sotto la dominazione francese, ma fu riguadagnato al governo austriaco dopo la sconfitta di Napoleone e la Pace di Parigi del 1814. Nella seconda metà dell’Ottocento l’importanza del porto triestino aumentò grazie al collegamento ferroviario con Vienna e in seguito all’apertura, nel 1869, del Canale di Suez. Gli ampliamenti continuarono in modo intermittente fino all’apertura nel 1967 dell’oleodotto transalpino (Trieste- Ingolstadt) gestito dal Gruppo TAL e, negli anni Settanta, dal completamento del terminal contenitori. 

Benché ai sensi del Trattato di Parigi (1947) fosse riconosciuta al porto l’extraterritorialità (si accede passando una dogana, in quanto zona “internazionale”), dopo la fine della guerra le sorti del porto risentirono negativamente dell’adesione al Piano Marshall che per decenni ha dettato l’agenda delle priorità di sviluppo dei porti italiani. Ciò ha avuto delle pessime conseguenze.

Nel 1966 a seguito di scioperi e mobilitazioni contro la chiusura del Cantiere Navale S. Marco, (intervenne la Celere di Padova con arresti e pestaggi!), il cantiere fu smantellato e seguì la chiusura dei Cantieri S. Rocco e Felzegi di Muggia. La città di Trieste non può prendere alcuna decisione, ma si devono seguire i programmi dettati dagli interessi mitteleuropei (vedi oleodotto TAL, iniziato nel 1964).

Un succedersi di Autorità portuali, prive di una visione organica sulle potenzialità del porto e carenti in progetti operativi, hanno segnato un vistoso declino. Hanno anche relegato il porto ad una posizione dipendente dagli orientamenti politici governativi nazionali, i quali non consideravano che la trasformazione industriale con maggior automazione dei terminal e il regime di Porto Franco avrebbero potuto creare valore aggiunto all’economia triestina e nazionale.  Infatti, le zone franche portuali sono particolarmente attraenti, sia per l’insediamento di nuove industrie e servizi, sia per il “reshoring” cioè il rientro di imprese precedentemente delocalizzate.

Eredità ancora pesante (e problema di fondo) rimane oggi il non riconoscimento da parte di Roma dell’extraterritorialità del porto. Un’assenza della politica nazionale che ha condotto il 24 luglio scorso il Consiglio Regionale a convocare per un’audizione il Presidente dell’Autorità di sistema portuale del mare Adriatico orientale, Zeno D’Agostino. Ne è seguita una mozione di richiesta a Roma di piena attuazione del regime di Porto Franco appoggiata da tutte le forze politiche[1]

La situazione fino ad oggi

A trent’anni dalla fine della divisione bipolare dell’Europa, il porto sembra essere uscito da un lungo letargo. La rinascita è dovuta all’interesse di operatori di livello globale e all’efficienza dell’attuale Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale.

Lo scalo, unico nell’Adriatico dotato di fondali naturali di diciotto metri che garantiscono la movimentazione di navi transoceaniche e collegato efficientemente alla rete ferroviaria e stradale europea, si trova al crocevia di due dei principali corridoi logistici – quello che collega Baltico e Adriatico e quello mediterraneo–. Gode, quindi, di caratteristiche funzionali e previlegiate per la connettività internazionale, operando sulla più grande autostrada del mare tra Turchia ed Europa con traghetti che collegano a Durazzo, Istanbul e Mersin. Lo sviluppo intermodale integrato della piattaforma logistica (componente marittima + trasporto su ferro) ha accresciuto le potenzialità commerciali (+63% di traffico ferroviario dal 2015 al 2019). Il traffico container è utilizzato dalle maggiori compagnie mondiali (secondo porto-container nell’Adriatico dopo Capodistria). 

Dal 2014 è stato oggetto di crescente interesse e investimenti da parte del Governo cinese e di numerose società della RPC, che lo considerano uno scalo importante nel contesto del progetto di connettività della Nuova Via della Seta. 

Dopo decenni di stagnazione, il porto triestino è dunque aperto a nuove opportunità, grazie soprattutto alla nomina (2015) di Zeno D’Agostino (manager, consulente, ricercatore e docente in Economia del territorio, logistica e trasporto merci) quale Presidente dell’Autorità portuale. Con D’Agostino sono state avviate iniziative trasparenti, un nuovo Piano Regolatore Portuale e una politica sindacale che tutela i lavoratori, incrementando i contratti di lavoro a tempo indeterminato.  Soprattutto si sono allargate le opzioni di partenariato con altri paesi e si è posto fine alla miope politica di “sfida” coi porti di Venezia e Capodistria, nel senso che ognuno opera secondo le proprie possibilità e capacità, senza pretese di supremazia.

Nel maggio 2017, al primo summit BRI organizzato a Pechino, il premier Gentiloni ufficializza l’interesse cinese verso Trieste. Inoltre la China Communication Construction Company (CCCC) dichiara la propria disponibilità ad investire nel porto giuliano. 

Alla firma (marzo 2019) del Memorandum of Understanding  Italia-Cina sulla BRI, segue un accordo tra il Presidente dell’Autorità portuale e il rappresentante della CCCC. L’intesa – siglata a Shanghai il 5 novembre 2019 alla fiera internazionale dell’import cinese, presente il ministro degli Esteri Luigi Di Maio – rappresenta l’atto costitutivo di una partnership che prevede il ruolo attivo dell’Autorità  portuale in progetti pilota a supporto delle attività logistiche della CCCC nelle aree ad alto potenziale economico di Guangzhou e di Jiangsu, nel retroterra dei porti di Shanghai, Ningbo e Shenzen, poli della logistica e della produzione ad alto valore tecnologico cinese e tutti scali dei servizi intercontinentali che fanno capo a Trieste. L’accordo impegna la CCCC all’attivazione di magazzini logistici nell’area portuale dell’Adriatico orientale, con l’obiettivo di incentivare, attraverso lo sviluppo infrastrutturale, la crescita economica e la creazione di posti di lavoro in Friuli-Venezia Giulia. 

L’Italia diventa così il primo membro del G7 ad entrare nel progetto infrastrutturale di Pechino, che comprende porti, linee ferroviarie, strade e corridoi marittimi, con cui il presidente cinese Xi Jinping punta a connettere la Cina ad Europa e Africa. 

Da allora in poi, cioè dopo la firma del Memorandum, a Trieste si assiste all’ennesimo suicidio provocato da politici in perenne propaganda elettorale e da un’opinione pubblica superficiale e prevenuta, che condivide ogni forma di pensiero anti-cinese. Nel mentre i porti ‘concorrenti’ di Trieste (anche se si sperava di essere usciti dall’ottica esasperata della concorrenza) fanno a gara per accaparrarsi investimenti e accordi con imprese cinesi[2]

Il Memorandum è sgradito soprattutto agli Stati Uniti, che hanno esternato la loro contrarietà, mettendo in dubbio motivazioni e scopi dell’iniziativa: secondo Washington le Nuove vie della seta sarebbero solo uno strumento di espansione globale dell’influenza cinese. Il portavoce del National Security Council della Casa Bianca afferma che il sostegno del governo italiano alle iniziative cinesi difficilmente “porterà benefici sostanziali” al Paese e “potrebbe finire per danneggiare la reputazione globale dell’Italia sul lungo periodo”, inoltre “potrebbe minare il pressing di Washington su Pechino e creare problemi agli sforzi di Bruxelles per trovare una posizione condivisa sugli investimenti cinesi”. 

Altrettanto ‘fredda’ la posizione di Bruxelles secondo cui “né la Ue né alcuno Stato membro può ottenere efficacemente, senza piena unità, i suoi obiettivi con la Cina”. La presa di posizione Ue arriva dopo che l’Italia – unico paese membro insieme alla Gran Bretagna – si è astenuta nel voto in Consiglio Ue sul regolamento che introduce nuove norme di controllo sugli investimenti di Paesi terzi.

Arriviamo al 26 agosto 2020 quando il Segretario di Stato Mike Pompeo emette un durissimo comunicato relativo all’inserimento nella “black list” della CCCC,  la compagnia con cui nel marzo 2019 l’Autorità portuale aveva firmato – in un quadro di evidente reciprocità[3]– non solo il memorandum riguardante lo sviluppo ferroviario dello scalo triestino, ma anche la partecipazione triestina nell’interporto slovacco di Kosice e il progetto di export del vino italiano in Cina tramite apposite Zone Economiche Speciali.

Tornano così alla carica personaggi politici locali in atteggiamenti di esibizionismo e giornalisti disinformati che danno il porto già venduto, anzi “svenduto” ai cinesi, proprio come il Pireo.  Anche se le cose magari andrebbero comprese: sia perché nulla può essere venduto trattandosi di concessioni su proprietà pubbliche subordinate al controllo dell’Autorità Portuale, sia perché a sbarcare in forze è stata ora la Germania (di cui tuttavia la Cina è il primo partner commerciale).

porto triesteLo sbarco della Germania e la ri-scoperta della Mitteleuropa

E appunto questa è l’ultima notizia di portata geopolitica: La HHLA (Hamburger Hafen und Logistik AG) compagnia tedesca di logistica e trasporto fondata nel 1885 che gestisce tre terminal su quattro del porto di Amburgo, il principale della Germania, acquisirà la maggioranza della società che ha la concessione del futuro Molo 8°, già approvato dal Piano Regolatore, cioè il più grande terminal del Porto Franco Internazionale di Trieste. – E meno male che la proprietà, ovviamente, resterà pubblica -.

Si tratta del più importante investimento privato mai avvenuto: circa un miliardo complessivamente sarà speso per la Piattaforma Logistica su cui si innesterà il Molo 8° servito da un nuovo hub ferroviario che prenderà il posto dell’“area a caldo” della Ferriera per il quale anche le Ferrovie Austriache (ÖBB) hanno espresso il loro interesse (come per la Piattaforma Logistica e l’Interporto di Fernetti al confine con la Slovenja).

Inoltre poche settimane fa è stato siglato l’acquisto di una quota dell’Interporto nella Zona Franca industriale “Freeste” da parte della società del Porto di Duisburg: il più importante porto interno e hub intermodale del mondo intero, nonché terminal ferroviario europeo della BRI terrestre. Nei mesi scorsi è stato anche siglato un contratto di compravendita tra il governo ungherese e i due soggetti privati Teseco e Seastock, primo passo per la realizzazione di un terminal multiuso in un’area dismessa e da bonificare (ex sede dell’impianto petrolifero dell’Aquila: investimento iniziale di 100 milioni €.) 

Con l’arrivo delle società dei porti di Amburgo e di Duisburg che si aggiungono all’oleodotto transalpino TAL con il terminal petrolifero SIOT – i quali forniscono il 100% del fabbisogno petrolifero della Baviera e del Baden-Württemberg, il 90% dell’Austria e oltre il 30% della Repubblica Ceca- ecco che si ricostruisce l’antico legame di Trieste con l’entroterra mitteleuropeo.

Evento che, in un’ottica europea, non costituisce una cosa negativa per principio, ma fa molto riflettere sulla mancanza di prospettive della politica estera italiana, quantomeno nella testa dei nostri governanti che sembrano “navigare a vista”, privi di ogni bussola. Si dimenticano rapidamente impegni già presi, si cede ad un’ottica mercantilistico-finanziaria di immediata utilità e soprattutto, rimanendo nello stretto orizzonte europeo, si viene fagocitati dal più forte (la quota della proprietà di Amburgo è del 51%!… i cinesi non si erano mai sognati di proporre una quota maggioritaria…). 

È paradossale comunque che i sostenitori del Porto Franco di Trieste risiedano a Berlino, Vienna e Budapest, ma non a Roma impegnata a gestire campanilistiche rivalità fra porti[4]

Il Presidente dell’Autorità Portuale così “giustifica” l’accordo firmato con Amburgo: “spetta a Roma indicarci con quali soggetti possiamo trattare e noi prendiamo le precauzioni del caso”. Che vuol dire limitarsi alle scelte tecniche, poiché le scelte politiche vengono fatte altrove. 

A ognuno il suo mestiere, ma c’è chi lo sa fare e chi non lo sa fare. E c’è chi è costretto a fare con gli occhi bendati.

Maria Morigi è membro del Comitato Scientifico del CIVG e collabora con l’Osservatorio Italiano sulla Nuova Via della Seta. È autrice di numerosi articoli e saggi di storia delle religioni e geopolitica, fra cui La Perla del Drago – Stato e religioni in Cina e Xinjiang ‘Nuova Frontiera’ – Fra antiche e nuove Vie della Seta (Anteo Edizioni).

Note:

[1] D’ Agostino ha fatto dichiarazioni molto nette: “mentre noi siamo qui a perdere opportunità preziose e legittime, l’ufficio legislativo del ministero per l’Economia e le Finanze (Mef) non riconosce l’extraterritorialità doganale di Trieste, perché non riesce a interpretare il fatto che un trattato internazionale deve essere rispettato”. “Il Porto franco potrebbe essere il luogo dove le imprese tornano a fare attività e a essere aggressive. Basta leggere i venti articoli dell’allegato ottavo del Trattato di pace di Parigi del 1947 e le poche righe nel Memorandum di Londra del 1954 per apprendere che il porto di Trieste gode di determinati benefici e che qui devono essere applicati”. “Lo Stato italiano, nell’ambito della sua comunicazione a Bruxelles relativa ai territori extra doganali, si è dimenticato di dire che esiste il porto franco di Trieste. E anche di aggiungere che ha tutti i requisiti in regola per essere presente nella lista.” L’extradoganalità del punto franco triestino rappresenta un unicum in territorio italiano ed europeo ma i numerosi governi italiani “non hanno mai comunicato correttamente all’Unione Europea il suo status”, escludendo de facto la possibilità di uno sviluppo industriale del porto franco triestino. Già in passato vi era stata la richiesta dei Governi di Austria e Germania di rispettare il Trattato di pace di Parigi che confermava il Porto Franco di Trieste con annesso divieto di tassazione eccedente il corrispettivo dei servizi resi, in opposizione ad un aumento del 150% delle tasse e dei diritti marittimi nei porti italiani previsto dalla legge 255 del 1991. Di conseguenza il Consiglio di Stato, con parere del 21 marzo 1996, si era espresso a favore di un regolamento ministeriale che consentisse l’inapplicabilità della normativa generale nello scalo giuliano.

[2] A Venezia continua la progettazione del Porto Offshore affidata alla cinese CCCC e ci sono investitori cinesi per oltre 700 milioni; a Ravenna si è insediata la divisione europea del colosso cinese della cantieristica China Merchants Group, che intende farvi l’hub dell’ingegneria navale e dell’oil&gas per l’ Europa; al terminal di Vado Ligure (Savona) sotto l’ Autorità Portuale di Genova, è già insediato il colosso cinese COSCO. 

[3] Ricordiamo che la CCCC tramite il ramo China Shipbuilding Group aveva siglato nel 2018 anche un accordo di cooperazione con Fincantieri, sede di Trieste, e con l’americana Carnival per la costruzione di navi da crociera destinate al mercato asiatico e la gestione dei terminal. Tra i rami della CCCC c’è anche ZPMC, il più grande produttore mondiale di gru da terminal container che serve una buona metà dei porti americani. È evidente che una messa al bando della CCCC, già fortemente radicata in occidente, avrebbe conseguenze di difficile gestione perfino negli USA. 

[4] Rivalità particolarmente assurde in questo caso visto che il porto giuliano lavora per il 90% con l’estero mentre tutti i porti italiani si rivolgono al solo mercato interno