La povertà intellettuale di Saviano e l’esempio di Fidel Castro

fidel africaRiceviamo e volentieri pubblichiamo

di Francesco Fustaneo

«Nelle democrazie le forze dell’ordine vivono di quel delicatissimo equilibrio che si fonda sull’equidistanza tra le forze politiche. Al contrario, nelle dittature, i tiranni indossano sempre la divisa, che non è banale teatralizzazione del potere, ma serve a mandare un messaggio preciso: l’esercito risponde a me, a me soltanto e a nessun altro. Fidel Castro ha indossato la divisa nelle apparizioni pubbliche per decenni, la logica era la solita utilizzata nei paesi del socialismo reale: l’esercito è il popolo, io sono il capo dell’esercito, io sono il conduttore del popolo. Attaccare Fidel Castro significava avere l’esercito (e tutte le forze dell’ordine) contro. Fidel Castro dismise la divisa militare in rare occasioni: quando incontrò Giovanni Paolo II nel 1998 per esempio; in quel caso mise da parte il suo ruolo di caudillo e si sottopose a un possibile confronto che infatti portò alla liberazione di diversi detenuti politici.»

Questo un estratto delle ultime affermazioni di Roberto Saviano [1] che, per attaccare Salvini sul suo abuso mediatico delle divise delle forze di polizia, dalle pagine de La Repubblica non esita a fare accostamenti improbabili tra il leader della Lega e il leader maximo Cubano, citando tra gli altri anche Gheddafi, Mussolini, Stalin e Churchill.

Una critica che può anche essere lecita sull’utilizzo da parte del Ministro dell’Interno delle divise militari a scopo d’immagine per ingraziarsi frange di elettorato spesso notoriamente vicine alle posizioni leghiste, non troppo dissimile negli intenti all’uso delle felpe col nome della città in cui tiene il comizio di turno, diventa però per Saviano un ulteriore occasione per riproporre i suoi attacchi alla rivoluzione cubana e alle politiche sociali ed economiche adottate da Castro. Molto ci sarebbe da dire anche su Gheddafi e Stalin, ma qui concentreremo l’attenzione su Castro.

Non è infatti la prima volta che Saviano infanga e capovolge la memoria storica additando Fidel Castro di essere un “tiranno” e riproponendo logori motivi della propaganda statunitense sulla “dittatura cubana”.

Conosciamo Saviano fin troppo bene. Le sue posizioni politiche, gli attacchi gratuiti e privi di qualsiasi riferimento storico non ci stupiscono, così come non ci stupisce la loro rapida diffusione, alimentata dalla notorietà del personaggio che, al di là di ogni dubbio, dimostra una notevole abilità nella scrittura, paragonabile solo al suo deficit di conoscenze storiche o al suo appiattimento sulle politiche pseudo-progressiste e filoisraeliane.

Questo non è certo il contesto opportuno per confutare la tesi della “dittatura” e della “tirannia”, autori di ben più grande spessore lo hanno già fatto in sedi appropriate. Castro si è già difeso abbondantemente nel suo celebre discorso del 6 ottobre 1953 durante il processo celebrato a Santiago di Cuba: «Condannatemi pure, la storia mi assolverà». 

La Storia gli ha dato ragione, nonostante gli scribacchini al servizio di Washington continuino a negare l’evidenza. Restare inerti di fronte all’ennesima forzatura e agli sproloqui di Saviano però proprio non ci aggrada. Il suo infelice ma ricercato accostamento è facilmente confutabile con alcuni piccoli chiarimenti senza bisogno di scomodare l’analisi politica: Salvini non proviene dagli ambienti militari e a parte il servizio di leva che afferma abbia svolto nel 1995 non ha esperienze sul campo. Al di là della ben remunerata carriera politica della quale campa da anni sostenuto da noi contribuenti, raramente pare abbia svolto finanche attività lavorative.

In merito a Fidel Castro, la cui menzione a sproposito, lo ribadiamo, è l’unico motivo per cui “perdiamo tempo” a scrivere queste righe in risposta: fu in primo luogo figlio di un ex militare spagnolo, Angel Castro. Oltre ad essere un avvocato e militante politico è stato un guerrigliero rivoluzionario, per cui le armi e l’esercito sono state per anni il suo pane quotidiano. Differentemente da tanti politici esibizionisti, Fidel ha indossato la divisa per liberare il suo popolo e guidarlo alla rivoluzione. Già in età giovanile, intollerante alla politica di opposizione non violenta a Batista del Partito Ortodosso, Castro aveva dato vita ad un gruppo noto come “Il Movimento”, costituito da un comitato civile e militare e organizzato in un sistema di cellule clandestine; ogni cellula era composta da circa 10 membri. El Acusador era il giornale clandestino dell’organizzazione. Scopo di quest’ultima era quello di organizzare la lotta armata.

L’assalto alla Caserma Moncada fu il suo primo “significativo” battesimo del fuoco anche se non andò a buon fine: l’obiettivo dell’operazione era quello di impadronirsi dell’arsenale lì conservato per armare il proprio gruppo di militanti ribelli così da poter sostenere la lotta armata. L’esilio in Messico e il periodo dell’addestramento alla guerriglia e dell’incontro con Ernesto Che Guevara sono passaggi poi noti, così come lo sono le sue abilità militari e di comando dimostrate nella guerriglia della Sierra Maestra e i suoi meriti nell’infliggere quelle dure sconfitte militari che avrebbero spianata la strada alla caduta di Battista.

Le notevoli doti di leadership e la visione strategico-militare gli sono poi state riconosciute da alleati e nemici e hanno permesso alla piccola Cuba per 60 anni di sopravvivere e rimanere indipendente dalla sfera di influenza statunitense e di ergersi a modello di resistenza e alternativa politica ed economica in America Latina fino ai tempi odierni. Gli assetti geopolitici nel continente americano e nel mondo, senza le strategie economiche e militari di Castro, sarebbero state profondamente diverse ed egli stesso in assenza di preparazione militare non avrebbe potuto sopravvivere ai 600 e passa attentati orditi dalla CIA contro la sua persona.

Fu sotto la sua spinta che, dopo la rivoluzione, Cuba riuscì a dotarsi di un solido esercito, forse il più forte del continente dopo quello statunitense. Curiosamente poi un’altra omissione che Saviano sistematicamente compie parlando di Cuba è quella del suo ruolo determinante nella caduta dell’apartheid in Sudafrica. Proprio nel continente africano Fidel inviò le proprie truppe che si scontrarono duramente contro il Sudafrica dell’apartheid che invase l’Angola nel 1975 (Operation Savannah) e alla fine della guerra civile le truppe sudafricane furono costrette a ritirarsi.

La battaglia di Cuito Cuanavale, nell’Angola sudorientale (tra le più cruente mai combattute nel continente africano), risultò fondamentale per il ritiro delle truppe sudafricane. In occasione della morte di Fidel Castro il ministro sudafricano del commercio e dell’industria ha ricordato proprio il ruolo centrale di Cuba in quel contesto, definendola “la Stalingrado dell’apartheid”. Ancor prima, successivamente alla sua scarcerazione, avvenuta nel 1990, Nelson Mandela, che come Castro fu guerrigliero ancor prima che premio nobel per la pace, si recò a Cuba per ringraziare di persona l’amico e alleato Fidel per il suo apporto politico e militare.

Nel suo discorso Mandela affermò: «Siamo qui oggi per riconoscere il nostro grande debito nei confronti del popolo cubano. Quale altra nazione ha una tale storia di altruismo come Cuba verso i popoli dell’Africa». Celebri anche le sue parole «Ho tre amici nel mondo e si chiamano Yasser Arafat, Muammar Gheddafi e Fidel Castro». Queste citazioni servono a ricordare che mentre i leader di tanti altri paesi occidentali (elogiati dallo scrittore campano) restavano inerti o sostenevano esplicitamente l’apartheid, una piccola isola caraibica (da lui spesso biasimata e ingiuriata) contribuiva a sconfiggere la segregazione razziale e la semischiavitù incarnatisi in un sistema legislativo e politico dove una minoranza bianca era riuscita a togliere gradualmente i diritti civili alla maggioranza nera autoctona.

Saviano si rassegni: i suoi tentativi di accomunare reazionari patentati come Salvini ad eroi rivoluzionari come Fidel cadranno nel vuoto e contribuiranno a ricordare questo servo dell’imperialismo con disprezzo dalle classi lavoratrici più coscienti. Ricorderemo invece sempre con orgoglio la figura eroica di Castro: come quando entrò trionfante all’Avana quel lontano 8 gennaio del 1959, in piedi su una jeep. Un giovane barbuto di 32 anni, alto 190 cm, il viso stanco ma fiero e felice e una splendida divisa militare verde oliva con cui aveva guidato il popolo alla riscossa per la costruzione di una nuova societò.

1 R. Saviano, Quella divisa non è di Salvini ma dello Stato, Repubblica.it, 11 gennaio 2019, disponibile su https://www.repubblica.it/politica/2019/01/11/news/quella_divisa_non_e_di_salvini_ma_dello_stato-216361597/