Non tassare la crescita

biro contiL’editoriale di Guido Salerno Aletta

E’ ora di tassare i patrimoni, invece di continuare a penalizzare il lavoro, la produzione ed i consumi? Sembra una domanda oziosa, visto che anche la politica monetaria accomodante delle banche centrali in questi anni ha preferito percorrere la strada che conduce alla penalizzazione delle rendite, se non addirittura all’eutanasia dei rentier come la definiva Keynes. In Europa, la Bce ha abbattuto i tassi di interesse fino a portarli addirittura in negativo, al fine di rendere più sostenibili i debiti. Nell’Eurozona, molto spesso chi presta denaro si vede restituire alla scadenza una somma inferiore a quella che ha versato: perde sul capitale, anziché incassare cedole per interessi. Con i tassi nominali negativi è così. Altro che inflazione che taglieggia il risparmio, tassa occulta da cui occorre difendersi.

Il problema, per l’Italia, è piuttosto un altro: occorre ridurre l’onere per gli interessi sul debito pubblico, che nel 2018 hanno pesato per il 3,7% del pil, e che rappresentano da anni l’unico vero motore che alimenta la crescita del debito medesimo. D’altra parte, e non senza una vena di amara ironia, lo stesso Giulio Tremonti, a lungo ministro dell’economia anche durante i periodi più difficili, amava ripetere che l’Italia aumenta le “tasse per i tassi”.

C’è chi preferisce nettamente la prima alternativa: “Una patrimoniale annuale ad aliquota moderata esiste in vari Paesi che consideriamo civili come e più del nostro”. Con queste parole, tratte da una lunghissima intervista resa nel corso di questa settimana, il senatore a vita ed ex-premier Mario Monti ha affrontato un argomento che fa sobbalzare chiunque abbia messo qualche soldo da parte, investito come che sia, memore intanto di quel prelievo notturno del 6 per mille sulle giacenze nei conti correnti bancari che venne adottato da Giuliano Amato al culmine della crisi valutaria del ’92. Stavolta, però, secondo l’auspicio di Monti, non si dovrebbe trattare di un prelievo una tantum, ma a tempo indeterminato. La motivazione è questa: “Se vogliamo che l’occupazione aumenti, non basta stimolare la domanda, meglio se con gli investimenti che invece scarseggiano. Occorre rendere meno pesanti, come avviene in altri Paesi, gli oneri fiscali e sul lavoro”.

Facciamo intanto qualche passo indietro, per andare a ricostruire quale fu l’impostazione in materia di imposte sul patrimonio che venne adottata del Governo Monti tra la fine del 2011 e la prima metà del 2013 in una condizione di somma urgenza per l’Italia, colpita dalle ire dei mercati. Introdusse innanzitutto l’Imu, anche sulla prima casa ed aumentando la precedente Ici sulle seconde. La prima casa è un cespite che per definizione non produce reddito: è abitata dal proprietario, che magari ci sta pagano ancora un mutuo. E’ una imposta patrimoniale solo nominalmente, visto che è commisurata al valore dell’immobile, ma che viene soddisfatta utilizzando le fonti di sostentamento ordinario: stipendio, pensione, redditi da lavoro autonomo.

Anche il Fmi, di recente, ha auspicato il ripristino della tassazione sulla prima casa, senza tener conto delle conseguenze che sono derivate dal combinarsi dell’aumento della tassazione con la recessione economica: ha prodotto una minusvalenza irrecuperabile sul valore delle abitazioni delle famiglie italiane, che pure non erano state toccate dalla crisi americana del 2008. Rispetto ai 5.080 miliardi di quell’anno, il valore crebbe senza oscillazioni, fino ai 5.356 miliardi nel 2011. Scese invece a 5.165 miliardi nel 2011 e poi ancora a 4.952 miliardi nel 2012: in due anni era tornato al livello di cinque anni prima, perdendo oltre 400 miliardi. Nel 2016 è sceso ancora, a 4.632 miliardi: altri 320 miliardi in meno. A fronte di questa perdita, il gettito fiscale fu davvero misero: si passò dai 9 miliardi dell’Ici incassati nel 2011 ai 22 miliardi dell’Imu nel 2012 (di cui 4 mld dalla prima casa), per scendere ai 18 miliardi del 2013 (quando fu esclusa la prima casa). Nel 2014, l’applicazione della Tasi maggiorata aggiunse altri 6,8 miliardi di gettito. Si arriva dunque ad un rapporto di almeno 1 a 20, tra maggior incasso fiscale e minor valore. E questo, naturalmente, non tiene conto delle perdite subite dalle banche per la riduzione del valore delle garanzie assunte sui prestiti. E, meno ancora, delle perdite accumulate dai debitori morosi, soggetti alla vendita forzosa degli immobili, senza limite di ribasso sul prezzo d’asta. Tutto è stato fatto, in Italia ed in Europa, per liquidare le proprietà immobiliari a prezzi infimi, mentre la Fed acquistava Mbs’s emesse dalle Agenzie federali in cambio di liquidità, per togliere carta di debito immobiliare di scarsa qualità dalla circolazione.

Rimanendo in tema di tassazione patrimoniale, e senza andare tanto lontano, in Francia ci sono segnali ben diversi da quelli auspicati da Monti: il governo nominato dal Presidente Emmanuel Macron ha già esonerato i cespiti mobiliari dal computo della base imponibile su cui si paga l’Imposta sulla fortuna (Isf), istituita da tempo immemorabile, lasciandola solo sugli immobili. Macron, anche di recente, non ha voluto cedere alle sollecitazioni dei Gilet Jaune, che ne chiedono il ripristino, rinfacciandogli di essere il “Presidente dei ricchi”: non se ne parla neppure, ha replicato, in quanto occorre incentivare l’impiego dei capitali verso gli impieghi produttivi. La strategia è di abolire completamente, seppure gradualmente per scaglioni di reddito, la Tax d’Habitation che rappresenta il principale provento per le finanze degli enti locali. Bene inteso, in Francia non verrebbe invece toccata la Tax Fonciere, che è una vera e propria patrimoniale sui cespiti immobiliari, il cui gettito viene ripartito tra Stato, Regioni, Dipartimenti e Comuni. Va detto però che in Francia l’imposizione sul reddito è meno pesante che in Italia: introdurre da noi anche una patrimoniale anche sulla prima casa, senza compensazioni, sarebbe davvero inaccettabile.  

Il governo Monti non si limitò all’Imu sulla prime case, e soprattutto all’aumento dell’imposizione sulle seconde, spesso di villeggiatura e rimaste da allora abbandonate senza manutenzioni. Furono elevate anche le tasse sulla proprietà di autoveicoli, sulle imbarcazioni da diporto e sugli aeromobili, tutti beni che non producono rendite, anche se sono certamente indicatori di benessere: le tasse sono tuttora pagate con i proventi di reddito ordinario. “Anche i ricchi piangono!”, fu con questo slogan di giubilo che la sinistra radicale accolse queste decisioni. La tassa d’ormeggio non fece altro che lasciare deserti i moli italiani, a favore di lidi fiscalmente più accoglienti. La cantieristica da diporto fu massacrata, come il comparto delle costruzioni e dell’immobiliare, con i Fondi di investimento in perdita. In breve, fatto il danno, già con il governo Letta, l’Imu sulla prima casa venne sospesa, per poi essere abolita: del tutto.

Per tornare alle conseguenze delle manovre fiscali decise dal governo Monti, va ricordata anche la duplice manovra di aumento dell’Iva, di cui ci si limitò alla prima, portando l’aliquota ordinaria dal 21% al 22% a decorrere dal 1° ottobre 2013, ma rinunciando alla seconda per via della crisi indotta dalle misure draconiane: il pil del 2012 era crollato del 2,4%, più del doppio di quanto era stato stimato. Le conseguenze sul rapporto debito/pil, esattamente su quel fattore che tanto aveva preoccupato i mercati, furono catastrofiche: al netto degli aiuti all’estero, secondo il Def 2012 sarebbe dovuto passare dal 119,2% del 2011 al 120,3% del 2012; per poi scendere al 117,9% nel 2013, al 114,5% nel 2014 ed al 110,8 nel 2016. Ebbe invece un profilo completamente opposto: nel Def 2013, stilato sempre dal governo Monti, si dette atto del peggioramento di 4 punti registrato nel 2012, che infatti chiuse al 124,3%. Rispetto alle previsioni precedenti, il rapporto debito/pil peggiorava rapidamente anziché migliorare: di ben 9 punti nel 2013 arrivando al 126,9%; e di ben 10,7 punti nel 2014 giungendo al 134,2%. Più che aggiustare strutturalmente i conti pubblici, furono scassati irrimediabilmente per via della caduta del pil e del conseguente peggioramento del rapporto tra debito e pil.

Se la strada della tassazione patrimoniale si è già dimostrata impraticabile, ciò non significa affatto che non siamo di fronte ad una questione fiscale che va affrontata sul piano finanziario, anziché economico, soprattutto in vista della manovra che ci attende nel 2020.

Occorre spostare l’attenzione dalla fiscalità all’impiego del patrimonio mobiliare, considerando in particolare le attività finanziarie delle famiglie italiane. Analizzando i Conti finanziari si rileva che, alla fine del terzo trimestre del 2018, queste ultime detenevano attività per 4.243 miliardi di euro, mentre erano gravate da passività per appena 941 miliardi: un assalto a questo tesoro è in cima ai pensieri di molti, non solo in Italia e da gran tempo. Tassarlo sarebbe sciocco. Occorre guardare oltre, ai Conti con l’estero ed alla posizione finanziaria netta: nei dodici mesi terminati a febbraio scorso, il saldo dei redditi primari, che comprendono i flussi in entrata ed in uscita di dividendi, interessi e rendite, è stato attivo per 18 miliardi di euro. L’Italia ha incassato dunque assai più di quello che ha pagato, per un ammontare pari all’1% del pil. Ma ha sicuramente lasciato all’estero un bel po’ di soldi, in termini di perdite sul capitale, avendo investito in Paesi ed in asset mobiliari che hanno rendimento negativi, primi tra tutti in Germania. Alla fine del 2018, gli investimenti di portafoglio all’estero del settore privato dell’economia italiana, escluse le banche, era di 1.180 miliardi con un saldo netto positivo di 920 miliardi. La posizione finanziaria netta delle Amministrazioni pubbliche è stata negativa per 601 miliardi: a tanto ammontano le detenzioni di titoli di Stato italiani da parte di non residenti: rispetto ad un volume complessivo di circa 2.300 miliardi, si tratta di una percentuale che oscilla attorno al 25%. Risultano, a metà 2018, consistenti investimenti italiani di portafoglio in Europa: ben 690 miliardi di dollari in Lussemburgo che li reimpiega, 183 in Francia, 86 in Germania. In quest’ultimo caso, sono i risparmiatori italiani, assai più che i contribuenti tedeschi, che si stanno accollando l’onere di ridurre il debito pubblico della Germania, dal momento in cui sottoscrivono titoli che hanno rendimenti negativi.

Tra il 2008 ed il 2018, la spesa per interessi sul debito pubblico italiano è stata di 796 miliardi di euro, rispetto ai 574 miliardi della Germania ed ai 527 della Francia, su uno stock di debito sostanzialmente analogo. Lo scorso anno, la Francia ha pagato 40 miliardi di interessi, la Germania 31 e l’Italia 65. Di quest’ultimo ammontare, solo un terzo è andato a beneficio dei sottoscrittori esteri, non più di 25 miliardi di euro. Ben 40 miliardi di euro, solo nel 2018, e all’incirca 500 miliardi tra il 200e ed il 2018, hanno remunerato il risparmio e gli investitori italiani: è sulla formazione di questa rendita di posizione che occorre riflettere, invece che sulla tassazione del patrimonio.

Investire all’estero con rendimenti negativi, per paura di un default del debito italiano, si sta dimostrando una trappola: si perde denaro pur di sfuggire al timore di perderlo. C’è chi, da anni, sta lucrando su questa paura, alimentandola a proprio beneficio. Anche ipotizzare la introduzione di una patrimoniale non crea fiducia.

Per l’Italia, basterebbe pagare gli stessi tassi tedeschi sul debito pubblico per vedere azzerato definitivamente il deficit pubblico, ma anche la rendita che ne deriva. Il risparmio c’è, abbondante, spesso impiegato all’estero in perdita. Questo, e non la patrimoniale, è ormai il nodo da sciogliere.