Il declino e la via d’uscita

di Pierluigi Ciocca | da il Manifesto

bankitalia-debito-pubblico-italianoL’economia italiana non accenna a risolvere i gravi problemi seguiti alla drammatica crisi della lira del 1992, che il governo Amato non seppe evitare. Da allora, la produttività ha rallentato, per poi diminuire. Il peso economico dell’Italia è scemato, dal 3 al 2,3% del Pil mondiale. Il debito pubblico resta su picchi storici, superiori al 120% del Pil. La posizione verso l’estero del Paese è passiva per 350 miliardi di euro. Prevalgono le spinte recessive. Il Pil del 2011 è risultato di cinque punti percentuali inferiore a quello del 2007, e ancor più al prodotto potenziale. Il governo Monti sconta una caduta produttiva dell’1,2% quest’anno, seguita da una modesta ripresa (0,4 %) l’anno prossimo. L’Fmi prevede per l’Italia esiti peggiori: -1,9 e -0,3% nei due anni. Ma il calo di fiducia, il taglio pro ciclico di quasi quattro punti di Pil del disavanzo pubblico rispetto al 2011, l’inflazione che erode i redditi fissi, la restrizione creditizia, il ristagno europeo, la incapacità competitiva inducono a non escludere una caduta del Pil del 3% nel 2012 e ancora dell’1% nel 2013.

Ciò significherebbe mezzo milione di posti di lavoro in meno all’avvio del 2014. Le radici di questa serissima condizione sono risalenti nel tempo. Sono soprattutto nazionali. Si situano solo sullo sfondo i limiti della costruzione europea e i condizionamenti politici esercitati dall’Europa. La responsabilità si ripartisce fra le imprese e i governi italiani. Le imprese da anni si rimpiccioliscono, reinvestono i profitti meno di quanto potrebbero, non ricercano l’innovazione, non introducono progresso tecnico. Quindi la loro produttività e la loro competitività sono su un trend decrescente, come non era mai accaduto nella storia dell’Italia unita.

I governi hanno solo, e vanamente, inseguito con le tasse una spesa pubblica incontrollata, montante, in larga misura inefficiente. Andrebbe spiegato in termini di scienza politica perché partiti e governi hanno temuto che una gestione rigorosa del danaro pubblico avrebbe fatto perdere loro consenso popolare più dell’inasprimento continuo di una sperequata pressione tributaria. Il governo attuale ha commesso errori sia nella impostazione sia nella presentazione della sua politica economica. Nell’ultimo semestre il tasso reale d’interesse sui titoli di Stato ha solo lambito il 4 per cento, livello inferiore ai picchi sperimentati nelle crisi, ben più gravi, del 1980, del 1992, del 1995; le emissioni dei titoli sono state ampiamente collocate; la vita media del debito eccede i sette anni, mentre in passato si misurava in termini di mesi; le banche sono relativamente solide.

Eppure il governo ha ripetuta-mente dichiarato di temere una catastrofe finanziaria imminente, assimilabile al dissesto della Grecia. Ha quindi immediatamente aumentato le imposte sui tartassati impossibilitati a evadere. Ha tagliato, in modo percepito come permanente, redditi e pensioni, anche ai più bassi livelli. Lo ha fatto per riequilibrare i conti pubblici, che restano da riequilibrare. Ma la sua azione è scaduta nella logica dei due tempi: fiscalità subito, crescita, poi. Non è stata sin dall’inizio incentrata sul risparmio nelle spese pubbliche superflue, sul sostegno alla produttività, sul rilancio della domanda effettiva. Sotto il vincolo del pareggio di bilancio nel 2013, secondo il governo non vi sarebbe molto margine per abbassare la spesa corrente, aumentare quella in conto capitale, ridurre le tasse. Si è così smarrito il controllo delle aspettative, divenute cupamente pessimistiche.

La recessione, già in atto dall’estate del 2011, si è acuita. Una diversa politica economica è possibile, lungo tre direttrici: mutare la composizione del bilancio pubblico, riscrivere il diritto dell’economia, imporre la concorrenza. In finanza pubblica bisogna frenare le spese correnti fino a mettere i conti in sicurezza e fare spazio nel bilancio a minore tassazione e a maggiori investimenti in infrastrutture, preziose anche per la produttività. Una riduzione dello stock di debito può ottenersi cedendo patrimonio immobiliare della PA. Va posto in atto un piano che, nel quinquennio 2012-2016, riduca la spesa corrente in rapporto al Pil di 5 o 6 punti. Queste risorse devono devolversi a consolidare l’azzeramento del disavanzo strutturale, agli investimenti in infrastrutture, alla riduzione del carico fiscale, da perequare in primo luogo attraverso la lotta a una evasione stimata nell’8 per cento del Pil. L’azzeramento del disavanzo strutturale – a cui è stata data garanzia costituzionale con l’attuale art. 81 – dovrebbe concentrarsi su tre voci di spesa: acquisti di beni e servizi (riducendo non le quantità, ma i prezzi, oscenamente vantaggiosi per i fornitori); personale, da ridurre attraverso il turnover; trasferimenti alle imprese, da tagliare, insieme con altre spese correnti (diverse dalle precedenti, come pure da pensioni, sanità, interessi sul debito). Nell’insieme queste tre voci di spesa rappresentavano nel 2011 il 23,3 per cento del Pil, rispetto al 20,8 per cento del 2000. Possono scendere al 18 per cento del Pil. Lo spazio c’è. Il moltiplicatore keynesiano (negativo) delle spese che perderebbero di peso è nettamente inferiore a quello (positivo) dei maggiori investimenti e della minore imposizione.

L’impatto netto del mutamento di composizione del bilancio sulla domanda globale risulterebbe quindi espansivo. Il premio al rischio sul debito pubblico e i tassi d’interesse scenderebbero, perché un piano siffatto è quanto i creditori internazionali, e l’Europa, chiedono da anni all’Italia. Il miglioramento delle aspettative favorirebbe la propensione a consumare e a investire dei privati, contribuendo alla ripresa e accorciandone i tempi. L’impegno più urgente è, infatti, superare la recessione.

Altrimenti, non avrebbe senso nemmeno parlare di ritorno alla crescita di trend. Il progresso di lungo periodo della produttività dev’essere favorito, oltre che da potenziate infrastrutture fisiche, da una vasta riforma del diritto e delle istituzioni dell’economia. Più che il diritto del lavoro, la riforma dovrebbe interessare altri blocchi dell’ordinamento giuridico: societario, fallimentare, processuale, amministrativo, del risparmio. Sul piano culturale, la riforma dovrebbe fondarsi su una visione d’assieme dell’intero ordinamento dell’economia e su criteri di teoria più eclettici e realistici di quelli che può offrire la law and economics anglosassone, di impianto strettamente neoclassico. L’ulteriore fronte per il recupero della produttività e per il ritorno su un sentiero di crescita è rappresentato da una decisa promozione della concorrenza. Alle imprese vanno precluse scorciatoie al profitto come quelle di cui hanno goduto dal 1992. Il cambio debole, la spesa pubblica larga, i salari bloccati, un’azione antitrust poco incisiva sono state le vie facili che hanno consentito fino a pochi anni fa utili tali da rendere superflua la ricerca della produttività.

Anche qui, sul piano culturale, occorrerebbe muovere da una nozione di concorrenza diversa da quella sinora invalsa in Europa, e quindi in Italia. Non ci si può limitare a sanzionare le tre fattispecie della concentrazione, della intesa collusiva, dell’abuso di posizione dominante. Deve affermarsi una concezione schumpeteriana, non statica ma dinamica, che valorizzi la competizione – anche fra pochi – attraverso le innovazioni, responsabilizzi al massimo l’impresa, la sottragga alla dipendenza da ogni protezione. In una economia di mercato capitalistica della produttività rispondono in ultima analisi le imprese, non i governi. È essenziale che le imprese italiane si dimostrino di nuovo capaci di innovazione e progresso tecnico. Ne va della loro stessa esistenza. Sapranno Cultura, Istituzioni e Politica corrispondere a questa vera e propria rifondazione economica del Paese? Si può solo ribadire, sulla scorta della ricerca teorica, econometrica e storica più aggiornata, che l’Italia economicamente decadrà, se tale apporto dovesse continuare a mancare.

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