Proposte per la crisi

di Luigi Marino | da www.comunisti-italiani.it

senato montiSiamo in recessione, in una fase di crescita negativa con conseguente riduzione dei livelli di occupazione. Il tasso di disoccupazione, che ha ormai carattere strutturale, è al 9,3%. La produzione industriale rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso è diminuita del 20%. Con le misure di austerità a senso unico adottate dal Governo è diminuito il potere di acquisto e, quindi, i consumi soprattutto delle famiglie monoreddito sono calati. Se la prima recessione è stata determinata senz’altro dalla crisi economico-finanziaria del 2007/2008, la seconda è il risultato di scelte di politica economica a livello europeo ed in Italia delle manovre basate solo sul rigore, non accompagnate da una politica di investimenti e di occupazione, che hanno prodotto conseguenze inevitabilmente deflazionistiche con contrazione della produzione, del reddito e dei salari. 

Sarà anche pessimistica la previsione del Fondo Monetario Internazionale, che prevede nel 2012 un calo del PIL dell’1,9%, ma la stessa Banca d’Italia prevede un calo che va dal meno 1,2% al meno 1,5%. Il Governo Monti con il Documento di Economia e Finanza (DEF) ha fissato la stima al meno 1,2% prevedendo nel 2013 un + 0,5%. Le prospettive anche in ordine al rapporto debito/PIL sono del 123% per il 2012. Non esistono governi tecnici! Tutta la politica di questo Governo Monti, formato da “tecnici liberisti”, è improntata ad una vecchia strategia, già risultata fallimentare, secondo cui la maggiore flessibilità del mercato del lavoro, le liberalizzazioni, le privatizzazioni, la riduzione della spesa statale siano la panacea, la ricetta per la crescita, che invece può essere conseguita solo attraverso l’allargamento della domanda interna, pubblica e privata, sia di consumi che di investimenti, dando anche attraverso la detassazione più soldi anzitutto ai lavoratori e ai pensionati, perché quella che stiamo attraversando è una crisi della domanda. 

Complessivamente i provvedimenti sinora assunti dal Governo hanno avuto un chiaro carattere classista con effetti recessivi, ma soprattutto non hanno ripartito i sacrifici con l’equità, pure tanto proclamata. I sacrifici sono soprattutto per le famiglie ancora una volta pesantemente penalizzate. 

Il risanamento finanziario è certamente ineludibile. “Quando il debito pubblico supera il 90% del PIL l’economia non cresce” ammonisce l’economista K. Rogov. Ma senza misure espansive una politica di risanamento improntata soltanto al rigorismo diventa depressiva e riduce ulteriormente il PIL. Puntare sin dall’inizio anche sulla crescita avrebbe invece potuto aiutare a risolvere i problemi più gravosi a cominciare dal debito e dal suo costo in termini di interessi da pagare sino ai problemi più complessivi di bilancio. Ma la crescita tuttora tanto invocata non parte e comunque, allo stato delle cose, risultati positivi non saranno raggiungibili in breve tempo. 

Una alternativa c’era ed era stata da più parti, e anche dai sindacati, avanzata, in modo da non far pagare coloro che non sono responsabili della crisi alla quale si è giunti, né dell’enorme debito accumulato, che indubbiamente costituisce una pesante ipoteca sullo sviluppo economico, ma anche sulla tenuta sociale e culturale del paese. 

Ben altri dovevano essere i provvedimenti in materia fiscale e quelli per reperire le risorse per la crescita allo scopo di riconquistare la cosiddetta “fiducia dei mercati”, di contrastare le manovre speculative al ribasso sui titoli del debito pubblico, su quelli bancari e azionari, e di rilanciare l’economia, condizione indispensabile senza la quale non sarà possibile affrontare la stessa sostenibilità del debito pubblico. 

Occorrono quindi risorse per la crescita, per realizzare un piano razionale di infrastrutture materiali ed immateriali a cominciare da quelle più carenti, soprattutto al Sud, il cui sviluppo è presupposto essenziale per la crescita dell’intero Paese, per investire nella cultura, nella ricerca scientifica, di base e applicata, nell’innovazione tecnologica, nella cultura, nell’assetto idrogeologico del territorio, nell’edilizia popolare, scolastica, penitenziaria, nei servizi sociali. 

Il grosso delle risorse indispensabili non può che derivare da una lotta coerente, costante ed incisiva – a tutti i livelli – all’evasione fiscale, che è questione centrale per avviare un discorso di equità distributiva, facendo pagare quelli che sinora hanno mai o poco pagato, evitando quindi sacrifici insopportabili a quelli che non si sono mai sottratti al dovere repubblicano di contribuire alle spese pubbliche. 

Il Governo invece ha per intanto depenalizzato di fatto l’elusione fiscale, quel truffaldino utilizzo di disposizioni per non pagare il dovuto. 

E’ da tempo che si ripete la litania del 27% del PIL che sfugge al fisco, del 35-40% di IVA evasa e così per altre imposte. E più volte è stato ricordato che se avessimo un’evasione fiscale nella media europea, non avremmo debito pubblico. Ma in attesa dei risultati di un’ azione a vasto raggio che non possono essere immediati, occorre accompagnare la lotta all’evasione con altre misure necessarie. Ecco perché è stata proposta da tempo l’introduzione di una imposta progressiva sul patrimonio complessivo posseduto da ciascun contribuente, considerato che il 10% delle famiglie detiene oltre la metà della ricchezza. 

Ecco perché la patrimoniale, anche per ragioni di solidarietà e di redistribuzione, era ed è indispensabile. Se non ora, quando? 

La patrimoniale avrebbe potuto evitare anche le ulteriori picconate al sistema pensionistico con l’estensione del metodo contributivo a tutti i lavoratori, con l’aumento dell’età di uscita, “parificando” uomini e donne solo negli svantaggi. 

E inoltre, anziché intervenire sulle detrazioni fiscali per i lavoratori dipendenti o provvedere alla restituzione del “fiscal drag”, non si è esitato a ridurre il meccanismo di adeguamento delle pensioni al costo della vita! 

Ma davvero si può pensare che le debolezze del tessuto produttivo, l’insufficiente competitività di settori dell’industria e dei servizi per la carenza di tecnologia avanzata e per gli esigui investimenti nella ricerca scientifica possano essere colmate, per reggere la concorrenza internazionale, attaccando lo Statuto dei lavoratori, il contratto collettivo nazionale, le conquiste di legislazione sociale e riducendo welfare e costo del lavoro? 

Anche la maggiorazione dell’IVA, anziché aumentare l’IRPEF per i più ricchi, non va certamente in direzione dell’equità, dell’allargamento della domanda interna, cioè dei consumi privati e pubblici e quindi dell’aumento della crescita necessaria per poter ridurre il rapporto tra debito e PIL. 

Già il precedente aumento di un punto percentuale dell’IVA ha prodotto, al di là dell’aspetto regressivo dell’imposta, un ingiustificato incremento dei prezzi, senza che nessun controllo sia intervenuto per evitarlo. La maggiore IVA prevista dal primo decreto Monti, tra l’altro relativamente ai beni di lusso, ben poteva invece estendersi ad altri beni, che non sono costituiti solo da auto di potenza superiore, da barche e da aerei privati. 

A questo si aggiunga il caro benzina, che è diventato la nuova tassa sul macinato. 

Ben altro si poteva e si può introdurre per eliminare quella caterva di norme e di ingiustificate agevolazioni fiscali (tranne quelle a forte contenuto sociale previste per le famiglie, per i diversamente abili e per i meno abbienti), che consentono di evadere ed eludere l’obbligo fiscale. 

Il prelievo aggiuntivo dell’1,5% sui capitali esportati illegalmente e poi rimpatriati con lo “scudo fiscale” pagando solo il 5% è assolutamente irrisorio. La Germania ha ottenuto un accordo con il governo svizzero, per cui incasserà quattro miliardi per una imposta annuale del 26% sui redditi prodotti dai patrimoni di cittadini tedeschi in Svizzera in cambio del mantenimento del segreto bancario. Intanto i capitali italiani all’estero sono tutt’ora valutati in circa 150 miliardi. Di quelli rientrati circa il 70% proviene dalla Svizzera! 

Dal 1 gennaio 2012 decorrerà l’IMU, l’imposta municipale unica, che sarà calcolata sulle rendite catastali rivalutate. Anche le prime case di abitazione saranno tassate, mentre il Governo Prodi aveva di fatto esentato dal pagamento dell’ICI quasi il 60% delle famiglie. 

La sola imposta di bollo sui conti correnti sfiora appena, ma non tocca la ricchezza finanziaria in modo rilevante. 

I problemi da affrontare non potranno essere risolti senza riaffermare il principio della capacità contributiva e della progressività delle imposte a tutti i livelli. Occorre la patrimoniale, aumentare le aliquote IRPEF per i redditi più alti, reintrodurre l’imposta di successione salvaguardando le eredità di piccole dimensioni. Ma questo Governo non sembra voler percorrere questa via di equità. Il Governo non è intenzionato ad “armonizzare” in termini di riequilibrio la tassazione delle rendite finanziarie. Malgrado gli annunci, nessuna iniziativa concreta è stata varata per abolire gli enti inutili e gli sprechi in tanti settori, né a ridurre le spese militari nel settore degli armamenti e quelle per le missioni all’estero a cominciare da quella in Afghanistan. Nessuna iniziativa a livello internazionale è stata avviata per l’introduzione di una imposta sulle transazioni finanziarie con una aliquota dello 0,05% applicata globalmente, dal momento che la finanza non ha pagato nulla per la crisi che ha determinato. Il Governo non ha intenzione di promuovere una azione congiunta contro i paradisi fiscali, la cui lista si è solo un poco ristretta. Né sembra voler agire perché vengano proibite le vendite allo scoperto, per abolire o quantomeno regolamentare adeguatamente ed efficacemente i prodotti finanziari “derivati”, né perché venga istituita un’agenzia di rating pubblica europea per contrastare l’operato perverso delle tre maggiori agenzie di rating, soggetti privati, che con le loro valutazioni incidono sull’andamento delle borse di tutto il mondo, sull’affidabilità dei titoli di Stato, delle banche e delle società, contribuendo spesso a falsare le regole del gioco. 

La crisi economico-finanziaria ha messo ancora più in luce le debolezze strutturali del nostro paese, che investono il tessuto produttivo, estremamente frammentato con scarsa presenza di grandi aziende, e con il 90% di aziende di piccole dimensioni, le quali hanno difficoltà ad accedere anche al credito e ad investire nella ricerca. Debolezze derivano anche dall’insufficiente competitività di alcuni settori dell’industria italiana e dei servizi: carenza di tecnologia avanzata, deficit di creatività per quanto concerne i brevetti (in particolare nel campo farmaceutico), esigui investimenti nella ricerca scientifica con conseguente fuga di cervelli. In sostanza per l’assenza di una politica industriale e di una politica di programmazione economica atta ad affrontare i problemi che il processo della globalizzazione pone. Quello che preoccupa dal punto di vista della tenuta e del futuro del paese è che si continua da parte di autorevoli esponenti del Governo sempre più insistentemente ad indicare una via d’uscita dalle persistenti difficoltà in un programma di privatizzazioni e di dismissioni delle stesse partecipazioni azionarie dello Stato e degli Enti Pubblici, ivi comprese le municipalizzate, in barba agli stessi risultati del recente referendum. Si tratta di aziende strategiche per l’economia nazionale, le sole tra l’altro che possono investire ingenti somme nella ricerca scientifica e nella innovazione, come la Finmeccanica, l’ENEL, l’ENI, la Fincantieri, la Terna, nonché le poste SpA, la più grossa “Banca” di raccolta del risparmio, la SACE, la RAI e la stessa Cassa di Depositi e Prestiti. 

I provvedimenti sinora adottati hanno comportato un ulteriore depauperamento dei salari reali rispetto al valore della forza lavoro, mentre i profitti dal 1993 sono andati aumentando. La crisi finanziaria non ha impedito alle Banche ed alle Assicurazioni di realizzare consistenti utili. Ancora recentemente, con il denaro dei contribuenti europei, le banche hanno ottenuto dalla BCE prestiti all’1% e quelle italiane hanno guadagnato ben 18 miliardi acquistando titoli del debito pubblico con interessi anche superiori al 5%. Tutto questo per i limiti stessi del Trattato, perché la BCE, a differenza della FED negli USA e delle banche centrali di Inghilterra e di Giappone, non è “prestatore di ultima istanza”, potendo intervenire solo sul mercato secondario nell’acquisto dei titoli sotto attacco dell’alta finanza internazionale. Le banche hanno quindi guadagnato tra interessi passivi da pagare ed interessi attivi da riscuotere, ma hanno praticato la politica della lesina nella erogazione dei prestiti a imprese e a famiglie. 

Occorre che, in questo contesto e con il vento nuovo che soffia dalla Francia, si operi a livello europeo perché venga trasformata la funzione della BCE, perché vengano assunte appropriate misure per la crescita e per una politica industriale europea, nonché perché si recepiscano almeno alcune proposte avanzate da tempo: quella di tenere conto nella determinazione dei parametri anche dei criteri della disoccupazione giovanile e dei lavoratori anziani e l’altra, pure avanzata da Delors, di “procedere verso la mutualità parziale e progressiva dei debiti dei paesi dell’euro con l’emissione di eurobond sino al 60 % del PIL, come pure è previsto nei trattati”. 

Insomma, in periodo di forte disoccupazione, una politica volta essenzialmente alla riduzione della spesa pubblica e dei servizi sociali non è perseguibile se non a prezzo di una miseria pubblica dei più a fronte di una ricchezza privata sempre più intollerabile. Le diseguaglianze retributive sono uno scandalo insopportabile. 

Da questo punto di vista le risposte neo keynesiane sono necessarie, anche se insufficienti, perché i problemi e le debolezze del nostro paese sono strutturali soprattutto nel settore industriale, senza ignorare che il terziario oggi impegna i due terzi della forza lavoro. Per uscire dalla crisi occorre un mix di ricette, che non possono essere solo keynesiane, almeno in Italia, ove vanno riscoperti i principi della programmazione economica, dell’intervento diretto dello Stato nell’economia con il rilancio del sistema di economia mista, cui è improntata la Costituzione repubblicana, vincolando incentivi a favore delle imprese all’aumento dell’occupazione, della innovazione tecnologica e alle nuove produzioni eco-compatibili 

In conclusione è il modello liberista, che si vuole continuare a perseguire, che è fallito. 

Dalla crisi non si esce e non si uscirà con meno welfare, con meno intervento pubblico, con meno sindacato, con meno Stato, ma soltanto con più giustizia sociale, con più stato di sicurezza sociale, con più investimenti nella ricerca e nell’innovazione di processo e di prodotto e soprattutto con l’allargamento della domanda interna.