Spunti marxiani per una riflessione sulla democrazia partecipativa

di Marco Esposito, del Comitato Federale PdCI Napoli

mani silhouetteNell’ultimo ventennio, la crisi della politica in Italia ha prodotto un ampio dibattito sullo squilibrio strutturale del nostro sistema e, più in generale, su quanto la forma stessa di democrazia parlamentare otto-novecentesca sia ormai obsoleta e inadeguata alle rapide e complesse trasformazioni della società contemporanea. Un problema, in realtà, con cui, sia pure in forme e modi diversi, si sta misurando l’intero Occidente democratico, ma che da noi languirebbe ancora nelle strettoie politico-culturali del misoneismo italico.

Nelle ultime legislature, tuttavia, il Parlamento italiano sembra essere stato affetto da “smania” riformistica proprio in tema politico e istituzionale. Il risultato è stato piuttosto deludente: riforme corrive ed estemporanee, o lambiccamenti costituzionali.

Delle prime, chiaro esempio sono le molteplici modifiche alla legge elettorale nazionale, che da preludio a una revisione dell’architettura dello Stato, da realizzarsi in modo graduale e ponderato, si è trasformata quasi in punto programmatico dei singoli partititi: laddove non sia stata varata nella legislatura corrente, si è invocato l’ostruzionismo della parte avversa, con anche l’esibizione di senso democratico e istituzionale che sconsiglia prove di forze delle maggioranze su leggi ordinarie d’interesse generale; e così è rientrata nel programma elettorale per la legislatura seguente. Dei secondi, parlano invece le tante e inconcludenti bozze e proposte di riforma costituzionale, licenziate, o naufragate ancor prima di essere discusse, da altrettanto inconcludenti Commissioni di studio, monocamerali, o bicamerali, che si sono succedute nel tempo.1 Da un lato, dunque, riforme elettorali ammantate di alti principi, quali la rappresentatività e la governabilità, ma nella sostanza dettate da misera contabilità parlamentare; dall’altro, l’ipertrofia della speculazione costituzionalistica, garanzia in sé di fallimento attuativo e, dunque, d’immobilismo.

Credo che la ragione sottostante sia il permanente istinto di conservazione del potere: le maggiori forze politiche del Paese si mostrano refrattarie a promuovere riforme rispondenti ai cambiamenti del tessuto economico-sociale, quando queste pregiudichino l’egemonia partitica, o anche solo espongano a rischi troppo imprevedibili di cessione di sovranità. Di qui il riformismo simulato, o meglio sub condicione, in ambito politico-istituzionale, posto in essere sia dalla Destra che dal Centro-Sinistra; cui corrisponde, in materia economica e sociale, un riformismo autoritario, calato dall’alto, che la Destra attua per naturale tutela d’interessi capitalistici e finanziari, ma che la Sinistra “di governo” ha fatto proprio per un fervore liberista viatico di modernità. Ma torniamo al versante politico-istituzionale.

È agevole scorgere in tale pulsione riformistica un macroscopico difetto di lettura e interpretazione della società, nonché di una fase ideativa conseguente; l’ideazione si risolve al più nell’accomodare modelli stranieri. Il fio maggiore lo stanno pagando i Ds-Pd, grandi eredi dei due partiti popolari di massa del Novecento, eppure dimentichi della loro tradizione, e incapaci di elaborazione politica radicata ai vasti mutamenti sociali. Nondimeno la Sinistra radicale e progressista, paradosso della Storia, per contrastare i reiterati e rozzi tentativi di manomissione istituzionale e costituzionale della Destra, e la correa arrendevolezza del Centro-Sinistra, si trova spesso arroccata in difese preconcette e “teologiche” della Costituzione repubblicana, di là dall’esame del «che cosa conservare e perché».

La larga affermazione di liste e movimenti civici nelle ultime amministrative, ai danni non solo delle coalizioni di Centro-Sinistra, ma anche del Pdl e della stessa Lega – il cui forte radicamento territoriale, all’emergere della gestione opaca e familistica del partito, non è valso ad arginare la sconfitta elettorale – ha ravvivato e centrato il confronto politico su questioni di fondo: il sussulto anti-politico sollecita riflessioni sulla “democrazia partecipativa” e sul ruolo e funzione dei partiti.

Il ritorno a Marx in grande stile – studiosi di formazione marxista e non – sta riguardando principalmente il suo pensiero economico, com’è naturale nell’attuale fase di dilemmi strategici sull’uscita dalla dura e prolungata crisi economica e finanziaria; non manca tuttavia di nutrire anche la riflessione critica sugli aspetti di dottrina politica e istituzionale richiamati sopra. Ho l’impressione, però, che il campo marxista tenda a privilegiare l’astrattezza teorica, con la convinzione che la ripresa di Marx possa darsi astoricamente, in quanto sufficientemente legittimata dai cedimenti della democrazia liberale, senza cioè partire dallo stallo patito dalla Sinistra europea, e da quella marxista in particolare, nell’ultimo ventennio. Tanto più che ad aggiungere astrattezza vi è il fatto che, in assenza di una sistematica teoria marxiana dello Stato, ricorre ancora la tendenza a mettere in coerenza postuma i molteplici riferimenti sparsi nell’opera omnia di Marx o, comunque, per il tramite autorevole di Engels o Lenin. Più proficuo mi parrebbe ricongiungersi alle menti critiche più acute che, prossimi la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’URSS e la fine del Pci, già tentavano negli anni ’80 del secolo scorso un ripensamento profondo e non frettolosamente liquidatorio di Marx, piuttosto che ritornare a un dogmatica marxista autolegittimata dalla dissoluzione, vera o presunta, del liberalismo.

Il mio intento è soffermarmi qui su ragionamenti marxiani che possano tornare utili a comprendere l’attuale compressione democratica e prospettare nuovi spazi d’intervento. Non cercherò pertanto di ricomporre un’organica dottrina politico-istituzionale di Marx, né affronterò le connesse questioni di sviluppo del pensiero marxiano – Marx “umanista” e “scienziato”; materialismo storico e dialettico -, che peraltro esulerebbero dalle mie competenze. Mi limiterò ad alcune considerazioni sulla rappresentanza democratica e sul partito politico.

Democrazia diretta e rappresentanza democratica

Nella nota opera giovanile Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Marx commenta diffusamente la parte dedicata da Hegel alla deputazione nei Lineamenti di filosofia del Diritto. Vale la pena iniziare dall’Aggiunta hegeliana, riportata nel testo di Marx, che verte sulla fiducia come sostanza della deputazione:

La rappresentanza si fonda sulla fiducia, ma la fiducia è qualcosa d’altro dal dare, io come tale, il mio voto. La maggioranza dei voti è parimente contraria al principio che, in quel che mi deve obbligare, devo esser presente io come tale. Si ha fiducia in un uomo quando si ritiene suo intendimento di trattare la mia cosa come cosa sua, secondo la sua migliore conoscenza e coscienza (Marx, 1842-43, p. 137).

Qui Hegel qualifica il rapporto fiduciario alla base della rappresentanza come irriducibile a un mandato privatistico fra mandante e mandatario: il criterio di maggioranza sottrae di per sé al voto singolo l’aspettativa che il rappresentante curi interessi particolari, giacché implica che l’elettore contragga a priori l’obbligazione all’osservanza legislativa, proprio in quanto ha riposto fiducia nella migliore conoscenza e coscienza degli interessi generali da parte dei deputati.

La critica marxiana è rivolta all’assunto che i deputati conoscano meglio gli affari generali dello Stato. Per Marx, il ragionamento di Hegel si regge su un sofisma: la scelta di deputati con migliore intendimento richiederebbe che i mandanti potessero scegliere se discutere e decidere direttamente gli affari generali oppure delegare ad altri, il che è l’esatto contrario dell’idea hegeliana secondo cui il potere legislativo della società civile sta solo ed essenzialmente nella deputazione (Ivi, pp. 136-137). Ne è prova la separatezza stessa dell’assemblea legislativa:

[…] i deputati della società civile si costituiscono in un’«assemblea», e questa assemblea soltanto è la reale esistenza politica e volontà della società civile. La separazione dello Stato politico dalla società civile si manifesta come separazione dei delegati dai loro mandanti. La società delega semplicemente gli elementi della sua esistenza politica (Ivi, p. 137).

È noto che Marx vede la separazione hegeliana fra Stato e società civile come l’esito della distinzione fra cittadino e borghese realizzata dalla Rivoluzione francese.2 Da un lato, vi è il bourgeois che guarda alla sfera degli interessi privati, dall’altro, il citoyen che agisce come membro della comunità politica. Costruito sulla scissione fra sfera privata e politica, lo Stato moderno si configura come entità astratta, che si ascrive la tutela universale del bene comune, ma, di fatto, disciplina solo formalmente ed esteriormente la società reale, lasciandone intatti la natura classista e i conflitti.3 Fintantoché sussiste dunque questa statualità politica astratta e separata, anche le costituzioni ne saranno un riflesso inerte e differiranno fra loro solo come pure forme politiche. In tal senso, a giudizio di Marx, risulta meramente formale la distinzione, ad esempio, fra le costituzioni americana e prussiana:«là la repubblica è dunque una semplice forma politica come è qui la monarchia: il contenuto dello Stato si trova al di fuori di queste costituzioni» (Ivi, p. 43).

Come si sa, in questo periodo giovanile, la via d’uscita indicata da Marx è la democrazia radicale. Egli confida che la democrazia, in quanto strumento della compiuta autodeterminazione del popolo, vanifichi lo Stato politico astratto e le sue vuote creature costituzionali; certo, ammette che la repubblica è la forma politica astratta della democrazia, ma come tale è destinata a perire, quando la “vera democrazia” assorbe in sé tutta la reale funzione politica:

In tutti gli Stati che differiscono dalla democrazia, lo Stato, la legge, la costituzione, dominano senza dominare realmente, cioè senza penetrare materialmente il contenuto delle restanti sfere non politiche. Nella democrazia la costituzione, la legge, lo Stato stesso, sono semplicemente un’autodeterminazione del popolo, un contenuto determinato del popolo, per quanto esso contenuto è costituzione politica (Marx, 1842-43, p. 42).

Quest’idea di democrazia radicale, di riconosciuta matrice roussoiana, ha come corollario fondamentale l’elezione diretta e illimitata. E Marx argomenta con estrema puntualità:

L’elezione è il rapporto reale, della reale società civile alla società civile del potere legislativo, all’elemento rappresentativo. Ossia l’elezione è il rapporto immediato, diretto, non meramente rappresentativo ma reale, della società civile con lo Stato politico. S’intende quindi da sé che l’elezione costituisce l’interesse politico fondamentale della società civile reale. Soltanto nell’elezione illimitata, sia attiva che passiva, la società civile si solleva realmente all’astrazione da se stessa, all’esistenza politica come sua vera esistenza generale, essenziale. Ma il compimento di questa astrazione è al contempo la soppressione dell’astrazione. Quando la società civile ha realmente posto la sua esistenza politica come la sua vera esistenza, ha contemporaneamente posto la sua esistenza civile, nella sua distinzione da quella politica, come inessenziale; e con una delle parti separate cade l’altra, il suo contrario (Marx, 1842-43, pp. 134-135).

Può fermarsi qui la citazione dei brani; nell’arco di qualche mese, Marx orienterà la riflessione sull’emancipazione universale dell’uomo, realizzabile solo attraverso una rivoluzione radicale che ha come soggetto il proletariato. Verrò più avanti ai testi in questione – in particolare, Sulla questione ebraica -, non per seguire la genesi teoretica di “democrazia proletaria” e “dittatura del proletariato”, ma perché considero l’analitica sui diritti, in essi sviluppata, chiarificatrice oggi della progressiva e acritica assunzione a Sinistra del personalismo e, ancor più, delle lotte per i diritti individuali.

Uno sguardo all’attuale contesto politico in Italia, che vede persino l’assenza dei partiti comunisti in Parlamento, vieta vagheggiamenti di rivoluzione radicale e proletaria. Non si tratta di resa della visione strategica al tatticismo politico, bensì di far scaturire dalla situazione data le prospettive di cambiamento, quanto profondo e radicale si voglia. Le fasi di crisi generano sempre fascinazione rivoluzionaria; ma bisogna guardarsi dal confondere il desiderio di palingenesi con la certezza che ne siano maturate le condizioni storiche.4 Vi è il rischio di dare per scontata la consunzione del modello liberal-capitalista, anziché affinare i mezzi critici per capire e contrastare la sua multiforme e sofisticata ristrutturazione.

Trovo perciò di maggiore realismo e interesse indagare le ragioni politiche per cui le pressanti richieste di forme rinnovate della partecipazione democratica, diretta e dal basso, provengano dal movimento Cinquestelle, da liste civiche di amministratori locali; il tutto nel totale oblio di quanto rilevante sia stato il tema della democrazia popolare nella tradizione comunista. Esiste in materia una solida base teorica – Marx, Engels, Lenin, Gramsci – che rende paradossale il fatto che tali istanze democratiche vengano tematizzate dai movimenti della società civile, avvertite cruciali da buona parte dell’astensionismo deluso di sinistra, blandite da forze politiche moderate, e non siano invece rivendicate con decisione al patrimonio ideale del Socialismo. Ridefinire e consolidare questa cornice teorica potrebbe attivare una prassi politica di Sinistra, più fondata di quanto non conceda la spontaneità istintiva del “movimentismo”, e certo meno esposta ai camuffamenti demagogici o populistici.

Nei passi citati dalla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, tre sono i punti che meritano di essere ricondotti all’attualità politica: a) la scelta della società civile in merito agli affari generali fra decisione diretta e delega; b) la divaricazione fra assemblea legislativa e società civile; c) l’elezione illimitata e diretta dei rappresentanti.

Quanto al primo punto, rileva notare che Marx introduce il principio della scelta preliminare, collegandolo al rapporto fiduciario. Non rifiuta a priori la delega, ma pone in capo alla società civile anche l’alternativa fra decisione diretta e delega, per contrastare la concezione hegeliana della deputazione che attribuisce fideisticamente ai rappresentanti la migliore conoscenza del bene comune, sol perché costoro in precedenza hanno dato prova di senso dello Stato. Di fatto, sono la burocrazia legislativa, quel “pensionato” statale di ex magistrati ed ex funzionari posto a presidio degli interessi delle corporazioni. A giudizio di Marx, invece, perché la società civile svolga reale funzione politica deve porsi in contatto reale con il problema di ordine generale, e quindi operare la scelta se trattarlo direttamente oppure designare rappresentati di maggiore competenza.

Il livello di complessità e articolazione raggiunto dalla società odierna pone tuttavia un problema: ammesso che, in linea di principio, qualunque provvedimento legislativo investe la collettività, è pensabile che ogni membro della società sia chiamato a una costante deliberazione di fondo fra risoluzione diretta e delega? Oppure è inevitabile una gerarchia dei problemi generali sulla cui base attivare il tipo di risoluzione adatto? E se è così, a chi spetta stabilire il grado di generalità implicato?

Prima di avanzare possibili risposte, una breve digressione su politica e “senso dello Stato”. Il deterioramento progressivo di senso dello Stato nella politica italiana è denuncia fra le più diffuse e ricorrenti. Eppure l’espressione si presta oggettivamente a una duplice declinazione. Il richiamo a un maggior senso dello Stato coincide troppo spesso con azioni governative contro i lavoratori per non apparire sospetto. Lo spregiudicato neoliberismo ha costruito a proprio sostegno una retorica del “senso dello Stato”, che viene attivata come deterrente politico-sociale, al fine di tacitare, o almeno limitare, l’opposizione e il contrasto. Ha stretta parentela con quel “senso di responsabilità” salmodiato là dove s’intraveda netto dissenso politico o dura vertenza sindacale.

Detto ciò, però, se è vero che l’esortazione è divenuta strumento per indurre ad accettare come ineluttabile la conservazione capitalistica, non può tuttavia non ammettersi che una forza politica di Sinistra oggi necessiti, ancor più di ieri, di recuperare un senso autentico dello Stato, inteso come moralità pubblica e rigore democratico. La ferma difesa delle istituzioni democratiche, soprattutto in momenti di attacco ai diritti e alle conquiste dei lavoratori – com’è quello attuale -, rappresenta la salvaguardia dello spazio politico entro cui poter incidere sulla struttura economico-sociale stessa; tanto più se altri spazi (culturale, associativo, sindacale) si sono fortemente alienati, come conferma il declino di rappresentanza dei partiti di Sinistra radicale e comunisti. Il Pci degli anni settanta del novecento che presidia la Repubblica democratica contro il terrorismo rosso, intuendone la perniciosità per il movimento operaio, è una pagina di “senso dello stato” scritta dai comunisti, che non andrebbe dimenticata.

Torno alla questione degli affari generali e della decisione fra esercizio diretto e delega. Il fattore numerico è non secondario. L’assunzione piena e reale, auspicata da Marx, delle scelte politiche da parte della società civile è destinata ad incontrare evidenti ostacoli di fattibilità al crescere della popolazione coinvolta. Un corpo sociale di centinaia di migliaia o milioni d’individui adulti – l’ordine di grandezza degli Stati o delle Confederazioni di Stati contemporanei – rende problematico un largo coinvolgimento attivo nel processo decisionale e fa aumentare proporzionalmente le percentuali di esclusione e astensionismo,5 che si tratti, secondo lo schema marxiano qui riprodotto, di decisione preliminare, diretta o delegante. Né vale, secondo me, l’obiezione che strumenti informatici e Internet favoriscono, e faciliteranno sempre più, l’ampliamento della base decisionale nella società. Intanto, constatiamo che allo stato, anche in Paesi avanzati, ci sono ancora ampi strati di popolazione che non hanno accesso alla tecnologia informatica, per indigenza o distanza anagrafica. Ma anche volendo prefigurarsi un’elevata alfabetizzazione tecnologica, resta un problema di fondo: quanto è realistica un’immensa comunità deliberante in Rete che operi contemporaneamente? Porzioni cospicue di società in sospensione simultanea dalle attività, che, nel caso in cui proliferasse la materia deliberanda, determinerebbe paralisi produttiva e relazionale; senza contare il tempo richiesto dall’informazione e dal dibattito preliminari.

Verrebbe allora da credere che la fattibilità deliberativa diretta risulti più agevole con assemblee popolari ristrette a piccoli ambiti territoriali o istituzionali. Va tuttavia ricordato che negli anni settanta fu proprio il Pci a farsi promotore di un “assemblearismo” diffuso – quartieri, scuole – volto a radicare capillarmente nella società la partecipazione democratica: alla luce degli esiti politici successivi, ne va riconosciuto il sostanziale fallimento. Quella parcellizzazione assembleare non estese gli spazi decisionali, perché «era anche il risultato di una cultura politica nutrita del pensiero ingenuo che far nascere un’assemblea significava già di per sé aver creato un’occasione di democrazia, e che il resto sarebbe inevitabilmente venuto» (Schiavone, 1985, p. 100).

In stretta connessione con il fattore numerico, c’è poi quello più delicato della “consapevolezza politica”. La deliberazione di massa presuppone un alto tasso di politicizzazione, non come ideologismo, ma nel senso marxista della non separabilità fra sfera civile e politica. La coscienza civica è categoria politicamente neutra solo se risvegliata dall’urgenza momentanea, mentre ogni scelta civica che voglia superare la mera testimonianza non può che essere organica a una visione complessiva, politica, della società. Sennonché, dagli ottanta del secolo scorso, si è andata producendo nella collettività una frattura sempre più profonda proprio fra il civico e il politico, con progressiva valorizzazione del primo a danno del secondo. Quanto più si identificava politico con partitico, e i partiti, compresi quelli di Sinistra, venivano percepiti come centri di gestione del potere o comitati d’affari, tanto più disillusione e rifiuto screditavano insieme partiti e politica.

Questa mutazione partitocratica della politica ha isterilito l’elaborazione teorica e ha finito per depoliticizzare ulteriormente la società, con conseguenti confusioni e slittamenti fra tradizioni ideologiche e culturali anche profondamente diverse. Va da sé che il “disimpegno” odierno non si concilia affatto con la costruzione di una larga coscienza politica, un processo peraltro che anche in fasi di forte impegno si è rivelato molto meno ramificato di quanto si pensi.6 Del resto, è condivisibile la posizione di chi, come Schiavone, imputa al disorientamento culturale gran parte dell’insuccesso politico che, alla fine degli anni settanta, ha chiuso l’esperimento d’inclusione democratica tramite la “rete delle assemblee”:

Un’intera leva di potenziali quadri e dirigenti delle nuove strutture – nella scuola e nei quartieri – che si era gettata con entusiasmo nell’impresa, e che guardava al Pci come al principale garante della nuova esperienza – bruciò rapidamente speranze e disponibilità in un tentativo che si rivelava sempre più inappagante, frustrante, incapace di produrre novità positive che potessero incidere davvero e lasciare il segno. Una enorme quantità di energie fu abbandonata sempre più a se stessa, senza una guida, un orientamento, senza che venissero offerti strumenti culturali adeguati per tentare di razionalizzare il lavoro e gli sforzi (Schiavone, 1985, p. 99).

Questo ragionamento ha un nucleo di validità generale, che credo trascenda quella particolare parentesi storico-politica del nostro Paese. Le forme radicali di democrazia partecipativa esigono sempre e comunque un surplus di politicità, non solo per evitare l’inconcludenza delle energie collettive prive d’indirizzo politico – come lamentava Schiavone -, ma anche, e direi soprattutto, per mantenere alta la soglia della vigilanza politica “dal basso”, nella misura in cui tali forme sono sempre esposte alla degenerazione demagogica e plebiscitaria, la quale fa leva sul carattere mutevole e istintuale potenzialmente eccitabile in ogni decisione popolare diretta.7 Basti pensare all’esito eventuale di consultazioni referendarie se indette prima o dopo accadimenti emotivamente impattanti sulla collettività, come mostrano le forti oscillazioni misurate dai sondaggi d’opinione.

Vale ora la pena un esame del referendum, strumento vigente di democrazia diretta. Dal 1974 ad oggi si sono tenuti in Italia 66 referendum abrogativi. L’insieme dei dati d’affluenza rivela che la partecipazione negli anni è calata progressivamente. Fatta eccezione per la prima consultazione, quella del ’74 sul divorzio, la sola a registrare l’affluenza record dell’87,7% degli aventi diritto, e per la seconda del ’78 (Ordine pubblico – Finanziamento pubblico dei partiti) con l’81,2%, dalla terza in poi l’affluenza non ha mai più superato la soglia dell’80%. La massiccia partecipazione popolare ai primi due referendum si spiega facilmente con la novità di un istituto che, dopo quasi trent’anni, dava per la prima volta voce alla volontà diretta dei cittadini: ancorché presente in Costituzione, soltanto nel 1970 arrivò la legge attuativa del Parlamento (l. 25 maggio 1970, n. 352).

La terza e la quarta tornata referendaria (1981: tra gli altri quesiti, Legge 194 sull’aborto; 1985: Scala mobile) superano ancora con margine ampio il quorum di validità, rispettivamente 79,4% e 77,9%: la fiducia nell’efficacia decisionale del referendum sembra tenere. Già, però, due anni dopo, l’interesse partecipativo dà chiari segnali di flessione: nonostante i principali quesiti referendari del 1987 vertano sul “nucleare”, peraltro a solo un anno dal disastro di Chernobyl, l’affluenza scende al 65,1%.

Gli anni novanta si aprono con la prima battuta d’arresto referendaria: i referendum sulla caccia e i pesticidi del giugno ’90 sono invalidati per mancato raggiungimento del quorum (43% circa). I tre successivi referendum (1991, 1993, 1995) riguadagnano la validità, anche se soltanto il secondo ritorna ad un’affluenza superiore al 70% – sarà l’ultima volta nella storia referendaria -, mentre il primo supera di poco il 60% e il terzo si attesta intorno al 57-58%. Va ricordato che le consultazioni del ’91 e del ’93 presentano richieste abrogative inerenti al sistema elettorale, la cui radicale riforma veniva avvertita già da qualche anno dall’opinione pubblica come non più differibile, a dispetto dell’inerzia del legislatore. Di qui l’esito positivo del quesito singolo sulla riduzione delle preferenze da 3 a 1 per la Camera (1991), e l’effetto “traino” del quesito circa il maggioritario al Senato sugli altri 7 della medesima consultazione (1993). Parentesi a sé costituisce il raggruppamento dei ben 12 quesiti nel referendum del ’95, i quali se, per un verso, sanciscono nel responso per lo più l’euforia per contagio del nascente liberismo berlusconiano – liberalizzazioni, privatizzazioni -, per l’altro, pongono di fatto la pietra tombale sull’istituto referendario in Italia, come comprovato dal quorum risicato.

Dal 1997 al 2009 il corpo referendario è chiamato a esprimersi per altre sei volte, per un totale di 24 quesiti su materie le più disparate (dall’obiezione di coscienza all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, dalla separazione delle carriere dei magistrati alla procreazione medicalmente assistita): una debacle completa, con affluenze modeste, da un minimo del 23% a un massimo del 49,6% (materia elettorale).

Infine, dopo quattordici anni di autismo referendario, nel 2011 l’istituto riacquista senso, sia pure con una percentuale d’affluenza – circa 55% – non proprio esaltante (2 quesiti su “Acqua Bene Comune”, 1 sul nucleare, 1 sul “Legittimo impedimento”).

A questo punto, occorre chiedersi perché da quasi vent’anni la società sia così renitente alla prassi referendaria , e vi rinunci proprio quando con sempre più forza invoca opportunità di democrazia diretta. Al di là delle ragioni estrinseche, che pure sono rintracciabili – eccesso e oscurità dei quesiti, questioni di rilevanza marginale o troppo tecnica -, a mio giudizio il problema è strettamente politico e investe la crisi italiana della rappresentanza parlamentare e del sistema dei partiti.

La crisi politico-istituzionale nel nostro Paese ha iniziato a manifestarsi in modo progressivo negli anni ottanta del secolo scorso, ma è dagli anni novanta ad oggi che essa reca i tratti più acuti. La parabola referendaria sembra rispecchiare il passaggio cruciale dalla “prima” alla “seconda” Repubblica. I referendum degli anni ottanta appaiono ancora fungere da correttivo e stimolo all’azione d’indirizzo politico del Parlamento, verso cui cresce la diffidenza, ma non c’è ancora totale sfiducia. I referendum del ’91 e del ’93 – rispettivamente, a ridosso di Tangentopoli e del primo governo Berlusconi – possono leggersi come il tentativo estremo di costringere il sistema politico-istituzionale ad autoriformarsi, con l’individuazione della riforma elettorale come “lavacro” partitocratico.8 Della consultazione referendaria del ’95 si è già detto. Di lì in poi, la lenta e inesorabile rottura fra società civile e rappresentanza politica si traduce anche nella sistematica rinuncia a esercitare la sovranità popolare diretta: l’istituto referendario viene avvertito come formale, inefficace, sia perché incapace di far giungere istanze di riforma “dal basso”, sia perché impotente a sollecitare autoriforme nel sistema politico – emblematico, in tal senso, è il fatto che, nei quattordici anni di astensionismo referendario, anche i 5 quesiti di riforma elettorale abbiano avuto pari sorte degli altri.

Con autentica lungimiranza, già nel lontano 1978, la Corte Costituzionale aveva ben scorto nel referendum abrogativo le delicate implicanze con la corretta delimitazione fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, pena pericolose distorsioni della sovranità popolare. Nel dichiarare l’inammissibilità del quesito referendario inerente a 97 articoli del codice penale, in dissenso con i promotori del referendum, che ritenevano spettasse al giudizio politico degli elettori valutarne la maggiore o minore chiarezza e precisione, la Consulta argomentava:

Effettivamente, libertà dei promotori delle richieste di referendum e libertà degli elettori chiamati a valutare le richieste stesse non vanno confuse fra loro: in quanto è ben vero che la presentazione delle richieste rappresenta l’avvio necessario del procedimento destinato a concludersi con la consultazione popolare; ma non è meno vero che la sovranità del popolo non comporta la sovranità dei promotori e che il popolo stesso dev’esser garantito, in questa sede, nell’esercizio del suo potere sovrano. Uno strumento essenziale di democrazia diretta, quale il referendum abrogativo, non può essere infatti trasformato – insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie (sentenza n. 16 del 1978).

Il monito dei giudici costituzionali, volto a garantire la sovranità popolare da surrettizi plebisciti politici, da un lato, ribadisce la chiara e precisa formulazione come principio intangibile a tutela del potere sovrano, dall’altro, richiama partiti e comitati alla piena e autonoma responsabilità dell’azione politica. La vicenda referendaria a venire andrà ben oltre – come si è visto – lo scenario paventato dalla Consulta, palesando la mancata assunzione di tale responsabilità, con effetti impropri di delega o surroga, che l’elettore ha sanzionato disertando le urne.

Non v’è dubbio che il ritorno a una partecipazione utile nel referendum del 2011 sia legata all’oggetto dei quesiti, in particolare, i due relativi all’acqua come bene pubblico. In piena crisi economica, la richiesta abrogativa di norme che consentivano profitti privati su un bene comune primario ha risvegliato la volontà popolare di esercitare la propria sovranità, e non già per decidere di diritti civili o strumentario elettorale, e tanto meno di tecnicismi istituzionali o amministrativi, bensì per incidere su un elemento economico strutturale e bloccare una fonte di accumulazione capitalistica. Referendum politici, dunque, e non di pura coscienza civica.

Prima di entrare nella seconda questione della critica marxiana a Hegel, giova un accenno al movimento popolare che in Islanda, a seguito della crisi economica del 2008, ha promosso un processo di revisione costituzionale, indicato come modello esemplare di partecipazione popolare dai novelli vati della democrazia diretta, anche in Italia. È bene tener presente che si parla di un Paese di circa 320.000 abitanti, grosso modo un quartiere di una grande metropoli, il cui elettorato attivo corrisponde presumibilmente a quello di un nostro medio Comune. Pur anche con questi numeri esigui, il procedimento costituente nella sostanza non si è discostato dalla tradizione parlamentaristica. Nel novembre 2010 i cittadini islandesi hanno votato per eleggere i 25 componenti la “Consulta Costituzionale” incaricata di redigere una bozza di riforma. La scelta fra i 522 candidati, espressione della società civile e senza tessere di partito, è stata operata dal 36% degli aventi diritto; francamente un po’ poco per parlare di vasta partecipazione popolare. Certo, nel periodo dei lavori, attraverso Internet ed assemblee di base, la Consulta è stata in contatto costante con i cittadini e ha condiviso le scelte, ma la proposta di riforma licenziata è al vaglio di una apposita Commissione parlamentare e sarà oggetto di un ulteriore referendum popolare per l’approvazione. A parte qualche miglioria tecnologica, da un punto di vista procedurale non mi sembra essere un quadro particolarmente innovativo di democrazia diretta. Semmai c’è da riflettere sul dato politico: i partiti politici hanno recepito l’istanza di cambiamento proveniente dai cittadini, arretrando in un ruolo di controllo parlamentare.

Passiamo ora alla divaricazione fra società civile e assemblea legislativa. Un primo spunto critico ci viene offerto proprio dalla prassi referendaria italiana tratteggiata poc’anzi. La graduale sfiducia è indubbio che sia scaturita anche dal fatto che, in più di un caso, pur all’esito di un inequivocabile responso abrogativo, le forze politiche parlamentari abbiano disatteso il mandato popolare, o ignorandolo del tutto o aggirandolo surrettiziamente. Grottesco è stato il trucco nominalistico per mantenere i ministeri dell’Agricoltura e del Turismo e Spettacolo aboliti in sede referendaria; e non diverso è stato lo spregio democratico mostrato dalle forze del Parlamento nel camuffare il finanziamento pubblico ai partiti sotto la nuova dicitura di rimborsi elettorali; e questo di là dalle molte obiezioni che solleverei su un sistema di finanziamento privato ai partiti. La credibilità dell’azione politica parlamentare si offusca anche con siffatti strappi costituzionali alla sovranità popolare. Ma c’è di più.

Conviene ancora riandare all’origine dell’esperienza referendaria italiana. Tra gli anni settanta e ottanta, i maggiori promotori di referendum furono i Radicali, i quali se ne servirono come nuovo strumento politico. Il Partito Radicale aveva l’ambizioso progetto, cui l’istituto referendario era funzionale, di accreditarsi come nuova Sinistra libertaria a spese del Pci del “compromesso storico”, che, secondo loro, avrebbe finito per pagare in termini elettorali lo snaturamento governativo. Che gran parte dei referendum dei Radicali vertessero sui diritti civili comprova il loro orientamento libertario. Da parte sua, il Pci degli anni ottanta, di fronte alla perdita di consenso ed esaurita la spinta riformatrice del decennio precedente, cercò di compensare il deficit d’ideazione politica rendendosi sempre più permeabile a questa esogena salvaguardia dei diritti individuali. Dismessi marxismo e tradizione comunista, il Pds-Ds li avrebbe conglobati con acritica naiveté nella propria azione politica, senza vaglio ideologico e culturale.

Ma la questione decisiva è che una forza di Sinistra non può imperniarsi sulla politica dei diritti e rinunciare a politiche di riforme di struttura economico-sociali: risulta compromessa la sua stessa identità ideale e culturale. Questa politica libertaria di Sinistra difetta nel presupposto secondo cui la giustizia sociale passi attraverso l’estensione dei diritti individuali; in realtà, a spingere in direzione dei diritti si finisce inconsapevolmente irretiti nel liberalismo, che, per usare una felice definizione di Michéa, è, per sua natura, una ideologia “a doppia entrata”: Diritto e Mercato sono coessenziali e inscindibili.9 A voler schematizzare, la parabola dei Radicali, con le disinvolte alleanze ora con Berlusconi ora con il Pd, sembra la conferma che la politica dei diritti è di per sé interscambiabile, da Destra a Sinistra e viceversa.

Il riflesso legislativo di questa “fluidità” d’indirizzo politico è storia recente. Il senso di distanza fra Parlamento e società civile è certo da imputarsi alla desertificazione politico-istituzione del ventennio berlusconiano. Ma solo in parte: anche nelle parentesi di maggioranza parlamentare, la Sinistra ha disorientato il suo storico elettorato di riferimento, da un lato, intraprendendo battaglie libertarie, dall’altro, cedendo a un controriformismo economico-sociale. Oggi la convenienza fa additare a “male assoluto” la politica come arricchimento personale e disprezzo dell’interesse comune, prodotta da questa Destra corsara; forse alla Sinistra italiana gioverebbe di più una seria autocritica sui propri errori, che sono concausa della sfiducia verso i partiti e la rappresentanza parlamentare.

D’altra parte, se si guarda ai numeri dell’attività legislativa del Parlamento italiano dal 1996 a oggi, abbiamo qualche riscontro in più: a fronte di 227 leggi approvate in tema di Diritto e Giustizia, ve ne sono soltanto 11 in tema di Tutela dei lavoratori, Sindacati e sicurezza nel lavoro, e 8 (sic!) inerenti a Mezzogiorno e aree depresse. Occorrerebbe sceverare il dato grezzo, e comprendere quante di queste 227 leggi insistano in stretto ambito tecnico-giuridico – riforma codicistica, legislazione antimafia, ratifiche di Trattati internazionali ed europei -, e quante invece contengano norme attributive o estensive di diritti e libertà della persona. Ad ogni modo, ritengo che tale numero riveli il marcato accento procedurale che la politica ha conferito all’attività legislativa.

La Sinistra dovrebbe pertanto far proprie la riflessioni che Claudio Napoleoni dedicava nel lontano 1985 al concetto marxiano di alienazione: essa è più favorita – si domandava – in rapporto a una struttura di classe omogenea,

Ovvero è più favorita da una struttura sociale differenziata, che potrebbe esibire una ricchezza di contenuti e di articolazioni suggestiva di una perdurante libertà, ma che, proprio in forza di questa differenziazione, potrebbe perdere la nozione di una violenza comune che tutti, in generale, subiscano? (Napoleoni, 1992, p. 168).

La realtà odierna sembra aver dissolto il dubbio: la globalizzazione ha accresciuto la complessità e la diversificazione della struttura sociale, e tocchiamo con mano un’alienazione economico-sociale ben occultata dietro la suggestione di libertà nuove e plurime. Non si tratta ovviamente di disconoscere la rilevanza democratica dei fondamentali diritti civili e politici, ma chiedersi il senso del lottare per i “nuovi diritti”, là dove perdura e si aggrava il problema della traduzione sostanziale delle libertà negative in libertà positive, già costituzionalmente sancite. Velleitario e superfluo è ambire a nuove libertà, se i cosiddetti diritti sociali – sanità, lavoro, istruzione – vengono conculcati a causa di opzioni politiche liberiste, che non solo non rimuovono gli ostacoli di ordine economico e sociale, ma ne frappongono altri e più forti. Per reggere, questa struttura economico-sociale capitalistica ha bisogno di svuotare i fondamentali diritti sociali, che alcun nuovo profilo di libertà soggettive può reintegrare.10 Come arguisce, infatti, Marx,

Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoistico, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall’essere l’uomo inteso in essi come specie, la stessa vita della specie, la società, appar piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica (Marx, 1974, p. 73).

E vengo all’ultimo tema: l’elezione dei rappresentanti. Come si è visto, Marx sostiene che «l’elezione costituisce l’interesse politico fondamentale della società civile reale» (supra, p. 4). Attraverso l’elezione, la società civile annulla la distanza con il potere legislativo e istaura con esso un rapporto reale e non meramente rappresentativo. Le limitazioni all’elettorato attivo e passivo del tempo di Marx oggi sono, almeno formalmente, superate, e il suffragio universale è un caposaldo democratico; ciò nondimeno l’elezione viene avvertita dai più come spazio di democrazia residuale e inefficace.

Il motivo è che si è andati ben oltre la separatezza dei rappresentanti dalla società civile che Marx condanna nello stato hegeliano. Oggi, in Italia, non si tratta di avere a che fare con un apparato burocratico-statale che si astrae dai conflitti sociali e fornisce legittimazione politico-legislativa al dominio borghese; la percezione è quella di un ceto i cui membri cercano nella politica una copertura al tornaconto personale in termini di lucro e potere. Detto altrimenti, all’alleanza strutturale fra classe politica e capitale, fondata su interessi convergenti, è subentrato un sistema di patti di scopo che singoli politici o consorterie ristrette di politici stringono con settori dell’imprenditoria o della finanza giusto il tempo della transazione. Reco due esempi che dimostrano e contrario questa metamorfosi individualista e predatoria dei nuovi attori politici.

Quando nel ’92 venne alla luce il sistema di tangenti a molte forze politiche dell’arco costituzionale, i segretari e i tesorieri dei partiti coinvolti si trincerarono spesso dietro l’illecito finanziamento, con l’intento di negare l’arricchimento individuale e derubricare le responsabilità soggettive in condotta comune, senza dubbio disdicevole, ma necessitata dagli alti costi della politica. Che fosse vero o meno, resta il dato che allora anche la ruberia personale doveva passare per partiti forti, con strutture e organizzazioni infiltrate nel tessuto sociale. In tal senso, l’urgenza della “questione morale”, rimarcata da Berlinguer nell’arcinota intervista a Scalfari del luglio ’81, e l’altrettanto celebre discorso del «Tutti sanno», pronunciato da Craxi alla Camera nel luglio del ’92, possono considerarsi denunce di segno diverso ma che condividevano un presupposto: la responsabilità era in primis politica e imputabile ai partiti.

Il secondo esempio è attualità. La richiesta pressante di politici onesti e competenti da parte di Confindustria cela in realtà l’odierno disorientamento verso la frantumazione stessa della classe politica. Serve il ritorno di un ceto politico compatto perché serve un interlocutore affidabile per ripristinare l’alleanza strutturale e stabile fra capitale e politica. Poi nell’apparato politico è tollerabile persino un margine di parassitismo; diversamente, o va replicato il governo “tecnico” Monti, oppure si è già pronti alla candidatura diretta di autorevoli esponenti del mondo confindustriale.

Per arrestare l’affarismo egoistico dei rappresentanti parlamentari è tornata in auge l’elezione con vincolo di mandato revocabile: ne sono sostenitori i grillini, sull’esempio del Piratenpartei tedesco, ma vi aderiscono anche associazioni e movimenti di Sinistra impegnati nella ricerca di modelli democratici alternativi. La revocabilità del mandato elettivo è per questi ultimi un perno della democrazia partecipativa, con annessa dogmatica marxista, desunta all’occorrenza dagli scritti sulla Comune di Parigi:

La Comune si sbarazza completamente della gerarchia politica e sostituisce i capi altezzosi del popolo con personale revocabile in ogni momento; rimpiazza una responsabilità illusoria con una responsabilità reale, dal momento che questi delegati agiscono permanentemente sotto il controllo del popolo (Marx, 1871, pp. 218-219).

Sono bastati, quindi, i grandi sviluppi della tecnologia informatica a rinfocolare la convinzione sulla revoca della delega, visto che il trasferimento dell’esperienza comunarda ad un sistema parlamentare moderno lo si riteneva in definitiva mera questione tecnico-pratica;11 e così, una volta risolta, la democrazia potrebbe evolversi in senso radicale dotandosi dello strumento basilare dell’elezione diretta, il mandato imperativo e costantemente revocabile. Per parte mia, sul piano pratico, rinvio alle medesime obiezioni di sopra circa le deliberazioni popolari in Rete. Più cogenti, invece, sono le riserve di ordine politico.

Mi limito all’ipotesi meno estrema, quella che attribuisce ancora ai partiti la determinazione del contenuto del mandato imperativo e rimette al corpo elettorale il controllo costante in forza del potere di revoca. L’argomento varrà a fortiori per il modello elettorale più estremo, che attribuisce alla base popolare anche la prima funzione.

A mio giudizio, vi è un difetto d’impostazione nell’idea che il parlamentare adempia correttamente il mandato solo se soggetto alla vigilanza diretta della società civile. Abbiamo il combinato disposto di due a priori: fiducia incondizionata nell’elettore, titolare in sé di giustezza e opportunità decisionale; fiducia condizionata nei partiti, che al più devono elaborare programmi elettorali e compilare liste di candidati. Il corpo elettorale metterebbe sotto tutela il parlamentare per esercitarla indirettamente sul partito.

È dunque da accantonare la possibilità di un controllo diretto sui partiti, controllo che i cittadini potrebbero praticare a monte del processo politico, con il contributo attivo all’elaborazione programmatica, e a valle, con revoca del voto al partito, e congiuntamente ai suoi rappresentanti, quando il programma sia stato tradito o disatteso? Forse no.

Condizione necessaria è naturalmente che i partiti recuperino peso e credibilità nell’ideazione politico-culturale, il principale, se non l’unico concreto attrattore di energie sociali, al di là dei luoghi comuni sul partito moderno, aperto e flessibile. Una prossimità rinnovata, dunque, fra partiti culturalmente forti e cittadini impegnati, che riconduca le organizzazioni partitiche alla piena responsabilità dell’azione politica, ivi comprese la designazione dei parlamentari, le loro scelte e condotte. Distanziare, infatti, gli eletti dai partiti, significherebbe, in ultima istanza, legittimare e accentuare la già contratta progettualità politica, a tutto vantaggio di un sistema segmentato in singoli rapporti fra il parlamentare e il collegio elettorale, e per giunta con la fibrillazione costante di mandati che possono saltare da un momento all’altro. Per non parlare del rischio che la revocabilità del mandato, diretta e continua, si trasformi in strumento per subornare il parlamentare in favore d’interessi territoriali ristretti o corporativi, sopravvenuti a seguito di patti nei collegi elettorali.

Il partito politico: nuovi compiti e responsabilità

Dal breve esame delle tre questioni marxiane, emerge dunque con tutta evidenza come nel recente collasso democratico stia giocando un ruolo decisivo la perdita d’identità popolare dei partiti. Non si può non vedere che è anzitutto la chiusura autoreferenziale delle organizzazioni politiche ad aver prodotto guasti rilevanti nell’esercizio democratico.

Come si è notato, in Italia, da almeno vent’anni, il grande assente dalla politica è stato paradossalmente il partito: esiti referendari disattesi, legiferazione avulsa, personalismo esasperato. Perdendo aderenza sociale, i partiti hanno svuotato lo spazio democratico: un vuoto di ordinaria democrazia prima ancora che di democrazia partecipativa. Ci sarebbe infatti da chiedersi se per caso la democrazia diretta, da alternativa politico-istituzionale, non sia divenuta piuttosto una suggestiva via d’uscita dal degrado e dalle distorsioni della democrazia rappresentativa tout court.

Nei fatti, un partito non più cerniera e mediatore fra la società e lo Stato relega il cittadino ad una interlocuzione solitaria con le istituzioni, obbligandolo all’individualismo, oppure a cercare orizzontalmente nella società l’interlocutore collettivo che di volta in volta dia forza alle proprie istanze. Se poi è la Sinistra a spezzare i legami con la base sociale, il risultato è esiziale.

Non stupisce che sia stato Berlusconi il primo a concepire un partito-persona: è coerente con i suoi trascorsi imprenditoriali e la sua concezione utilitaristica della politica e delle istituzioni. Preoccupa invece non poco la progressiva curvatura personalistica dell’intero quadro politico italiano, da Berlusconi in poi. Le forme sono indubbiamente più miti rispetto al modello berlusconiano del partito con il capo-azienda, ma anche in formazioni di Sinistra, l’identificazione fra leader e partito è viepiù pronunciata.12 Ed è ancor più singolare che proprio un movimento d’impegno politico “dal basso” e antipartitico come Cinquestelle abbia il simbolo registrato ad uso esclusivo del fondatore: la registrazione del marchio in capo al padrone del partito – va ricordato – ha il precedente illustre nel prodotto Forza Italia.

Diversi segnali di accentramento personale giungono da amministrazioni locali e partiti che hanno conquistato consenso col verbo dell’apertura democratica alla “gente comune”; la contraddizione è solo apparente, dal momento che l’inerzia politica ha svilito la fiducia democratica e al contempo ha alimentato il credo nelle guide carismatiche, le quali sono state spesso così astute da fiutare quella sfiducia ed ergersi a demiurgici restitutori di sovranità popolare. Stiamo cioè sperimentando un insidioso prototipo di reazione alla crisi strutturale della democrazia dei partiti, che è cosa diversa dalla minaccia totalitaria sia del capo-unico13 che del partito-unico, e che, con pertinenza lessicale, Asor Rosa ha definito «democrazia totalitaria»:

Ci avviamo verso una strana forma di «dittatura» di tipo democratico-populistico, fondata (almeno per ora!) sul consenso ed esercitata con un astuto mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. O, se sembra troppo forte la parola dittatura, potrei usare la formula «democrazia totalitaria»: essa conserva gli aspetti formali della rappresentanza, ma appare sempre più difficile rintracciarvi gli strumenti per modificare gli attuali assetti di potere (Asor Rosa, 2009, p. 132).

Esiste una via d’uscita da sinistra alla personalizzazione dei partiti? Probabilmente sì; sempre che s’inverta il criterio d’ordine fra leader ed idee: un partito dove siano le idee sostegno degli uomini e non gli uomini supplenza delle idee. I partiti popolari di massa del novecento, e il Pci fra essi, hanno avuto nella loro storia segretari politici e gruppi dirigenti di spiccata personalità, eppure la netta cornice politico-culturale entro cui agivano costituì l’antidoto naturale all’eclissi del partito dietro il leader del momento. Non mancarono visioni settarie e dogmatiche, rigidità burocratiche e gerarchiche, ma nel primato della passione ideale dei vertici del partito masse di donne e uomini vi si rispecchiarono e trovarono la certezza che si stava lottando per una comune emancipazione economico-sociale.

La Sinistra italiana post-comunista si è disfatta di Marx come del maggiore intralcio a un riformismo moderno, persino liberale, purché al passo con i tempi e i nuovi assetti sociali, e all’altezza delle sfide poste dall’economia globalizzata. Le grandi sacche di povertà, ingiustizia, sfruttamento, antiche e nuove, dovrebbero in realtà far riflettere sul fatto che un partito di Sinistra può «mummificarsi e diventare anacronistico» non tanto se resta ancorato al “vetero-marxismo”, quanto se non ha la capacità di essere altro dai partiti che «non sempre […] sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche, non sempre sanno svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza (e quindi posizione relativa delle loro classi) nel paese determinato o nel campo internazionale» (Gramsci, 1975, p. 1604).

Ma adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche esige studio, approfondimento, elaborazione teorica; e su ciò considero ancora fondamentale la lezione di Gramsci:

Le classi esprimono i partiti, i partiti elaborano gli uomini di Stato e di governo, i dirigenti della società civile e della società politica. Ci deve essere un certo rapporto utile e fruttuoso in queste manifestazioni e in queste funzioni. Non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di sviluppo della classe rappresentata. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili. Quindi miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria (Gramsci, 1975, p. 387).

Un partito di Sinistra, tanto progressista quanto comunista, non può limitarsi a recepire la protesta sociale e ad adattarvi la propria politica con soluzioni isolate e contingenti, ma deve saper anticipare con acume teorico i processi di trasformazione economica, sociale, istituzionale, cogliendone le scaturigini strutturali. Di qui, la visione organica della realtà, la propria proposta politica e l’azione volta cambiamento; cui Marx potrà senz’altro continuare a suggerire qualcosa di utile, anche in termini di rinnovata utopia, «intendendo con questa parola semplicemente una prospettiva di mutamento, che riguardi aspetti di fondo del vivere sociale oggi e che sia formulata con strumenti teorici che stiano al di là di quelli possibili agli specialismi delle “scienze sociali”» (Napoleoni, 1992, p. 169). La Sinistra è chiamata a misurarsi con l’utopia del presente; un’utopia molto più difficile di qualunque “sole dell’avvenire”14.

Bibliografia

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Marco Esposito
Membro del Comitato federale di Napoli PdCI
 
NOTE
 

1 Dal 1983 al 1997 le sole Commissioni bicamerali sono state ben tre: Bozzi (1983-1985), De Mita-Iotti (1993-1994), D’Alema (1997).

2 «Soltanto la Rivoluzione francese condusse a termine la trasformazione delle classi politiche in sociali, ovvero fece delle differenze di classe della società civile soltanto delle differenze sociali, delle differenze della vita privata, che sono senza significato nella vita politica. Fu con ciò compiuta la separazione di vita politica e di società civile» (Marx, 1842-43, p. 94).

3 Per una diversa valutazione di Hegel quale principale teorico dello stato borghese, si veda (Bobbio, 1976, pp. 30-31).

4 Un esempio su tutti: in un profluvio di saggi, da più di vent’anni Toni Negri profetizza il “nuovo potere costituente” che andrà oltre lo Stato liberal-borghese. Seducente, se non fosse che nulla di preciso è detto sulla nuova forma di Stato e che il soggetto rivoluzionario sarebbe questa intellettualità-massa dove entra indistintamente ogni fenomeno insurrezionale: la banlieue e la primavera araba, gli indignados e i lavoratori postfordisti. Sul punto mi limito a segnalare gli ultimi (Negri, 2012) e (Hardt & Negri, 2011).

5 Interessante è al riguardo l’osservazione di Canfora: «Difficile credere […] che l’enorme massa dei non-votanti, per esempio negli Stati Uniti d’America, approdi a tale scelta perché capillarmente influenzata dalla assidua frequentazione del pensiero ‘elistico’, pensiero che – come si sa – pone l’accento sul sostanziale potere di élites non esposte al logoramento elettorale. È preferibile pensare, piuttosto, che gruppi intellettuali o comunque ben acculturati, per un verso, e, per l’altro, masse che nemmeno si pongono il problema di andare a ritirare il certificato elettorale (in Usa esso non raggiunge l’elettore ma dev’essere raggiunto) si mescolino e si intreccino» (Canfora, 2009, p. 4).

6 Emblematico è in proposito il bilancio tracciato da Ginsborg per gli anni 1968-73 in Italia: «Larghi settori della società italiana erano insensibili non solo a un’ideologia rivoluzionaria, ma anche alla più semplice coscienza politica. Il quartiere Garibaldi-Isola, situato nel cuore di Milano, era, come si è visto, uno dei centri dell’agitazione politica e della lotta per la casa in quegli anni. Un sondaggio del 1971-72 tra gli immigrati del quartiere rivelò tuttavia che l’87 per cento di essi aveva scarsissima conoscenza delle organizzazioni politiche del vicinato. Nelle più importanti fabbriche settentrionali la coscienza politica era senza dubbio più alta, ma sia al Nord che al Centro molte zone e luoghi di lavoro non furono nemmeno sfiorati dall’“autunno caldo” malgrado l’attivismo sindacale sul territorio; ciò valeva per le piccole fabbriche, per gran parte degli artigiani e dei commercianti, per le aree rurali e per molti settori dei ceti medi» (Ginsborg, 1989, pp. 460-461).

7 Nella critica a Hegel, Marx non nega l’instabilità dell’“opinione soggettiva”, ma è convinto che essa cessi con la dimensione politica effettiva: «Certo, in uno Stato reale la “pura fiducia”, l’“opinione soggettiva”, non bastano. Ma nello Stato costruito da Hegel il sentimento politico della società civile è una mera opinione, precisamente perché l’esistenza politica di essa società è una astrazione dalla sua esistenza reale; precisamente perché l’insieme dello Stato non è l’oggettivazione del sentimento politico» (Marx, 1842-43, p. 139).

8 Per un’ampia ricognizione del rapporto fra referendum e rappresentanza politica in Italia, cfr. (Papa, 1998, pp. 216-239).

9 Sulla inscindibilità di liberalismo politico e liberalismo economico si veda l’ottimo saggio (Michéa, 2008).

10 Un paio d’anni dopo Napoleoni, anche Colajanni osservava: «Accantonando il concetto di struttura sociale la sinistra rischia di ridursi al ruolo subalterno di correzione delle insufficienze, di sostenitrice di diritti purché siano compatibili con la struttura sociale capitalistica. Ma è appunto questa struttura sociale a impedire che i diritti siano soddisfatti. Quindi se la lotta per il cambiamento non investe in primo luogo la struttura, l’accento sui diritti non basta a compensare una sostanziale impotenza. Il cambiamento di struttura sociale non può essere sostituito dai nuovi diritti o dal potere dell’informazione» (Colajanni, 1987, p. 24).

11 Si veda a mo’ d’esempio “Un sistema elettorale che potrebbe piacere a Marx ed Engels”, in appendice all’articolo (Screpanti, 2007).

12 Per un’acuta disamina della “democrazia personale” di Sinistra e le ragioni di una rivalutazione del partito politico cfr. (Bazzocchi, 2012).

13 Ancora stringenti appaiono le parole di Gramsci circa la genesi del capo carismatico in periodi di crisi organica dei partiti: «A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici» (Gramsci, 1975, pp. 1602-1603).

14 In questa prospettiva, penso che Marx possa essere recuperato all’utopia, senza arrivare all’estremo di gettar via l’utopista e conservare lo scienziato, come propone Carandini nel suo eccellente saggio Un altro Marx (Carandini, 2005).