Dall’illegittimità del revisionismo costituzionale alle spire dell’ideologia del “capo”

di Salvatore D’Albergo per Marx21.it

parlamento votoCosa c’è dietro l’ambigua formula coniata dai “saggi” di “governo parlamentare del premier”

L’arbitrarietà della deroga alle regole prescritte per il procedimento di revisione costituzionale sta già producendo gli effetti cui si è mirato, sottraendo alle due Camere ogni iniziativa per l’autonoma impostazione del modello da contrapporre alla forma di stato e di governo vigente. Il pretesto per questa anomala procedura è stato messo in luce dal presidente del consiglio, secondo cui, dietro lo slogan diffuso di recente per cui la nostra costituzione è “bella”, andrebbe però fatta seguire l’affermazione che il cosiddetto “bello” riguarderebbe soltanto la “prima” parte, al contrario della “seconda”, dedita all’organizzazione della forma di stato e della forma di governo.


Ciò va rimarcato, proprio perché l’originalità della Costituzione del 1948 ha il suo punto di forza nella stretta interrelazione tra i principi volti all’instaurazione di una democrazia economico-sociale e quelli concernenti i criteri organizzativi di una democrazia articolata sul pluralismo sociale e politico in grado di superare i limiti tradizionali del liberismo ottocentesco, per dare corpo nelle assemblee elettive alle riforme idonee a fare della democrazia politica l’asse dell’edificazione di nuovi rapporti tra politica e mercato, in una prospettiva a medio e lungo termine di trasformazione economico-sociale.

Il comitato di esperti che il governo ha nominato per precostituire un modello da dare in lettura alle Camere, che sarebbero così solo ridotte al ruolo di ratifica, ha annunciato i principali criteri cui si dovrebbe attenere per capovolgere il ruolo della Seconda parte della Costituzione, tramutandola sostanzialmente in un succedaneo della Prima, per ottenere l’emanazione di un modello in base al quale conta più “chi decide” nell’attività politico-legislativa, anziché la scelta di un processo di sviluppo dei rapporti sociali cui conformare l’azione politico-parlamentare.

Perciò, l’affidamento a un gruppo selezionato di giuristi estranei alla vita politica punta all’obiettivo di isolare le questioni istituzionali dalla qualità dei rapporti su cui la forma di governo deve articolare i suoi rapporti, in modo tale che scompaia ogni ispirazione ideologica che è alla base della Costituzione del 1948, e rifulga il primato dell’ideologia “giuridica” elaborata in sede di interpretazione dei vari modelli emersi e nella storia dei vari ordinamenti dell’Occidente capitalistico per “razionalizzare” tutte le questioni sollevate dalle dinamiche democratico-sociali, alla luce di superiori esigenze di stabilità dei rapporti tra le classi tramite istituzioni rispondenti alla logica della “governabilità” degli assetti di potere esistenti, contro ogni rischio di impostazione di sistemi di potere di tipo nuovo.

È in questa prospettiva che si staglia la formula che riassume il lavoro del comitato dei 35 “saggi”: “governo parlamentare del premier”. Essa nella sua semantica è inedita, perché intesa a forzare, facendoli compenetrare tra loro, i caratteri di forme di governo diverse tra loro, e ciò con l’intento perentorio di superare le alchimie via via assunte in diversi modelli di forme di governo, in nome dell’esigenza principale di porre un “capo” al vertice di un sistema di rapporti che faccia solo da sgabello al “dominus” sia delle elezioni parlamentari, che delle strutture portanti politico-amministrative dello stato.

Non si è esitato perciò, proprio da parte di esperti che dovrebbero essere al di sopra di ogni sospetto, a coniare uno slogan che è sommatoria di una contraddizione tra quel che può risultare come un “governo parlamentare” e quel che può assimilarsi a un “governo del premier”, che, come tale, è estraneo al governo parlamentare e si attaglia soltanto al cosiddetto “governo di gabinetto” raffigurante il sistema britannico, prototipo del “bipartitismo”, in parallelo col sistema statunitense (che però ha la forma del presidenzialismo).

Se poi si potesse correttamente ritenere che la formula del “governo parlamentare del premier”, pur nella sua contraddittorietà, sia idonea a rappresentare in astratto i simboli di una forma di governo storicamente affermatasi, sarebbe necessario prendere in considerazione il “cancellierato” tedesco.

Per eludere i problemi dell’assimilabilità al meccanismo britannico del modello implicito nello slogan del “governo parlamentare del premier”, e, nello stesso tempo, evitare di enfatizzare il “Kanzlerprinzip” inerente la struttura costituzionale della Germania di Bonn, si è voluto imporre al Parlamento l’adozione di una forma di governo in cui si elevi al di sopra di ogni organo costituzionale il “capo” come emblema della contrapposizione tra società politica e società civile.

Non è, infatti, un caso che si parli in modo mistificatorio di “democrazia governante” o di “democrazia protetta”. Si intende in tal modo trasformare la forma di stato e la forma di governo mediante strutture di potere che, in nome del “capo” (premier, cancelliere, presidente), pongano al riparo le strutture burocratiche dello stato dalle domande di una società, esclusa così dall’organizzazione, cui è riservato il compito di decidere: la democrazia è relegata ai margini e tenuta fuori degli ambiti decisionali.

Ne viene che in tale contesto ogni riferimento alla natura del bicameralismo, al numero dei deputati, al ruolo rispettivo di Camera e Senato va visto sia come problema di contorno, sia come “esca” rivolta a trascinare sul terreno principale della questione del “capo” quanti si attardano a transigere su questioni di cosiddetta “manutenzione” della Costituzione.

Il concetto sfuggente e manipolativo di “manutenzione” si presta infatti a convergenze ambigue e utili alla prevaricazione di quelle forze che, sin dall’entrata in vigore della Costituzione del 1948, aspirano a farne saltare i principi-cardine, in base ai quali tra la democrazia parlamentare e il governo del “capo” vi è una contraddizione insanabile.

Tanto più che a riprova dei rischi che incombono, il comitato dei “saggi” ha lanciato la proposta di istituire la cosiddetta “sfiducia costruttiva”. Tale marchingegno fu inventato dalle forze che hanno circuito i partiti nella fase di elaborazione della costituzione di Bonn, per restringere ogni spazio di autonomia politica ai partiti interessati a modificare i rapporti parlamentari: si vietò, con un criterio intrinsecamente incostituzionale, la possibilità di accordi politico-parlamentari che puntino alla caduta del governo, ma che non siano già tali da sostituire il governo da sfiduciare con un’altra combinazione, che presuppone il dispiegarsi libero e pieno della dialettica politica.

Si tratta di una dilatazione del principio di “governabilità” sino agli estremi di una logica che porta al restringimento della libertà democratica: si fa passare per “costruttivo” l’adagiarsi dei partiti in comportamenti subalterni alle alchimie compatibili con le esigenze dei “capi” aspiranti alla stabilizzazione intrinseca al cancellierato.

Si brandisce la “governabilità” come criterio ulteriore di compressione delle dinamiche democratiche, con l’adozione di metodi elettorali incostituzionali. Infatti, il cosiddetto “abbattimento alla base” di percentuali di votanti, mira consapevolmente a creare una continuità tra i regimi ottocenteschi, che negavano lo stesso diritto al voto, e quelli contemporanei, che lo negano ex post a carico di quanti non si conformino alle pretese escludenti delle coalizioni a cosiddetta “vocazione maggioritaria”.

E tale vizio è così perverso e duro a morire, che lo stesso comitato di “saggi” è costretto ad indugiare in una prassi di rinvio delle modifiche della legge elettorale vigente, perché la mente degli ideologi della razionalizzazione è inquinata dall’incombere di spinte opportunistiche disorientate e disorientanti, pur di negare il ricorso all’unico metodo elettorale democratico che è costituito dal proporzionale “puro” (o “integrale”).