Marasma istituzionale e distruzione sociale

di Salvatore D’Albergo per Marx21.it

parlamento italianoMai come in questi frangenti ha acquistato pienezza di riflessi l’interdipendenza tra lotta di classe e disfunzione delle istituzioni, in un Paese che era risorto ricostruendo e rilegittimando lo Stato per dare nuovo fondamento alla dialettica sociale. In una prospettiva di democratizzazione oggi sommersa da vizi e degenerazioni da cui nulla si salva nell’organizzazione del potere dal processo di logoramento che sconta la parte sana della società. Cioè quella che è ostacolata nell’esercizio dei diritti più elementari proprio perché il potere delle masse non ha più punti di approdo in un sistema dominato da oligarchie “privatistiche”. Si sta scontando, infatti, sino alle estreme conseguenze il prezzo del “revirement”cui si è giunti tra gli anni ’80 e ’90 ad opera di quegli epigoni della rivoluzione democratica e antifascista che – rompendo con gli ideali e i progetti forieri di una democrazia avanzata – hanno avviato una fase del nuovo “trasformismo” come espressione parlamentare di un’azione egemonica (intellettuale, morale e politica) sviluppata dai gruppi di potere dominante: nel passaggio dalla “palude” democristiana, al protagonismo di un “partito-azienda” portatore di una ideologia liberista incautamente avallata dai “riformisti”, quali degeneri eredi di una tradizione ispirata nel mondo laico e cattolico a ideali di trasformazione sociale.

L’operazione in corso, agevolata da un “europeismo” volto a cancellare con le identità nazionali i caratteri specifici di una coscienza di classe come coscienza critica in lotta contro il conformismo vecchio e nuovo, sta dando luogo allo snaturamento di ogni rapporto non solo sociale, ma anche politico e istituzionale, per l’impossibilità del movimento operaio di riprendere un’autonoma iniziativa di lotta sotto i colpi di una crisi che crea disorientamento e impedisce di riattivare quella unità di elaborazione teorica e di prassi sociale e politica da cui dipende la possibilità di rientrare nell’orbita della Costituzione del 1948, da cui si sta scivolando pericolosamente giorno dopo giorno, con la violazione di ogni principio di democrazia formale e sostanziale in essa fissato.

Va pertanto denunciata con fermezza pari a quella necessaria a contestare la politica antisociale di un liberismo incapace di organizzare la crescita economica senza l’aiuto di uno Stato falsamente demonizzato, anche la contestuale dequalificazione di un sistema politico divenuto garante di consorterie e di camorre che riecheggiano vizi di un’epoca che sembrava ormai alle spalle, quando i partiti come forma organizzata non erano che agli albori, con tutte le implicazioni nefaste da cui risulta che non siano immuni persino gli esponenti più emergenti della politica nazionale, con trascinamento dannoso per l’insieme delle istituzioni centrali e locali della Repubblica.

Il che avviene sempre più incontrollabilmente non solo perché i partiti che si sono costruiti con leggi elettorali “manipolate”un’area esclusiva di potere minano ogni possibilità di dialettica democratica con verticismi recintati da consensi populisti e ristretti: ma anche perché il lavorio ormai trentennale volto a delegittimare la Costituzione, pur non avendo ancora raggiunto il pieno obiettivo di sostituire la forma di stato e la forma di governo che in modo del tutto originale segnano il modello della Repubblica fondata sul lavoro e sulla centralità del Parlamento e del sistema delle assemblee elettive, ha comunque avuto l’effetto di corrompere sia le culture che più avevano fatto da sostegno di tale modello, sia le prassi di applicazione delle norme costituzionali nell’ambito dei rapporti economico-sociali, oltre che nell’ambito dei rapporti istituzionali, e quindi anzitutto di governo.

Occorre riflettere, infatti, sulla passività con cui – a differenza con quanto avvenuto nel caso Gronchi-Tambroni del 1960 – si è accolta la formazione di governi come quelli Ciampi e Dini degli anni ’90, anticipando, in modalità che sono divenute del tutto abnormi nel recente caso Monti, l’insediamento di governi che di “tecnico” hanno di certo la copertura di colpi di stato “freddi”, la cui legittimazione politica si è potuta ritenere valida solo per lo snaturamento del ruolo assolto non solo da chi ha proceduto all’investitura di tali governi, ma anche per la voluttà pienamente trasformistica di quei partiti che hanno convalidato (se non addirittura suggerito) la fuoruscita dall’alveo della Costituzione di organi sempre più separati dalla società a cui indirizzano sermoni.

Solo in tale contesto, nel quale ci si è trascinati alla affannosa ricerca nelle stesse sedi accademiche di convergenze sulla necessità e indilazionabilità di revisioni costituzionali senza confini utilizzando “commissioni bicamerali” (Bozzi, De Mita/Jotti, D’Alema) propedeutiche alla riforma Berlusconi-Bossi respinta dal referendum del 2006, ci si può capacitare del delinearsi di una situazione di vero e proprio marasma istituzionale dalla quale è arduo uscire senza i danni derivanti da uno spirito di assuefazione al peggio che ogni giorno avanza proprio per effetto del grave travisamento in atto sul versante della violazione della Costituzione divenuta una prassi concordata da una serie di collusioni incrociate tra organi di vertice dello Stato, e gruppi di potere della borghesia economico-finanziaria, e di organi di stampa (non solo di proprietà Mediaset).

Com’è possibile, infatti, affrontare con il rigore necessario le reiterate, diverse – giustapposte o contrapposte – progettazioni di potenziamento dell’esecutivo (presidenzialismo “americano”, premierato “inglese” o “israeliano”, semipresidenzialismo “francese”), a loro volta collegate a proposte le più disparate di leggi elettorali “manipolate” di tipo proporzionale o maggioritario, se nel frattempo si rimane in costanza di un governo “tecnico”, “nominato” dal Presidente della Repubblica con tutti i suoi membri estranei alla “rappresentanza parlamentare (anche il Presidente Monti è senatore perché “nominato”, ex art. 59 C.) e poi munito di una fiducia derivante dalla convergenza di partiti tra loro contrapposti, e che perciò ostentano di tenere sulla corda un governo che nella “retorica” delle revisioni costituzionali si vorrebbe “stabile”?

Nella cultura giuridica che tra gli anni ’70 e 2006 si è adoperata per attaccare più o meno organicamente la Costituzione anziché per “interpretarla”, nelle aule universitarie e nella convegnistica, oggi affiora sdegno o riluttanza a intervenire nel clima di crescente disordine sul presupposto che ormai il cambiamento della forma di governo sarebbe maturo, sicché gli stessi partiti sostenitori del governo Monti hanno nei giorni scorsi concordato nella Commissione affari costituzionali del Senato una c.d. “riformetta” che interviene in un contesto di evoluzione delle condizioni politiche della legge elettorale, dei comportamenti politici abituali, dei regolamenti parlamentari, sino al punto di far ritenere che saremmo nei fatti già a una situazione di reale forza del Governo e del suo presidente e di loro superiorità sul Parlamento. 

Dietro le invocazioni di “adattamento”, “adeguamento” della Costituzione all’ideologia della governabilità, si sono così fatte strada, alle spalle di una falsa unanimità su un progetto c.d. “minimo”, due posizioni entrambe da rigettare: l’una già approvata in Commissione e l’altra configurante un modello più emblematico di una scelta incompatibile con la forma di governo parlamentare, presentata nell’Assemblea del Senato in forma di “emendamento” da votare in questi giorni.

In tal modo i due partiti che in forma di una nuova “convergenza parallela” sostengono con il voto il governo che non è espressione dell’indirizzo del Parlamento, ribadiscono dietro fittizie intese una reciproca incompatibilità “tattica” nel comune disegno strategico di esaltare il ruolo dell’esecutivo a carico di quello di Camera e Senato, avendo fatto da battistrada la scelta demagogica – frattanto già adottata – di ridurre il numero dei deputati (da 630 a 508), assecondando una opzione “antiparlamentarista” oggi intrapresa per rispondere farisaicamente alla demagogia della c.d. “antipolitica”, ma che risale addirittura alla fase che in Italia ha visto assestarsi il regime costituzionale fascista quando – nel nome della “riforma della rappresentanza politica” – si stabilì che “il numero dei deputati per tutto il Regno è di quattrocento” (legge 17 maggio 1928, n. 1019, art. 1).

E mentre sulla scia di tale più drastico indirizzo, negli anni ’80 è emerso l’orientamento alla riduzione a 500 deputati, una riconsacrazione del modello del 1928 con il numero di 400 è stata operata nel progetto di legge di revisione costituzionale della “Commissione bicamerale D’Alema” (art.85, primo comma).

Infatti, presupposto di ogni ascendente culturale e politico della riduzione dei parlamentari, più che l’ostentata, demagogica scelta di contenimento della spesa per la “politica”, è la convinzione condivisa da un ampio arco di forze sociali e politiche circa il carattere “subalterno” del parlamento al potere “decisionale” riservato all’esecutivo, destinato a concretare la c.d. “democrazia immediata”, in nome formale, ma a dispetto sostanziale della sovranità popolare.

Conferma di ciò è infatti attestata dalla scelta adottata nella revisione costituzionale Berlusconi-Bossi, sempre all’insegna del fatidico n. 400 (e 200 per il Senato), che è stata respinta dal voto referendario succitato, ma che non è valso neppure da deterrente per il voto in Senato dei giorni scorsi.

Ciò perché a svelare la portata dell’obiettivo di riduzione numerica è il tipo di riforma del procedimento legislativo, elaborata con “tecniche” escogitate per rafforzare il primato del Governo, affinché sia iscritto “con priorità” all’ordine del giorno della Camera che deve esaminare il disegno di legge indicato dall’esecutivo abilitato alla scadenza di tale termine persino a chiedere che “il testo proposto o condiviso dal Governo, sia approvato articolo per articolo, senza emendamenti e con votazione finale”. Né basta, perché a proposito del bicameralismo di cui si è lamentato che sia “paritario”, si vorrebbe innovare – salvo addirittura la possibile opzione per un Senato “federale”, perorato dall’asse Pdl-Lega Nord – nel senso di ammettere l’intervento legislativo della seconda Camera solo se quest’ultima “su proposta di un terzo dei suoi componenti” delibera di disporre il “riesame” entro 15 giorni dall’approvazione del disegno di legge approvato dalla prima Camera: in difetto di che il disegno di legge “si intende definitivamente approvato”.

Anche in questa materia – con “tecniche” più complicate, a seconda dei diversi modelli – siamo in presenza di una linea unificante della medesima ideologia giuridica, sui distinti versanti del potere del Governo di “pilotare” l’attività legislativa a scapito dell’autonomia parlamentare, e del ruolo rispettivamente di Camera e Senato in un concorso sbilanciato al bicameralismo. Per quanto attiene alla “istruzione” del Governo nell’ordine del giorno delle Camere, il progetto D’Alema aveva anticipato la compressione dell’autonomia di entrambe le Camere, con formula analoga a quella testé votata al Senato, nell’art. 102, terzo comma dell’articolato: a sua volta riecheggiando (seppure con modalità meno invasive) quanto contenuto nella famosa legge del 1925 che – nell’istituire la figura del “capo del governo” fascista, addirittura “dominus” dell’ordine del giorno di una delle due Camere – gli attribuì il potere di richiedere la votazione di una proposta rigettata da una delle due Camere, per interferire sul bicameralismo specificamente nel senso che fosse “limitata agli emendamenti” la discussione nella seconda Camera di una proposta di legge già approvata dalla prima con emendamenti (art.6, quarto comma della L. n. 2263/1925). Per quanto poi attiene all’interferenza nel procedimento legislativo, mentre la Commissione D’Alema aveva previsto che il Senato si pronunciasse sulla richiesta di un quinto dei suoi componenti di riesaminare il progetto di legge esaminato alla Camera (art. 100, secondo comma), a sua volta il progetto Berlusconi-Bossi si era profuso in una “tecnica” estremamente minuziosa di articolazione del primato della Camera, negli artt. 13 e 15 del progetto, poi respinto come già accennato dal voto referendario.

Le lagnanze sin qui emerse in ordine sparso, ad opera di studiosi e circoli culturali, dovrebbero fare i conti con quanto sin qui avvenuto consolidando orientamenti eversivi non sorprendenti, poiché senza un approfondimento rigoroso il marasma attuale è destinato ad accrescersi in carenza di rimedi tempestivi, dopo che una sorta di pigra assuefazione si è determinata con la revisione illegittima dell’art. 81 a favore del pareggio di bilancio e della sistematica violazione dell’art. 41 C. per effetto del decreto organico sulle “liberalizzazioni”. Senza una chiamata di correo che denunci i rischi delle intese sotterranee e smentite di Pdl e Pd, non si può affrontare con la necessaria responsabilità la discussione del progetto concordato tra Pdl e Lega Nord sul c.d. “semipresidenzialismo” e sul Senato federale, dovendosi ricordare agli immemori che, sia pure con diversa formulazione, tale tipo di intesa è stata già accolta nel progetto della Commissione D’Alema. Questa è la situazione di pericolo in carenza di dibattito democratico nella società, in un momento come l’attuale di degrado della responsabilità sia della cultura, sia del mondo politico, chiuso nel ghetto delle contese sulla corruzione morale che attanaglia la borghesia, capace solo di cercare soluzioni “bipartitiche” senza alternative alla crisi di una società che ha bisogno di unità ideologica antifascista e democratica, nell’articolazione pluralistica affidabile non a falsi richiami alla “proporzionale” manipolata arbitrariamente in senso “classista”, ma solo alla proporzionale “pura” (integrale) rispecchiante il pluralismo “sociale” prima che “politico”.

Il semipresidenzialismo – che non è solo “francese”, ma la forma di governo ultraverticista estesa a quasi tutta l’Europa politica – a sua volta collegato al metodo elettorale uninominale a due turni – è la canonizzazione non già di una forma di potere “diviso”, ma, al contrario, la forma di un potere di vertice “duplicato”, all’ombra di una collocazione del parlamento come sede subalterna di una dislocazione di indirizzi che sfuggono alle autonome scelte delle forze politiche, avendo la “personalizzazione” presidenzialista della politica sostituito la sovranità popolare. Non a caso, infatti, è sempre più evanescente la stessa partecipazione ad un voto elettorale già edulcorato e svilito, con forme che irridono il suffragio universale ridotto alla formale distribuzione delle schede elettorali, ma annichilito dai “premi di maggioranza” e dagli “abbattimenti alla base”, nelle modellistiche francese, inglese, tedesca, spagnola, greca e così via elencando, nella totale inconsapevolezza degli elettori, solo testimoni di dittature “felpate” e iugulatrici, con aggravamento della distruzione sociale operata dalle scelte di indirizzi economico-finanziari “coperte” da governi sempre più imbelli nell’acquiescenza ai “mercati”.

26 giugno 2012
Salvatore d’Albergo