La notte della madonna

costituzione respectdi Norberto Natali

Siccome è il cinquantenario, bisognerà pure che qualcuno ne parli. 

La sera del 7 dicembre del 1970 (era anche l’anniversario dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, nome in codice “Tora” ripetuto tre volte) ebbe inizio in Italia il piano “Tora Tora”, più noto come il tentato colpo di stato fascista capeggiato dal principe Borghese.


Non era affatto, come poi si tentò di far credere, una patetica sceneggiata da operetta: quella vicenda, invece, fu una sorta di “snodo” nel quale si incrociarono trame e forze precedenti e dal quale scaturirono conseguenze che segnarono in seguito la nostra storia.

Per fare un solo esempio, sfociarono in quella notte -che alcuni fascisti chiamarono “della madonna”- le teorie della “guerra controrivoluzionaria”, messe a punto da pochi anni, anche con un apposito convegno all’hotel Parco dei Principi di Roma, foraggiato da ambienti NATO e dal regime dei colonnelli greci e che ebbe tra i partecipanti -oltre a diversi alti ufficiali italiani e di altri paesi occidentali- P. Rauti (all’epoca capo di Ordine Nuovo, già esponente del MSI, di cui tornerà segretario una ventina di anni dopo) e G. Giannettini, giornalista de “Il Secolo d’Italia” (quotidiano del MSI) e agente del SID (servizi segreti italiani).

In uno dei processi sul tentato golpe che si dilungarono stancamente negli anni successivi, l’accusa fu sostenuta dal giudice Vitalone, di cui tutto si poteva dire fuorchè fosse una “toga rossa”. Egli mise in luce gli stretti intrecci tra organizzazioni fasciste (vecchi e nuovi criminali), ambienti militari e degli stati maggiori, dei servizi segreti nonché il pullulare -tra gli anni ‘60 e ‘70- di organizzazioni clandestine tra militari, forze dell’ordine, servizi segreti le quali si collegavano con soliti fascisti ed ambienti NATO, allo scopo di risolvere (diciamo così) la questione comunista. 

Ovviamente, tiravano le fila settori confindustriali che finanziavano il tutto, in particolare industriali liguri e del nord-ovest: presidente della Confindustria ed esponente della sua ala più tradizionale era proprio l’armatore genovese Costa. A fare da raccordo tra questi ultimi (collegati anche con la massoneria) fascisti e militari golpisti con la NATO e gli USA era il noto banchiere Sindona, il quale garantiva rapporti diretti con l’amministrazione Nixon (come l’ex ministro del Tesoro D. Kennedy ed altri suoi esponenti). 

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Secondo Vitalone, varie autorità pubbliche conoscevano da tempo tutte le situazioni accennate ed anche i preparativi del piano Tora Tora a cui garantirono la più totale immunità e in questo quadro sono sconcertanti le complicità di alto rango di cui godettero i golpisti. 

Già nel tardo pomeriggio del 7 si cominciarono a radunare molti uomini in vari punti di Roma e cominciò l’approvvigionamento di armi, in particolare in un centro sportivo vicino alla basilica di Santa Croce in Gerusalemme, in via Eleniana, dove si scoprirà anche un colonnello dei carabinieri. Il quartier generale operativo era a viale XXI Aprile, nella sede del Fronte Nazionale, organizzazione capeggiata dal principe Borghese. Poco dopo, Stefano Delle Chiaie, alla testa di un grosso gruppo di fascisti di Avanguardia Nazionale, entrò sorprendentemente al Viminale (ossia al ministero dell’Interno) ed occupò l’armeria che si trova nei sotterranei, saccheggiandola. 

Nel frattempo, una colonna della guardia forestale partì da Cittaducale (RI) per occupare la RAI, mentre ben 800 carabinieri provenienti da Firenze erano già stati concentrati appositamente nelle caserme della Cecchignola. 

Il piano non riguardava solo Roma ma parecchie altre regioni: per fare un esempio, il colonnello dell’esercito Amos Spiazzi doveva organizzare l’occupazione di Sesto San Giovanni, ritenuto un centro molto pericoloso a causa della prevedibile (e temibile) reazione della grande massa di operai concentrati lì. 

La commissione parlamentare sulla P2, in seguito, accertò che erano coinvolti numerosi componenti della loggia, dallo stesso Licio Gelli e Sindona fino ai principali responsabili dei servizi segreti che sapevano tutto e tenevano il piede in due staffe, rimanendo in contatto con i golpisti anche in quelle ore concitate. 

Non poteva mancare la Gladio, tanto che in alcune fasi del suddetto processo si arrivò molto vicino alla sua individuazione, nel ricostruire le vicende di quella notte: fa impressione che all’interrogatorio di un personaggio tutto sommato secondario, Cavallaro, fu posto il segreto politico-militare di stato. Da pochi mesi, a capo dei servizi segreti (il SID) era il generale piduista Vito Miceli, arrestato quattro anni più tardi ed in seguito deputato del MSI.

Questo quadro di insieme fu confermato, negli anni ‘90, anche da un’inchiesta dei gruppi parlamentari del PDS.

Ancora, però, non siamo arrivati al massimo mistero di quella vicenda: senza alcuna apparente causa immediata, tra mezzanotte e le due -secondo tutti i testimoni diretti ed attendibili- fu dato un “contrordine”, annullato il piano e chiesto a tutti di tornare a casa propria. Nessuno è riuscito mai a capire né il perché di questa improvvisa decisione né chi l’avesse presa ma sono veramente pochi (tra protagonisti, studiosi, inquirenti, ecc.) a credere che l’ordine fosse di Borghese, ad ulteriore conferma che c’era qualcuno o qualcosa ben più in alto che tirava veramente le fila. 

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A questo punto, una breve riflessione da marxisti ce la possiamo concedere e quindi abbandoniamo tutte le ipotesi, le congetture, i “complottismi” romanzeschi o di cronaca circa i suddetti interrogativi. 

Dopo l’inizio della guerra fredda, tra gli imperialisti, si confrontarono per decenni due “scuole di pensiero” su come liquidare i Partiti Comunisti occidentali, soprattutto quello italiano, il più forte e “pericoloso”. 

La prima era quella classica, fascista, del colpo di stato e della sanguinosa repressione, come era avvenuto per tutta la prima parte del secolo, poi in Grecia e successivamente in Cile. Essa, per alcuni, per qualche tempo fu una sorta di “modello” cui ispirarsi anche in Italia ma, col passare del tempo, rappresentava un impaccio crescente per le nuove esigenze produttive e commerciali della moderna borghesia.

La seconda, non credeva nell’idoneità della suddetta opzione e temeva, anzi, che tentativi cruenti di ripristino del fascismo (o simili) potessero, alla fine, favorire involontariamente il PCI e consentire che la sua prevedibile reazione vincesse. Pertanto, si preferiva, una via più sofisticata ma anche sicura, auspicabilmente immune da contraccolpi incontrollabili e corrispondente alle modifiche della struttura sociale e ai disegni di una nuova architettura internazionale, come la futura UE. 

Questa linea puntava sulla cosiddetta “evoluzione democratica” del PCI e fu quella che si affermò negli anni ‘70, soppiantando completamente l’altra, la quale ebbe il suo canto del cigno -forse- proprio la “notte della madonna”.

Del resto, il mondo socialista aveva raggiunto la parità strategica, si stava completamente dispiegando il processo di liberazione dei popoli coloniali, era prossima la storica vittoria militare del Vietnam, maturava il superamento dei regimi dittatoriali dell’Europa del sud mentre il capitale aveva raggiunto la sua massima espansione storica, era vicino alla sua sovrapproduzione perché erano esplosi sia il mercato dei consumi, sia quelli finanziari, la capitalizzazione di borsa non aveva precedenti. In tutti i modi, occorreva favorire l’accelerazione della circolazione dei capitali e delle merci. 

Perciò è del tutto possibile che, proprio quella notte, ad un certo punto, presero il sopravvento quelli che non credevano nei golpe vecchio stile, abbandonando gli altri al proprio destino. 

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Non abbiamo ancora scritto della mafia la quale, invece, può aiutarci a capire qualcosa del “braccio di ferro” che forse si svolse nelle stanze dei bottoni (non tra bulli e buffoni fascisti, in divisa o meno) in quelle ore. 

In particolare, sono indicative alcune deposizioni di Luciano Liggio e Tommaso Buscetta, molto attendibili perché rese separatamente, in due momenti molto diversi. La mafia fu l’unico soggetto interpellato a negare il proprio appoggio al golpe, nonostante i benefici molto convenienti (ed allora necessari) offerti in cambio. 

Difficile credere che la cupola non sapesse fare al meglio i calcoli per i propri affari: valutarono che le reazioni (in primo luogo del PCI) sarebbero state tali da ottenere l’effetto contrario a quello desiderato, avvantaggiando alla fine “i comunisti”.

Se non ricordo male, uno dei due accennò anche al fatto che proprio in quei giorni un convoglio della flotta militare sovietica, proveniente dal mar Nero, si stava avvicinando al Mediterraneo centrale. Diciamolo pure, forse il KGB (o chi per esso) sapeva, come tutti quelli che in Italia potevano e dovevano intervenire ma non lo fecero. Con tutta probabilità, non avrebbe lasciato indisturbati gli assassini golpisti, non sarebbe rimasto a guardare l’Italia che ridiventava una dittatura fascista, in mezzo a quelle spagnola e portoghese ad ovest e greca e turca ad est. 

Così -da modesta persona senza istruzione- ritengo che vadano la storia e i rapporti di forza di classe anche sul piano internazionale. 

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Infine, c’è un altro dettaglio che potrebbe contribuire a spiegare quel misterioso “contrordine”. Mi assumo la responsabilità di scriverlo: anche il Partito sapeva, non si lasciò sorprendere e non rimase con le mani in mano.

La “notte della madonna” ero un ragazzino ma ricordo che in serata il segretario della sezione del mio quartiere venne da mio padre (ma lui apparteneva alla sezione aziendale) e poi ritornò dopo cena ed uscirono insieme, mi sembra con una specie di cassetta o di grosso pacco. Non so se rientrò la notte. Crescendo, ho intuito che tra il 7 e l’8 dicembre, sulla Tiburtina, letteralmente non sarebbe potuto passare nessun golpista. A mio parere, quella notte in giro per Roma non c’erano solo arnesi del fascismo e militari traditori ma anche i comunisti. 

In cima alla direzione del Partito, ossia il palazzo delle Botteghe Oscure, mi raccontarono dei compagni, c’era un enorme ed avveniristico impianto di amplificazione, idoneo a farsi ascoltare in un raggio di chilometri, cioè in quasi tutta Roma. 

Non a caso, nel 1972, il compagno Berlinguer, concludendo il congresso nazionale (tre giorni dopo la morte di Feltrinelli) disse testualmente che il PCI non aveva paura dei golpi di stato, che era pronto a mobilitare TUTTE LE ENERGIE SU TUTTI I PIANI ammonendo la DC che si sarebbe “rotta la testa”. Due anni dopo, in seguito all’arresto di Miceli, ci fu una manifestazione al teatro Adriano di Roma, strapieno, e il compagno Cossutta disse lì con una certa spavalderia: “noi non ci lasciamo impressionare dalle voci di colpo di stato PERCHE’ I COMUNISTI SANNO COSA DEVONO FARE…”. 

Questi ricordi (se tali possono essere definiti) li scrivo ora non per fanatismo né per infantilismo ma per una ragione politica concreta: in troppi oggi -non per colpa loro- pensano che l’impegno politico sia un fatto di sole chiacchiere, di cosa si dichiara o non si dichiara, a parole; oppure solo una questione di realizzazione personale, di piccoli interessi particolari ed immediati, insomma di carriera.

Perciò, ora che si avvicina il centenario, molti non possono immaginare cosa sia stato veramente il PCI, cosa abbia fatto per il popolo italiano, per la crescita e l’affermazione della classe operaia. Esso, con i suoi errori ed i suoi limiti, era una forza di lotta e d’avanguardia, ben diverso (geneticamente diverso, direi) dalle forze politiche o dai movimenti attuali, benchè ve ne siano alcune molto apprezzabili.

Bisogna metterselo bene in testa, quando si parla di “unità dei comunisti” o si auspica il ritorno di un Partito come fu il PCI.