Con la Resistenza, contro il revisionismo

di Giorgio Raccichini, PdCI di Porto San Giorgio

resistenza cadutiChe il revisionismo storico, quello di matrice politica conservatrice, fosse arrivato al punto da mettere in discussione la Resistenza e il prodotto di questa, cioè la Costituzione antifascista, è un fatto purtroppo tristemente noto a chi ogni giorno, nella sua vita quotidiana e nella sua azione politica, cerca di tenere alti i valori che ispirarono il movimento di liberazione.

Già nel corso della guerra gli ambienti politici conservatori, vicini ai Savoia e al governo badogliano, contrastarono la formazione di un movimento partigiano che avesse come fine la conduzione di una guerra di massa contro l’occupante nazifascista. Volevano che gli italiani si limitassero ad azioni di sabotaggio e di intelligence coordinate dalle truppe anglo-americane; in altre parole, per le classi dirigenti italiane, fino a poco tempo prima sostenitrici del regime mussoliniano, la guerra al nazifascismo non doveva rappresentare l’occasione per il riscatto delle classi lavoratrici, le quali, se fossero state protagoniste della liberazione, avrebbero potuto rivendicare un diverso ruolo politico nell’Italia post bellica. Fu questo spettro a terrorizzarle, non tanto quello dei massacri che i nazisti e i loro alleati stavano compiendo in Italia e in Europa.

 
Fu il Partito Comunista Italiano ad ostacolare questo tipo di impostazione e a dare alla guerra partigiana un carattere di massa. Fu soprattutto il Partito Comunista Italiano a fare in modo che l’Italia potesse uscire dalla guerra non come un Paese arresosi senza condizioni, ma conservando una certa dignità di nazione indipendente e sovrana.

Oggigiorno nella pervasiva furia anticomunista, sottilmente antidemocratica, che caratterizza la società italiana, si arriva a mettere in discussione la guerra partigiana e i valori che essa espresse, come ha fatto recentemente e in maniera ignobile un certo presentatore televisivo, il quale ha attribuito la responsabilità dell’eccidio delle Fosse Ardeatine ai partigiani e alla loro azione “terroristica” di Via Rasella.

Non entro nel merito della ricostruzione storica della vicenda, su cui qualche anno fa Alessandro Portelli scrisse un’opera chiarificatrice, confutando qualsiasi ragionamento volto a colpevolizzare i partigiani.

L’aspetto più vergognoso delle calunnie espresse da suddetto presentatore televisivo, il quale evidentemente ha una visione storica molto limitata, sta nel fatto che egli ha voluto dire, in generale, che i partigiani non avrebbero dovuto compiere nessun atto di guerra contro i nazisti, perché questi avrebbero reagito ferocemente. Insomma gli antifascisti, proprio come volevano i Savoia e le classi sociali che avevano fino a poco tempo prima sostenuto il Fascismo e ne portavano l’impronta ideologica, non dovevano lottare per la liberazione dell’Italia occupata, limitandosi al massimo ad eseguire qualche ordine del comando alleato. Gli italiani non avrebbero dovuto recuperare la dignità perduta nelle molteplici e sanguinose aggressioni imperialiste scatenate dal Fascismo, ma comportarsi come un popolo sconfitto, preparandosi a servire gli interessi dei “liberatori” angloamericani.

Chi avesse un minimo di raziocinio e non fosse un antidemocratico difensore degli interessi e dei privilegi delle classi conservatrici non potrebbe non sottoscrivere le dure e realistiche parole di Giorgio Amendola riguardo alla vicenda di Via Rasella e delle Fosse Ardeatine: “Accettare il ricatto delle rappresaglie voleva dire rinunciare in partenza alla lotta. Noi partigiani combattenti avevamo il dovere di non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la morte di tanti innocenti. Noi costituivamo un reparto dell’esercito di liberazione, anzi facevamo parte del comando di questo esercito, e non potevamo abbandonare la lotta e passare al nemico con tutte le nostre conoscenze della rete organizzativa. Avevamo solo un dovere: continuare la lotta”.

I partigiani combatterono la guerra di liberazione conformemente ai mezzi a disposizione e alla natura del nemico. Non potevano esimersi per esempio da vere e proprie azioni di terrorismo, specialmente nelle città, dove la presenza tedesca e fascista era maggiore e le formazioni partigiane erano necessariamente di piccolissime dimensioni, protette da una vasta rete popolare di complicità, ma sempre esposte al rischio di subire colpi tremendi. Era proprio nelle città che il nemico si sentiva più forte e sicuro ed era quindi un dovere tattico fondamentale quello di rendergli la vita difficile sia materialmente che psicologicamente. Così scrisse il compagno Giovanni Pesce: “All’inizio del 1944 i tedeschi non consideravano Torino terra di nessuno; per noi, invece, era zona di combattimento, dove occorreva mascherare le nostre truppe e colpire i punti di concentramento delle forze nemiche. Avevamo a nostro vantaggio la sorpresa. Il nemico non sospettava che lo avremmo attaccato proprio dove il suo schieramento era più potente e più numeroso. Nella tattica militare, l’attacco tende a individuare e a colpire l’avversario nel punto più debole; nella guerra partigiana, all’opposto, si tende a colpire il nemico dove è più forte, dove può ricevere i colpi più duri”.

Se agli storici compete la ricostruzione delle vicende del movimento di liberazione italiano, non nascondendone, ma comprendendone anche gli episodi meno edificanti (tra i quali non considero certamente l’azione di guerra di Via Rasella), al cittadino spetta assumere una posizione di classe di fronte alla Resistenza e, allo stesso tempo, rispetto alla Costituzione, la quale ha recepito le aspirazioni e le diverse e contrastanti posizioni dei partiti riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale. Gli attacchi alla Resistenza provengono proprio dallo schieramento composto da coloro che vogliono eliminare dalla Costituzione i principi ispirati da comunisti e socialisti, quelli che prospettano per il nostro Paese un futuro realmente democratico e improntato alla realizzazione di un’effettiva giustizia sociale. Sono questi ad attribuire ai partigiani ogni tipo di misfatto, anche gli eccidi atroci di coloro che essi hanno combattuto coraggiosamente, molto spesso lasciando la vita tra atroci torture.

Se arriviamo ad accusare i partigiani di essere i responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, potremmo anche condannare i sovietici di aver scatenato la soluzione finale del popolo ebraico vincendo i nazisti a Stalingrado; in parte, a ben vedere, lo si afferma quando si dice che il comunismo ha generato, per reazione, il nazismo e quindi sarebbe responsabile di tutti i crimini di quest’ultimo.

Tutto questo dimostra che la storia, piaccia o non piaccia, rimane uno dei terreni fondamentali della lotta politica, che a lungo andare influenza profondamente le coscienze di milioni e milioni di cittadini; quindi è dovere di un Partito comunista trovare il tempo e il modo per combattere in maniera efficace anche in questo ambito di primaria importanza.