Porzûs: il più grande processo antipartigiano del dopoguerra

di Alessandra Kersevan | da www.diecifebbraio.info
 

Appendice dal volume: Foibe. Revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica

Porzus

Atti del Convegno: Foibe: La verità. Contro il revisionismo storico tenuto a Sesto S. Giovanni (MI), 9 febbraio 2008

Collana di Resistenza Storica / Udine: Editrice KappaVu, 2008

Nel 1997 – in anticipo con la concezione della memoria alla 10 febbraio, secondo la quale i fatti storici esistono solo se vengono amplificati dai mass-media – la vicenda di Porzûs divenne di pubblico dominio con la presentazione al festival del cinema di Venezia del film Porzûs di Renzo Martinelli. Nonostante il titolo richiamasse in maniera diretta questa vicenda, il contenuto la riguardava solo a grandi linee, poiché erano inventati o stravolti i caratteri dei personaggi, le motivazioni, i comportamenti, il contesto in cui avvenivano, in linea con la revisione della resistenza che stava emergendo in quegli anni. [1] Negli articoli che apparvero sui principali giornali italiani a commento e critica del film, si disse in un primo tempo – e il regista non solo avvalorò questa tesi, ma ne fece la base del lancio pubblicitario – che finalmente emergeva la verità su Porzûs. In realtà Martinelli si avvalse della penna di Furio Scarpelli – autore di sceneggiature che hanno costruito l’immaginario collettivo dell’Italia del dopoguerra, come La grande guerra e Tutti a casa – per costruire un polpettone confusionario e anche un po’ razzista. In seguito alla querela per diffamazione da parte di Mario Toffanin, “Giacca”, il regista cambiò versione e disse che si trattava di una fiction.
 

In realtà la vicenda di Porzûs è stata nel dopoguerra trattata in molti giornali e libri a livello nazionale[2], e nel Friuli-Venezia Giulia non è passato anno senza che fosse ricordata in manifestazioni di varia natura, anzi, in questa regione Porzûs è stato uno dei miti fondanti del ceto politico dominante, in gran parte di origine osovana.
 

Su Porzûs inoltre si è per la prima volta evidenziata quella convergenza destra-sinistra tesa a ricostruire un immaginario condiviso anticomunista. Non è un caso che il film sia stato finanziato dall’allora governo di centro-sinistra, cioè dal ministro della cultura Walter Veltroni, ma apprezzato anche a destra.
 

In sostanza la tesi che passò – la stessa delle forze dominanti in tutti questi sessant’anni, ma con la differenza che veniva fatta propria anche dagli eredi del PCI – era quella della responsabilità dei comunisti friulani, e del PCI più in generale, presentati come asserviti agli interessi jugoslavi – mentre gli osovani risultarono i patriottici difensori dei confini dalle mire jugoslave.
 

La vicenda
 

In realtà non si sa ancora con precisione cosa sia successo a Porzûs: nella ricostruzione ufficiale ci sono soltanto certezze, ma se si analizzano i documenti quasi nulla corrisponde a ciò che viene dato per assodato.
 

Il 7 febbraio 1945 (così secondo la versione ufficiale e processuale, ma alcuni importanti documenti[3] e un ragionamento sui tempi dell’azione, la collocherebbero invece all’8 febbraio) un gruppo di circa un centinaio[4] di gappisti, partendo dal Bosco Romagno, una zona fra Cormons e Cividale in cui avevano la base, comandati da Mario Toffanin – Giacca, si diresse verso le malghe dette, in seguito, di Porzûs, ma in realtà chiamate a quel tempo di Topli Uork[5], dove aveva sede, dall’autunno precedente, il comando del Gruppo Brigate “Osoppo dell’Est” – composto dalla I e dalla VI Brigata, in realtà poche decine di uomini perché la gran parte erano in congedo in attesa della primavera – comandato da un capitano dell’esercito, Francesco De Gregori, “Bolla”.
 

Arrivati nei pressi delle malghe i gappisti finsero di essere un gruppo di sbandati o fuggiti dai convogli per la Germania che volevano aggregarsi ai partigiani. Questo inganno fu reso possibile anche dal fatto che chi li guidava era “Dinamite”, Fortunato Pagnutti, molto conosciuto alle malghe osovane perché in precedenza era stato partigiano dell’”Osoppo” e vi si recava spesso per prelevare esplosivi per operazioni di sabotaggio[6]. La presenza di Dinamite contribuì – si dice – a non creare sospetti negli osovani, che pur in quei giorni dovevano essere molto sospettosi, giacché Bolla non faceva altro che mandare relazioni ai propri comandi superiori in cui denunciava la presenza oltre al nemico palese (tedeschi e cosacchi) del nemico occulto (sloveni e garibaldini)[7].
 

A quel punto gli osovani dell’avamposto mandarono a chiamare qualcuno del comando e venne “Enea”, Gastone Valente, commissario politico della VI Brigata, a vedere di che si trattava. Enea pensò di dividere gli sbandati fra coloro che volevano andare con i garibaldini – e quindi proseguire per un paese vicino, Canebola – e quelli che volevano rimanere con l’”Osoppo”. Ma subito si accorse che c’era qualcosa che non andava nel comportamento di questi sbandati e quindi mandò un biglietto a Bolla, che si trovava in una malga più in alto. Dopo che la “cernita”[8] era già iniziata, Giacca diede ordine di agire ai suoi e gli osovani vennero disarmati, bloccati e costretti ad atteggiarsi in maniera amichevole, per ingannare Bolla che intanto stava arrivando assieme a Aldo Bricco, “Centina”. Quando i due furono arrivati vicino al gruppo dei gappisti, uno di questi avrebbe colpito Bolla, mentre Centina, con uno scatto, riuscì a fuggire giù per il dirupo, inseguito dai gappisti e dai loro spari, che lo ferirono in più punti. Centina si rifugiò poi nel paese di Robedischis, dove c’era un ospedaletto partigiano sloveno in cui venne curato[9].
 

A questo punto i gappisti si rivelarono: gli osovani vennero tutti disarmati, Enea e Bolla tenuti nella malga, altri inviati ad aprire i bunker, pieni di alimenti, di armi e di altri materiali.[10] In una delle malghe fu trovata Elda Turchetti, segnalata da Radio Londra come una pericolosa spia, collaboratrice dei tedeschi. Questo, in base alle testimonianze che Giacca diede ad alcuni giornalisti nel dopoguerra, sarebbe stato il fatto che portò alla decisione di uccidere sul posto i comandanti osovani, rei di proteggere una spia.
 

Infatti Bolla ed Enea, insieme con la Turchetti vennero fucilati nella malga. I bunker vennero svuotati e il materiale portato nella base gappista al Bosco Romagno, dove vennero anche portati gli altri osovani fatti prigionieri[11]. Nella zona delle malghe risulta ucciso anche il giovane Giovanni Comin, che, fuggito il giorno prima dal treno che lo avrebbe portato nei lager in Germania, stava raggiungendo il comando osovano, ma anche la ricostruzione della sua morte non è molto chiara.
 

Nella base del Bosco Romagno i prigionieri osovani vennero divisi fra i vari battaglioni gappisti e poi uccisi a gruppi nei giorni successivi. Ma due di essi, Leo Patussi, “Tin” e Gaetano Valente, “Cassino”[12], si aggregarono ai gappisti e sopravvissero: sarebbero diventati poi i principali testimoni d’accusa. L’analisi del loro comportamento nel Bosco Romagno e delle loro dichiarazioni in sede istruttoria e dibattimentale solleva sconcerto, in quanto la gran parte delle loro testimonianze, se sottoposte ad analisi e confronto con altri testi e altri documenti, si rivelano chiaramente mendaci. Non è privo di significato che un personaggio come Tin, Leo Patussi, che in base alla ricostruzione ufficiale ha tradito i suoi compagni passando ai gappisti, sia diventato poi generale dell’esercito italiano.
 

Fra gli osovani uccisi c’era anche Guido Pasolini, il fratello di Pier Paolo.
 

Ciò che successe al Bosco Romano è tuttavia molto nebuloso e basato su testimonianze contraddittorie; il riconoscimento dei corpi riesumati è dovuto quasi esclusivamente ad alcuni preti, fra cui don Aldo Moretti[13], il fondatore e la vera mente dell’”Osoppo”.
 

I personaggi

Prima di passare a parlare del contesto in cui questa vicenda avviene e dei complicati intrecci e motivazioni, è necessario analizzare brevemente l’elenco dei nomi che si trovano sulla lapide a Porzûs, un elenco di 20 nomi, alcuni dei quali, come vedremo, sicuramente non centrano con questi fatti:
 

Comandante Bolla, Francesco De Gregori[14]: insignito di medaglia d’oro al valor militare. Era stato un ufficiale dell’esercito, volontario in Spagna (con i fascisti), combattente nei Balcani, monarchico. Aderì all’”Osoppo” nella primavera del ’44. Era il comandante del Gruppo Brigate “Osoppo dell’Est”, ma proprio nel giorno dell’eccidio si stava trasferendo in pianura per assumere l’incarico di capo di stato maggiore del gruppo divisioni “Osoppo-Friuli”, ma anche per incontrarsi con il federale fascista di Udine, Mario Cabai. Il suo posto al gruppo di Brigate dell’Est doveva essere preso da Centina, Aldo Bricco (scampato all’eccidio fuggendo e curato dalle ferite in un ospedaletto sloveno).
 

Bolla viene sempre indicato come comandante della I Brigata, ma in realtà non lo era più dall’estate del ’44, quando era diventato vicecomandante della divisione unificata “Osoppo-Garibaldi” e poi, allo scioglimento di questo comando, era diventato comandante appunto del gruppo brigate “Osoppo dell’Est”. Dal momento che la I Brigata ha avuto altri comandanti, non si capisce perché questi siano stati oscurati, se non ipotizzando che per la ricostruzione di questa vicenda fosse meglio che i loro nomi non venissero ricordati. Avranno infatti tutti un ruolo importante nelle organizzazioni clandestine anticomuniste sorte in Friuli[15] già prima della fine della guerra e confluite poi in Gladio. Il comandante della I brigata al momento dei fatti di Porzûs era Marino Silvestri, futuro membro di Gladio/Stay Behind, che non fu mai chiamato a testimoniare, sebbene fosse stato fra gli artefici di un accordo con i repubblichini e i nazisti in funzione antigaribaldina noto come il Presidio di Ravosa, di cui si parlò molto al processo di Lucca[16].
 

Delegato Politico Enea, Gastone Valente: era del Partito d’Azione. Nel dopoguerra, in una sua intervista, Giacca avrebbe dichiarato che l’unica cosa di cui si dispiaceva riguardo all’azione che aveva comandato, era la morte di Enea. Era uno dei non numerosi azionisti rimasti nell’”Osoppo” dopo il cosiddetto golpe di Pielungo del luglio del ’44, quando la componente militare e democristiana dell’”Osoppo” con una sorta di putsch aveva allontanato i dirigenti azionisti, troppo inclini al comando unitario con i garibaldini. Tuttavia, secondo la testimonianza al processo di Maria Pasquinelli, agente al servizio della X Mas, a casa di Enea sarebbero avvenuti i primi contatti fra “Osoppo” e X Mas per costituire un fronte unitario antislavocomunista. Ma probabilmente la Pasquinelli si era fatta accogliere in casa con un ricatto.[17] Anche Enea viene di solito indicato con un ruolo sbagliato, come delegato politico[18] della I Brigata “Osoppo”, mentre lo era della VI, oppure si dice anche che stava per prendere il posto di Alfredo Berzanti[19] come delegato politico del gruppo Brigate dell’Est, cosa che non risulta dai documenti. È stato insignito della medaglia d’argento al valor militare. Non si capisce il perché di questa discriminazione rispetto a Bolla, medaglia d’oro, dal momento che sono morti nelle stesse circostanze e la storia partigiana di Enea era anche più intensa di quella di Bolla.
 

Sulla lapide poi ci sono i nomi di battaglia degli uccisi in ordine alfabetico; di questo elenco, si può rilevare:
 

– il corpo di Egidio Vazzaz, “Ado”, non è mai stato trovato, né ci sono altre prove valide perché sia stato inserito fra gli uccisi;

– “Rinato”, “Mache” e “Vandalo” sono morti in altre circostanze che già al processo di Lucca, nel 1951, erano emerse e non centrano con Porzûs;

– “Flavio”, Erasmo Sparacino, risulta dai documenti presso l’anagrafe di Cividale fucilato dai nazisti il 12/02/45; anche dopo che nel mio libro ho dimostrato questo fatto, il suo nome continua ad essere citato fra le vittime di Giacca;

– “Gruaro”, Comin Giovanni, non era osovano, ma garibaldino e il suo nome da partigiano era “Tigre”; non si capisce come mai i dirigenti osovani lo abbiano indicato sia nella lapide sia nel processo con questo nome di battaglia del tutto inventato[20];

– Di fronte a tanti nomi sbagliati o che non dovrebbero esserci, nella lapide manca invece quello di Elda Turchetti, che pure nei giorni precedenti all’eccidio era stata arruolata nelle file osovane, con un numero di matricola, 1755, e nome di battaglia, “Livia”. Ciò risulta dallo stesso diario di Bolla e da documenti presenti nell’Archivio “Osoppo”.
 

Elda Turchetti – indicata anche con il nome di copertura di Wanda Merlini – nell’estate del ’44 era stata segnalata da Radio Londra su indicazione degli stessi servizi informativi osovani come «spia accertata» al servizio dei nazisti. Nel dicembre del ’44 si consegnò a una formazione partigiana, per dimostrare la sua estraneità alle accuse. Ammetteva di essere stata al servizio dei tedeschi dalla fine di giugno del ’44, ma solo per une mese e di essersi poi accorta dello sbaglio e di aver lasciato l’incarico[21]. Ma a quale formazione partigiana si era consegnata? Al processo si disse, e questa naturalmente è la versione generalmente accettata, che si era consegnata a un garibaldino di nome Paura, il quale poi l’avrebbe passata agli osovani. Questo venne interpretato come uno degli elementi dell’inganno contro il gruppo di Bolla: infatti i garibaldini l’avrebbero consegnata agli osovani proprio per poter accusarli di proteggere una spia e aver il pretesto per l’eccidio. Ebbene, gli stessi documenti stilati da Bolla dicono che invece la Turchetti si consegnò a un osovano di nome “Gloster”, Alfonso Linda, e che questi la portò alle malghe. Anche su questo fatto, dunque, la ricostruzione processuale, ispirata dalla parte civile osovana, è falsa. Alle malghe sarebbe stata sottoposta a processo da Bolla e considerata innocente, tanto da essere arruolata nelle file osovane, eppure questo non fu mai detto al processo, né il suo nome è stato inserito nella lapide. Evidentemente la cosa risultava troppo compromettente dal momento che il suo nome come spia era stato ripetutamente fatto proprio da Radio Londra[22].
 

Bisogna ora ricordare chi furono i principali imputati gappisti e garibaldini.
 

Mario Toffanin, Giacca[23], operaio, originario di Padova, che già nel ’41 era a combattere nelle formazioni di Tito contro i nazifascisti. Arriva in Friuli nel 1944 e prende il comando di formazioni gappiste. Quelli che combatterono con lui gli erano molto affezionati, e nel dopoguerra andavano spesso a trovarlo nel paese vicino a Capodistria in cui era emigrato nel dopoguerra, per sfuggire all’arresto. Invece con alcuni dei comandanti garibaldini ebbe un rapporto conflittuale, specialmente con il commissario politico di tutte le “Garibaldi” friulane, Mario Lizzero – Andrea, e col commissario politico della “Garibaldi-Natisone”, Vanni Padoan, che lo consideravano insubordinato e settario. Nonostante questo – forse per il suo coraggio e determinazione nelle azioni – continuava ad essere comandante della brigata gappista. Dopo i fatti di Porzûs venne però allontanato e il comando della Divisione Gap costituita negli ultimi mesi prima della liberazione, passò a Valerio Stella, “Ferruccio”, il quale fu anche coinvolto nel processo per i fatti di Porzûs, incarcerato, ma assolto. Giacca non è mai stato arrestato e non ha mai testimoniato ufficialmente sui fatti. Nel dopoguerra ha rilasciato alcune interviste a giornalisti e una alla radio di Udine “Onde furlane”. Gli sono state attribuite molte dichiarazioni spesso contraddittorie.
 

Nella versione avallata a suo tempo dal PCI friulano guidato da Mario Lizzero, l’azione di Porzûs sarebbe stata un colpo di testa di Giacca. Secondo un’altra versione Giacca, a causa del suo carattere molto settario e poco riflessivo, avrebbe trasformato in eccidio quello che era solo un ordine di arresto di Bolla a causa delle sue trame con i repubblichini.
 

Degli altri gappisti coinvolti nelle inchieste si può dire che molti erano piuttosto giovani, di estrazione operaia o contadina, ma c’erano anche uno studente, un maestro e un medico. Alcuni furono incarcerati, anche a lungo, ma poi ritenuti innocenti, molti altri fuggirono, quasi tutti in Jugoslavia per sottrarsi all’arresto; alcuni sono ritornati in Italia solo dopo l’amnistia alla fine degli anni cinquanta, altri sono rimasti in Jugoslavia.
 

42 furono i condannati a varie pene detentive, fra essi anche alcuni dei maggiori dirigenti della Resistenza friulana, come Ostelio Modesti, “Franco”, il segretario della federazione clandestina udinese del PCI e Alfio Tambosso, “Ultra”, responsabile organizzativo, considerati i mandanti. Nel processo vennero coinvolti anche i vertici della divisione “Garibaldi-Natisone”, il comandante Mario Fantini, “Sasso”, il commissario politico Giovanni Padoan, “Vanni”, e il massimo esponente militare garibaldino della resistenza friulana Lino Zocchi, “Ninci”, comandante del Gruppo Divisioni “Garibaldi-Friuli”. Di questi, Fantini e Zocchi, a lungo incarcerati, vennero assolti; invece Padoan, il maggior obiettivo delle montature osovane, assolto a Lucca venne condannato in appello a Firenze come mandante. Non fu coinvolto nel processo il commissario politico di tutte le formazioni garibaldine friulane, Mario Lizzero, Andrea. Nel dopoguerra sarebbe diventato il maggior esponente comunista, a lungo segretario della federazione e poi deputato al parlamento
 

Il contesto storico-politico
 

La zona di Porzûs fa parte della Benecija, cioè la Slavia italiana, un territorio abitato da popolazione di origine slovena, inserita nello stato italiano dopo la terza guerra d’indipendenza, nel 1866. Nei confronti di queste popolazioni lo stato italiano già prima del fascismo aveva operato una brutale politica di snazionalizzazione, come poi avrebbe fatto il fascismo con ancor più determinazione nei confronti degli sloveni e dei croati della cosiddetta Venezia Giulia, annessi dopo la prima guerra mondiale. Con l’aggressione nazifascista alla Jugoslavia nell’aprile del 1941 e l’annessione della provincia di Lubiana da parte dello stato italiano, queste regioni, il Friuli e la Venezia Giulia[24] divennero fronte di guerra, ed infatti qui la Resistenza al nazifascismo è iniziata già nel 1942, avendo come riferimento l’esercito di liberazione jugoslavo. Anche nella zona della Benecija furono registrati, da parte delle autorità civili e militari, passaggi di formazioni partigiane slovene già nel 1942 e nella primavera del ’43 si costituì sul Collio un Distaccamento “Garibaldi”, formato da italiani[25].
 

Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre nella zona di Monfalcone gli operai dei cantieri navali costituirono la Brigata “Proletaria” che combatté nella battaglia in difesa di Gorizia contro l’occupatore tedesco, e nelle settimane seguenti si formarono i primi battaglioni garibaldini.
 

Nei primi mesi del ’44, per non lasciare il monopolio della resistenza ai comunisti fu creata, da un connubio fra azionisti e cattolici, con la benedizione del vescovo di Udine Giuseppe Nogara[26], la formazione “Osoppo”. Si tratta di un nome risorgimentale in quanto Osoppo, un paese a nord di Udine, si era distinto nel 1848 per la resistenza agli austriaci.
 

Nella primavera del ’44 ci fu un forte afflusso di partigiani, sia nell’”Osoppo” sia nella “Garibaldi”. All’inizio dell’estate fu costituita, con due brigate, la Divisione “Garibaldi-Natisone”, la più grande formazione della resistenza italiana. Già nel giugno del ’44 i garibaldini proposero agli osovani l’unificazione dei comandi, per dare una guida unitaria alla lotta al nazifascismo, ma i dirigenti osovani erano ostili al comando unico, e questa rimase una grande questione irrisolta, praticamente fino al momento dell’insurrezione. Soltanto nell’estate del ’44, anche sotto pressione delle missioni inglesi operanti in zona, che per motivi militari volevano l’unificazione, gli osovani furono costretti ad accettare per qualche mese in diverse zone i comandi unici. L’esperimento unitario più lungo ed organico fu operato proprio nella zona del Friuli Orientale, con l’unificazione fra le due brigate della “Garibaldi-Natisone” e la I Brigata “Osoppo”, che diedero vita alla Divisione “Osoppo-Garibaldi”. Del comando fecero parte assieme a Sasso e Vanni, cioè il comandante e il commissario politico della “Natisone”, ambedue di origine operaia, proprio Bolla e il suo delegato politico Alfredo Berzanti- Paolo, allora rispettivamente comandante e delegato politico della I Brigata “Osoppo”. In quell’estate la formazione ebbe grossi successi militari, con la costituzione della Zona libera del Friuli Orientale.
 

Alla fine di settembre ci fu l’attacco nazifascista alla zona libera e il comando unico approntò un piano di ripiegamento, che fu eseguito alla lettera dalle due brigate garibaldine, mentre la brigata osovana ebbe gravi perdite e si disperse. Risulta dalle stesse relazioni stese da Bolla e da altri osovani, che causa di ciò fu il mancato rispetto del piano da parte di alcuni responsabili della I Brigata osovana. Invece il fatto che i garibaldini non avessero avuto perdite e gli osovani sì fu interpretato – da coloro fra gli osovani che non avevano mai digerito il comando unico – come frutto di un complotto garibaldino e sloveno. Questo elemento ebbe poi una grande importanza nel processo di Porzûs, come prova della premeditazione garibaldina contro gli osovani, e costituisce l’argomento principale della famosa lettera, datata novembre del ’44, di Guido Pasolini, “Ermes” al fratello Pier Paolo, lettera che quest’ultimo dichiarò al processo di Lucca di aver ricevuto solo dopo l’eccidio, e che io reputo, per vari motivi, un falso – come del resto molti altri dei documenti presentati dall’”Osoppo” contro i garibaldini.[27]
 

Nell’autunno del ’44 molti nodi vennero al pettine: contro la Resistenza in Friuli fu sferrato un attacco generale da parte nazifascista, con l’insediamento dei Cosacchi in Carnia (terra a loro promessa dai nazisti: Kosakenland in Nord Italien, con il beneplacito dei collaborazionisti repubblichini[28]), e lo sbandamento delle formazioni partigiane. In questo momento tragico arrivò il proclama Alexander, che invitava i partigiani a tornare a casa in attesa della primavera. L’atteggiamento nei confronti del proclama fu completamente diverso da parte garibaldina e da parte osovana. Questi ultimi furono inclini ad accettarlo e pianurizzarono la gran parte dei combattenti, che furono messi in congedo temporaneo. Soltanto alcuni piccoli gruppi, come quello di Bolla, costituiti soprattutto da partigiani provenienti da altre parti d’Italia e che non potevano tornare a casa, rimasero in montagna, ma senza condurre azioni concrete. I garibaldini, invece, non volevano accettare il proclama, ma si poneva il problema dell’impossibilità di passare l’inverno sulle montagne friulane, piene di cosacchi e troppo esposte ai continui attacchi tedeschi, interessati a tenere sgombre le vie di ritirata. Così la Divisione “Garibaldi-Natisone” decise di passare l’Isonzo, e di insediarsi nella zona slovena, passando sotto il comando operativo del IX Korpus.
 

Questo è uno degli altri grandi nodi della vicenda processuale di Porzûs, in quanto il passaggio alle dipendenze operative del IX Korpus venne considerato come un tradimento e la dimostrazione che i garibaldini avevano interesse ad eliminare – su ordine degli sloveni – la formazione di Bolla, l’unica rimasta italiana nella Benecija, rivendicata ormai apertamente dagli jugoslavi.
 

Anche in questo aspetto della questione i dirigenti osovani operarono grosse manipolazioni, che i giudici in parte fecero proprie.
 

La prima consiste nel considerare l’esercito di liberazione jugoslavo come fosse un nemico, mentre invece era un alleato. E così infatti lo considerava il CLNAI, il massimo organo della Resistenza italiana, il quale in più documenti aveva invitato i partigiani italiani del Friuli e della Venezia Giulia a collaborare con i resistenti jugoslavi, affidando alle trattative del dopoguerra il problema dei confini.
 

La seconda consiste nell’affermazione che la “Garibaldi-Natisone” era passata oltre Isonzo senza avvisare il Comitato di Liberazione e che quindi di fatto si era posta fuori dalla resistenza italiana. In realtà, e i documenti sono agli atti del processo, non solo la “Natisone” comunicò il passaggio alle dipendenze operative del IX Korpus, ma il CLNAI continuò sempre a considerarla una formazione della resistenza italiana, e così attestò anche alla fine della guerra.
 

La terza consiste nel collegamento fra questo passaggio e l’eccidio di Porzûs, presentato appunto come l’esecuzione di un ordine degli sloveni. Per sostenere questo venne presentato al processo dall’accusa un breve documento a firma di Ultra, Alfio Tambosso, il responsabile organizzativo della Federazione clandestina del PCI di Udine. In tale documento indirizzato in modo generico a “cari compagni” e datato 27 gennaio 1945, si chiedeva di mandare in montagna circa 100-150 persone “da porre alle dipendenze della Divisione “Garibaldi Natisone”, operante agli ordini del Maresciallo Tito”. Come risulta dall’analisi del documento[29], questo non può essere affatto l’ordine dell’azione di Porzûs, ma i giudici non andarono troppo per il sottile e ancora una volta accettarono le tesi osovane. È importante ricordare un altro fatto: i dirigenti osovani si procurarono questo documento con un furto nella sede dell’ANPI, come l’autore del furto – Giorgio Brusin, futuro membro di Gladio/Stay Behind – avrebbe ammesso anche nel corso del processo. Nello stesso furto si procurarono anche l’altro documento d’accusa fondamentale, e cioè quella che sarebbe la relazione dell’azione, inviata dal triumvirato gappista Marino[30], Marco e Valerio alla Federazione del PCI e al Comando della “Natisone”. Che fosse procurata con un furto all’ANPI da parte di alcuni osovani non turbò i giudici. Ma val la pena di ricordare ciò che disse Mario Fantini – Sasso, l’eroico comandante della divisione “Garibaldi-Natisone”, da dietro le sbarre della gabbia in cui gli imputati erano rinchiusi: “Come hanno rubato i documenti, possono aver rubato anche i timbri”, intendendo che potevano aver falsificato i documenti.
 

Tornando al contesto generale dell’autunno del ’44, bisogna ricordare ancora che in ottobre c’era stata la liberazione di Belgrado e gli Jugoslavi rivendicavano i territori italiani abitati anche da sloveni e croati, in sostanza la Benecija nell’attuale provincia di Udine, e tutta la Venezia Giulia.[31]
 

In quello stesso autunno si sviluppano i contatti di vari esponenti della Repubblica di Salò, primo fra tutti Junio Valerio Borghese, con esponenti della Resistenza non comunista, per la costituzione di un fronte anticomunista e antislavo. Di questi contatti si ha ampia attestazione, e i documenti relativi si trovano anche agli atti del processo di Lucca. Contatti si ebbero dai massimi vertici dell’”Osoppo” sia con i nazisti – e non soltanto per scambio di prigionieri, come affermò don Moretti – sia e soprattutto con i fascisti. Questi contatti si infittiscono nel gennaio del ’45, poco prima dell’eccidio di Porzûs, e ricordo in particolare l’incontro di Vittorio Veneto [*] fra “Verdi”, Candido Grassi, il massimo esponente militare[32] dell’”Osoppo” e il capitano Morelli della X Mas, a ciò delegato da Junio Valerio Borghese.
 

Anche il delegato politico di Bolla, Alfredo Berzanti, fu pesantemente coinvolto in trame con i nazifascisti, in particolare per la costituzione del presidio di Ravosa, formato da osovani e repubblichini, ufficialmente in funzione anticosacca (i cosacchi erano alleati dei repubblichini!) ma in realtà in funzione antigaribaldina.[33] Lo stesso Bolla era coinvolto in questi contatti, ed infatti proprio il giorno dell’eccidio avrebbe dovuto incontrarsi con il federale fascista di Udine, Mario Cabai. Da quanto risulta dallo stesso diario di Bolla, nel gennaio del ’45 egli stava mettendo in piedi una formazione di Arditi in funzione antislovena e antigaribaldina.
 

Tutti questi contatti non sfuggivano ai garibaldini, i quali ne erano grandemente preoccupati. Anche a livello di base c’erano molti sintomi, che si esplicitavano per esempio nel diverso trattamento di tedeschi e fascisti nei confronti dei prigionieri osovani o garibaldini. Nel ricordo dei partigiani garibaldini da me intervistati c’è il fatto che se un arrestato si dichiarava osovano aveva speranza di salvezza. In questo senso ci furono anche testimonianze al processo.
 

Per completezza del quadro, va ricordata la presenza in regione di molte missioni alleate, inglesi, americane e del governo del sud. Il capo di una di queste, il maggiore inglese Nicholson era al corrente dei contatti fra “Osoppo” e X Mas, e un suo agente, Cino Boccazzi, ne fu il principale mediatore. Dai documenti di queste missioni emergono anche contrasti fra inglesi e americani, che si stavano giocando il controllo dell’area che si sapeva già strategicamente importante nel dopoguerra, come confine non solo con la Jugoslavia, ma con il mondo socialista in generale[34].
 

Le missioni del governo del Sud tramavano per un accordo fra resistenza non comunista e repubblichini in funzione antislava, e proprio nei giorni in cui si svolgeva la vicenda di Porzûs operarono per provocare una reazione armata congiunta osovano-repubblichina antislava e antigaribaldina.[35]
 

Per avere un quadro abbastanza completo della situazione precedente all’eccidio, nei rapporti fra garibaldini e osovani, bisogna ricordare ancora che nel gennaio del ’45 i garibaldini avevano raccolto alcune testimonianze di tradimenti da parte degli osovani. In particolare proprio i gappisti di Giacca avevano raccolto la confessione di un certo “Brontolo”, Marcon Guido, ex osovano, arrestato dai tedeschi e poi infiltratosi fra i gappisti, ai quali aveva raccontato, facendo anche i nomi fra cui quello di Bolla, non solo dei contatti di questi con i fascisti, ma di uccisioni di garibaldini commesse dagli osovani. Marcon Guido fu poi fucilato come spia.[36]
 

Al processo di Lucca, sebbene della confessione di Brontolo si parlasse anche nel documento principale presentato dall’accusa – cioè la relazione di Marino-Marco-Valerio -, si affermò semplicemente che questa confessione non esisteva, che era un’invenzione dei gappisti per giustificare l’eccidio. Il testo invece esiste negli archivi e ciò dimostra che gli imputati al processo non avevano affatto mentito. Ma ora naturalmente è troppo tardi ai fini processuali. Sembra lo sia anche a fini politici e storiografici, perché si continuano semplicemente ad accettare le tesi processuali, come se le sentenze non fossero una delle tante fonti della storia, ma la Storia bell’e fatta.
 

Poiché è risultato che copie del documento si trovano anche fra le carte di esponenti garibaldini[37], si pone il grosso problema di come mai dalla difesa degli imputati il documento non sia mai stato presentato al processo, lasciando che i giudici lo considerassero un’invenzione dei gappisti.
 

Le inchieste e i processi

Un’inchiesta dopo i fatti di Porzûs venne stabilita già nel marzo ’45 dal CLN provinciale, che istituì una commissione, che però non funzionò, a detta degli osovani a causa della componente garibaldina. Risulta evidente invece agli stessi atti del processo, che chi osteggiò questa inchiesta furono gli osovani, nella persona dell’avvocato Gardi, da essi designato a farne parte.[38]
 

Alla fine della guerra, nel giugno del ’45, gli osovani presentarono una denuncia alla magistratura in cui indicavano come responsabili i dirigenti della Federazione del PCI di Udine, fra cui il segretario Ostelio Modesti[39], indicato come uno dei mandanti. Uno dei suoi principali accusatori fu quel Leo Patussi del gruppo di Bolla infiltratosi fra i gappisti, [40]. Il principale documento d’accusa, inizialmente, fu però un memoriale di un gappista, Aldo Plaino, “Valerio”, uno degli eroici liberatori delle carceri di Udine,[41] il quale sottoposto a torture psicologiche durate mesi nel campo di concentramento di Padova in cui erano stati rinchiusi i primi arrestati, sostenne che Modesti, il segretario provinciale del PCI, avrebbe detto a Giacca la famosa frase “Va, fai e fai bene”. Modesti ha affermato sia al processo, sia in seguito, che la riunione in cui avrebbe detto quella frase, era organizzata invece per stabilire gli ultimi dettagli per l’azione della liberazione delle carceri di Udine – azione estremamente difficile e considerata molto importante anche per dare un segnale positivo alla resistenza friulana che aveva subito tanti duri colpi in quei mesi e che avvenne proprio il 7 di febbraio, lo stesso giorno di Porzûs
 

Le affermazioni di Modesti furono semplicemente ridicolizzate dai giudici, che arrivarono ad affermare che l’azione delle carceri era stata organizzata semplicemente per coprire quella di Porzûs.
 

Non occorre a questo punto precisare che questa era la tesi osovana, anche se proprio gli osovani in un primo tempo avevano cercato di appropriarsi dei meriti della liberazione delle carceri, in cui non centravano proprio niente[42].
 

In effetti nel corso dei processi si stravolse letteralmente tutto, per avallare le tesi osovane. I giudici di Lucca però non accettarono quella del tradimento della patria a vantaggio della Jugoslavia, sostenendo che le motivazioni andavano cercate solo nelle beghe fra formazioni partigiane, mentre i giudici d’appello di Firenze, in parte la avallarono, anche se poi confermarono l’assoluzione degli imputati da questa accusa.
 

Tutta la vicenda processuale di Porzûs, fra i tribunali e le corti d’assise e d’appello di Udine, Venezia, Brescia, Lucca, Firenze, Perugia prende quasi 15 anni di storia del dopoguerra. È stata la più grande montatura antipartigiana, con oltre 50 imputati e 40 condanne, fra cui alcuni dei più importanti uomini della resistenza friulana. È stato il più grande attacco al partito comunista, con lo scopo di arrivare a una condanna per tradimento, cosa che nel periodo della guerra fredda sarebbe stata estremamente utile politicamente. Il processo, mastodontico, vide centinaia di testimoni, fra cui importanti uomini politici del dopoguerra, come Enrico Mattei e Luigi Cadorna, e fra gli avvocati della difesa personaggi del calibro di Umberto Terracini. La finalità più grossa contro il PCI non venne raggiunta, ma il processo e le condanne comportarono oltre che grandi sofferenze per tutti gli imputati e i loro famigliari, un grave colpo alla Resistenza friulana, quella che aveva saputo coniugare nel modo più efficace la lotta al tedesco invasore, la solidarietà internazionale e la lotta di classe. Buona parte dei partigiani furono costretti a fuggire o ad emigrare. Con essi se ne andava proprio la meglio gioventù.

 

In quegli anni in Friuli crebbero le grandi organizzazioni clandestine anticomuniste, il Terzo Corpo Volontari della Libertà, l’organizzazione “O” (da “Osoppo”)[43] del generale Olivieri, i cui aderenti sarebbero poi confluiti in Gladio/Stay Behind, costituita nel 1956 con un accordo anticostituzionale all’insaputa del parlamento fra servizi segreti americani e italiani. Tali organizzazioni avrebbero letteralmente avvelenato il clima politico e sociale della regione, in stretta alleanza con la Chiesa udinese dell’arcivescovo Giuseppe Nogara, prima entusiasta del fascismo, poi collaborazionista dei nazisti e poi organico alla guerra fredda alleata. Gli uomini di queste organizzazioni erano in gran parte osovani, ma anche ex repubblichini riciclati in massa negli ultimi giorni di guerra, come i rastrellatori antipartigiani del Reggimento alpini “Tagliamento”, entrati in massa nella “Osoppo” nell’ultimo giorno di guerra.
 

Tutto ciò ha segnato e continua a segnare la realtà sociale e politica friulana, che ne è stata letteralmente stravolta, mettendo all’angolo comunisti e partigiani, che furono perseguitati, in gran numero subirono processi e condanne e poi, come ho detto, furono costretti ad emigrare.
 

Tuttavia, come si capisce dalla vicenda del film di Martinelli, l’operazione propagandistica antiresistenza messa in moto con i processi di Porzûs continua ancora, anche se sui grandi mezzi di comunicazione ha lasciato oggi la stessa funzione alle foibe.

NOTE
 

[1] L’inizio pubblico di questa nuova impostazione politica si può individuare nell’incontro Violante-Fini avvenuto a Trieste nel 1998, il cui senso principale, espresso anche da un nuovo lessico, con l’espressione i ragazzi di Salò, è che chi aveva combattuto nelle file repubblichine a Trieste e in Istria lo aveva fatto a tutela dei confini orientali.

[2] Ricordo, fra quelli pubblicati più lontano nel tempo: M. Cesselli, Porzûs. Due volti della Resistenza, Milano, 1975; F. Mautino, Guerra di popolo, Feltrinelli, 1981. Nel 1966 il commissario politico della divisione “Garibaldi-Natisone”, Giovanni Padoan – Vanni, pubblicò Abbiamo lottato assieme. Partigiani italiani e sloveni sul confine orientale, che era in pratica, pochi anni dopo la chiusura dei processi, la versione dei fatti da parte di uno dei principali imputati e condannati. Lo stesso Padoan ha pubblicato nel 1984 Un’epopea partigiana alla frontiera tra due mondi, e nel 2000 Porzus. Strumentalizzazione e realtà storica, in cui riporta la sua ultima tesi sui fatti, peraltro priva di validi riscontri storici.

[3] Fra cui il principale documento d’accusa: la relazione sull’azione firmata da Marino-Marco-Valerio, il triumvirato gappista, datata 10 febbraio, parla dell’azione come avvenuta l’8 febbraio. Non è un particolare irrilevante se si tiene presente che questo documento fu procurato dagli avvocati osovani con un furto all’ANPI. In ogni caso, i giudici di Lucca risolsero facilmente il problema dicendo che i gappisti nella loro relazione si erano… sbagliati!

[4] Anche su questo le testimonianze non concordano, perché si va da circa una ventina di gappisti a oltre cento.

[5] Porzûs, Porčinj in sloveno, è un paese a mezza costa sulle Prealpi Giulie, abitato da popolazioni di origine slovena; è frazione del comune di Attimis. Le malghe di Topli Uorch, quelle in cui aveva sede il comando osovano, si trovano invece in comune di Faedis.

[6] È utile qui ricordare, che alcuni dei gappisti coinvolti nel processo era stati in precedenza osovani.

[7] Cfr. A. Kersevan, Porzûs. Dialoghi sopra un processo da rifare, Udine, I ed. 1995, II ed. 1997, pp. 18-21.

[8] “Cernita” è proprio il termine, molto ricercato, usato nella relazione attribuita a Marino-Marco-Valerio. Per un’analisi di questa relazione e dei motivi per cui io la ritengo in parte falsificata, v. A. Kersevan, Porzûs, cit., pp. 83-94, 167-180, 184-185, 197-200, 356-357.

[9] Anche questo episodio dovrebbe suscitare domande e riflessioni: per esempio, se – com’è la tesi che va per la maggiore, suffragata dall’ultimo libro di Padoan – l’azione gappista fu ordinata dagli sloveni, come mai Centina fu curato in un loro ospedale? Ospedale che fra l’altro in linea d’aria è molto vicino a Porzûs, ed era impossibile che non si fossero sentiti gli spari. A queste obiezioni – rivoltegli dagli avvocati della difesa – Centina rispose che lui agli sloveni disse che erano stati attaccati dai repubblichini – come del resto aveva pensato sul momento –; ma com’è possibile che gli alti comandi sloveni, se avevano ordinato l’azione, non avessero avvisato il loro comando locale più vicino a Porzûs dell’imminenza dell’azione gappista? Semplici domande a cui non vengono date risposte. Fra l’altro bisogna rilevare che Centina una volta guarito per merito degli sloveni continuò ad operare nella zona delle malghe, e il gruppo osovano anzi si irrobustì fino a creare una nuova brigata nelle valli del Natisone, la VII brigata “Osoppo” (che sarebbe poi stata una delle basi della futura Gladio/Stay Behind); eppure si disse che l’azione era stata ordinata per togliere di mezzo l’unica formazione che si opponeva alle mire annessionistiche slave.

[10] Questo fu uno dei tanti motivi di contrasto fra garibaldini e osovani: l’”Osoppo” era la destinataria della gran parte dei lanci alleati, ma i materiali ricevuti invece di essere impiegati nella lotta, venivano accumulati nei bunker, in attesa… della fine della guerra. Infatti nell’inverno 1944-45 l’”Osoppo” era in fase di smobilitazione in ottemperanza al proclama Alexander, che nel novembre del ’44 aveva invitato i partigiani a tornarsene a casa. Durante il processo emerge in maniera molto netta l’importanza che questo elemento ebbe nella vicenda: per i garibaldini era letteralmente scarpe rotte eppur bisogna andar, mentre agli osovani veniva dato addirittura un premio per il congedo. Molti degli ex gappisti da me intervistati in questi anni sono convinti che questo sia stato il motivo vero dell’azione.

[11] 16, secondo la ricostruzione ufficiale, di cui 14 sarebbero stati uccisi. Ma questi numeri non corrispondono ai dati documentali, né alla lapide che c’è alle malghe. 

[12] Da non confondersi con Gastone Valente, Enea.

[13] La figura di don Aldo Moretti è molto complessa. È interessante qui sapere che fu insignito di medaglia d’oro con una motivazione che è una sorta di revisionismo storico ante litteram: infatti comprende sia i suoi meriti come cappellano dell’esercito fascista in Africa, sia il suo contributo alla Resistenza. (Cfr. Gruppo medaglie d’oro al valor militare d’Italia, vol.II, Roma 1965, pp.721-723)

[14] Zio dell’omonimo cantautore.

[15] Cfr. F. Nazzi-P. Visintin, Come si vincono le elezioni, Udine, 1993, pp. 91-113.

[16] Il processo in corte d’Assise si svolse in quella città per legittima suspicione fra il 1951 e il 1952, dopo che era stato annullato quello già iniziato a Brescia. A Firenze nel 1954 si ebbe il processo di appello.

[17] Cfr. Kersevan, cit., pp. 124, 128-129.

[18] Delegato politico nelle formazioni osovane corrispondeva più o meno al commissario politico dei garibaldini.

[19] Alfredo Berzanti “Paolo”, futuro primo presidente della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia.

[20] Cfr. Paolo Strazzolini, Comin una tigre in gabbia, “Il Messaggero Veneto”, 08/05/1998.

[21] La documentazione esistente presso l’Archivio “Osoppo” contiene segnalazioni su Wanda Merlini come “spia accertata” ancora nei mesi successivi. Cfr. Kersevan, cit. pp 185-193.

[22] Le comunicazioni di Radio Londra di nomi di spie di solito venivano considerate dai partigiani come un ordine di eliminazione.

[23] Ma anche “Marino”, così almeno è firmata quella che viene indicata come la relazione dell’azione alle malghe, insieme con “Marco”, Vittorio Juri – capo di stato maggiore – e “Valerio”, Aldo Plaino – commissario politico.

[24] Venezia Giulia è un nome inventato dall’irredentismo italiano. Il termine, che ricorda Roma e Venezia e quindi l’italianità, era funzionale alle rivendicazioni italiane sul confine orientale di una terra in realtà multietnica e plurilingue. Fra le due guerre il suo nome indicava il territorio compreso fra il confine italiano del 1866 e quello del 1920. Oggi indica sostanzialmente la provincia di Trieste e parte di quella di Gorizia.

[25] Che si può quindi considerare la prima formazione della Resistenza italiana, già prima dell’8 settembre.

[26] Sulla discussa figura di questo arcivescovo cfr. A. Kersevan, P. Visintin, “Che il mondo intero attonito sta”. Luci e ombre di un arcivesco. Giuseppe Nogara 1928-1945, Udine, 1992.

[27] Cfr. Kersevan, cit., pp. 306-314

[28] Che secondo le mistificazione dei loro attuali eredi politici sarebbero stati invece i difensori dell’italianità di quelle terre. Val la pena ricordare che l’attuale territorio della regione Friuli-Venezia Giulia, più l’Istria, Fiume, la Valle dell’Isonzo e tutta quella che era stata la provincia italiana di Lubiana, il 10 settembre 1943 furono in pratica annessi al Terzo Reich, con il nome di Adriatisches Küstenland.

[29] Cfr. Kersevan,cit., pp. 255-262.

[30] Marino sarebbe un altro nome di battaglia di Giacca, con cui firmava i documenti del comando.

[31] È del tutto falso che rivendicassero il confine al Tagliamento, come la propaganda osovana e neoirredentista ha sempre affermato (anche in questo caso contro la documentazione esistente e consultabile).

[32] Candido Grassi fu destituito e arrestato dal CLN provinciale nell’estate del ’44 in seguito ai fatti di Pielungo, quando il comando dell’”Osoppo”, a causa di gravi omissioni delle più semplici regole militari, venne sorpreso dai tedeschi e la sede del comando incendiata. Nei giorni successivi ci fu un vero e proprio golpe della parte democristiana degli osovani, che liberarono Grassi e minacciarono di morte i nuovi comandanti designati, costretti ad andarsene dal Friuli. In seguito Grassi non fu ufficialmente rimesso al comando dell’”Osoppo”, ma ne fu sempre riconosciuto come il capo. La vicenda di Pielungo, con la vittoria dell’ala più anticomunista dell’”Osoppo”, viene indicata come uno dei fatti che preparano Porzûs (cfr. M. Cesselli, Il Golpe anticomunista 1944 lacera la Resistenza altoadriatica, Quaderni Altoadriatici, Padova, s.d.).

[33] Cfr. Kersevan, cit. pp.141-152.

[34] È utile ricordare che negli stessi giorni avviene l’incontro di Yalta, con la spartizione del mondo fra est e ovest, in cui si era già deciso sostanzialmente cosa sarebbe rimasto all’Italia e cosa sarebbe andato alla Jugoslavia.

[35] Cfr. Kersevan, cit. pp. 333-335.

[36] La sua storia è stata raccontata anche in una puntata di Chi l’ha visto nel gennaio del 2004. La scrivente era stata in quell’occasione contattata dalla redazione della trasmissione, a cui si era rivolta la sorella di Marcon. L’inchiesta è stata condotta in maniera molto seria ma non ha avuto la collaborazione dell’Associazione Partigiani “Osoppo”.

[37] Archivio Veneto per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea, b. 52, CVL Comando I Divisione GAP “13 Martiri di Feletto U.”, “Copia conforme della deposizione manoscritta dal citt. Marcon Guido”, Zona, li 3 febbraio 1945”, allegata alla “Lettera di Andrea Lima ai compagni Guerra, Ugo, Mauri, Remo (riservatissima)”, 18 febbraio 1945.

[38] Cfr. Kersevan, cit. pp. 181-184.

[39] Ostelio Modesti, antifascista condannato nel 1934 dal Tribunale Speciale, fu liberato soltanto nell’agosto del ’43. Subito dopo l’8 di settembre era già con la Brigata “Proletaria” degli operai monfalconesi a combattere sul Carso contro i tedeschi e i fascisti. In questa battaglia venne gravemente ferito e perse un occhio. Dopo mesi di cure in rifugi clandestini nella zona del Pordenonese, ritornò alla lotta divenendo segretario della federazione comunista e ispettore delle formazioni “Garibaldi”. Per tutto questo periodo tessé in maniera infaticabile i rapporti all’interno della Resistenza friulana, facendo parte anche del CLN provinciale. Venne arrestato nell’aprile del ’48, in piena campagna elettorale, a Benevento, dove lavorava come funzionario del PCI. Venne condannato come mandante dell’eccidio di Porzûs in prima istanza a 30 anni. Rimase in prigione fino al 1953.

[40] Cfr. Kersevan, cit. pp. 267-269.

[41] Cfr. P. Visintin, Romano il Mancino e i Diavoli Rossi, Kappa Vu, Udine 2003.

[42] Radio Londra infatti diede la notizia attribuendo l’azione all’”Osoppo”.

[43] Su queste e su altre organizzazioni clandestine anticomuniste e antislave sorte nell’immediato dopoguerra nelle regioni del confine orientale v. F. Nazzi – P. Visintin, Come si vincono le elezioni, Kappa Vu, Udine, 1993.

[*] ERRATA CORRIGE del 12/2/2012 (a cura dell’Autrice)