Lettera aperta al Ministro Fornero su pensioni, lavoro, welfare

di Delfina Tromboni*

 

Gentile Ministro,
ho letto con molta attenzione l’articolo pubblicato qualche giorno fa su un giornale nazionale, da Lei redatto, insieme ad una collega, un paio di mesi prima dell’assunzione della carica, sulla riforma pensionistica di cui necessiterebbe l’Italia.

elsa-fornero-sulle-pensioniMi consenta di porle alcuni quesiti:

1) Lei sostiene che il sistema retributivo (cioè il calcolo della pensione sulla base della media degli stipendi e dei salari degli ultimi anni di lavoro) sarebbe troppo “generoso” anche per chi, all’epoca della riforma Dini, aveva già maturato 18 e più anni di contribuzione. Tralascio di soffermarmi sull’uso del termine “generoso”, che presuppone una elargizione non basata sull’acquisizione di un diritto ma sul “buon cuore” di chi la eroga. Vorrei invece farla riflettere sul dato – che certo non Le sarà sfuggito nel corso della ricerca, ma che in qualche modo appare trascurato dalle Sue conclusioni – costituito dal fatto che quella soglia (18 e più anni di contributi) fu ritenuta all’epoca una barriera determinata dal non essere più remunerativa alcuna pensione privata che i singoli avessero voluto eventualmente stipulare, dato che anche le pensioni integrative collettive ancora non avevano preso piede. Non si trattò quindi dell’allegro scialare della cicala imprevidente, ma di un atto di (dovuta) giustizia.

 

2) Lei sostiene, anche, che introdurre il contributivo pro rata per tutti a partire dal prossimo anno, non penalizzerebbe i dipendenti vicini alla pensione se contestuale all’innalzamento dell’età (da portarsi a 63 anni) di accesso alla stessa. Tralascio per ora il sistema dei disincentivi che pur mi pare lei sarebbe orientata ad introdurre per chi, in ogni caso, scegliesse di andare in pensione prima dei 65 anni. Che cosa Le fa pensare che per le classi comprese tra il 1950 ed il 1962 (sono quelle indicate nel Suo studio) sia un piccolo sacrificio prolungare di qualche tempo l’età pensionabile per ottenere una pensione in ogni caso inferiore a quella che otterrebbe attualmente con 40 anni di anzianità di lavoro? Forse, come si desume dal giudizio sulla quantità di lavoratori e lavoratrici coinvolti (pochi, Lei sostiene) , Lei pensa che non sia poi questa gran cosa lavorare 42 o 43 anni se non 45 o 46 o più, prima di ottenere il meritato “riposo” e, forse, Lei pensa che chi è nato negli anni del boom economico non può aver cominciato a lavorare – se non in sparuti casi – in età adolescenziale. Mi spiace doverLa deludere: tanti e tante della mia generazione (sono del 1953) hanno conosciuto fin dalle superiori la fatica dello studio abbinato al lavoro nero (si ricorda? ai tempi miei c’era ancora il lavoro a domicilio e in tante case i ragazzini e le ragazzine “davano una mano” a costruir giocattoli o a confezionare maglie di notissime firme ed abiti e borse e guanti…) o il mancato riposo estivo perchè i mesi senza scuola servivano per racimolare il denaro (sempre in nero) per pagarsi la continuazione degli studi. Non so dalle sue parti, ma dalle mie la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze al mare o in montagna c’è andata soltanto per pulire le stanze ed accudire i figli degli altri, più o meno fortunati che fossero. Il piccolo sacrificio che il suo studio presuppone è in realtà una ulteriore ingiustizia per quanti hanno dovuto sudarsi gli studi che un Paese decente avrebbe dovuto garantir loro da sè, utilizzando quasi sempre le uniche forme di lavoro disponibili: quelle senza contributi..

 

3) Lei sostiene, infine, che tutti, uomini e donne, nel privato come nel pubblico, dovranno andare in pensione a 67 o 70 anni, con ciò mettendo sullo stesso piano ciò che sullo stesso piano non sta. Non le sarà sfuggito, infatti, che l’Italia è stata per molti decenni un Paese in cui le leggi venivano scritte e promulgate (e spesso si trattava di ottime leggi) ma nessun meccanismo obbligava poi la politica locale e nazionale a metterle in atto (un po’ come succede oggi per i referendum). E’ per la mancanza di quel meccanismo che – per non fare che un esempio – la legge istitutiva degli asili nido non si è mai veramente tradotta in un piano di realizzazioni concrete a livello nazionale. Tant’è che in Italia abbiamo registrato punte di eccellenza in alcune regioni e lo zero assoluto in altre, come la Sicilia. Non Le sfuggirà nemmeno che questo ha significato per tante donne essere costrette a restare a casa dal lavoro per anni, anche se non avevano la vocazione per la “casalinghità”. Questo chiama naturalmente in causa altre questioni, che forse non sta bene sollevare in un momento tanto difficile per il Paese: come possiamo preoccuparci, infatti, di ricompensare in qualche modo (con qualche anno di lavoro in meno e con qualche contributo almeno figurativo in più) chi ha retto sulle sue spalle il boom, il pil e oggi lo spread, rinunciando alla propria personale affermazione per supplire alle carenze di uno Stato che metteva la famiglia al primo posto solo quando si trattava di tentare di negarle la possibilità di divorzio? Non possiamo! Troppo egoismo! Eppure, l’Italia non ha mai messo in campo nessuno degli strumenti alternativi che altri Paesi hanno pensato e sperimentato e che non dubito Lei conosca benissimo. Non di meno, con un senso della giustizia tutto italiano, a chi tocca tocca, e le donne con una storia di doppio, triplo e quadruplo lavoro (perchè anche i servizi per gli anziani e per i disabili e per i malati mentali e per quelli cronici ecc. ecc. ecc. mai sono stati realizzati con dignitosa sufficienza sull’intero territorio nazionale) oggi si vedono equiparate agli uomini che quel doppio e triplo e quadruplo lavoro non hanno mai conosciuto nella medesima misura, e devono anzi rimproverare se stesse se non ritengono che questo sia per loro un bene perchè meno anni di lavoro diminuirebbero le possibilità di carriera per le donne… Signor Ministro, Lei sa bene che in Italia le donne NON hanno le medesime possibilità di carriera degli uomini perchè nessuno si è mai posto seriamente il problema di infrangere il tetto di cristallo che sta sopra le loro teste anche quando sono tanto agguerrite da diventare dirigenti nonostante tutto. Questo vale per il lavoro come vale per la politica, Signor Ministro, e prima o poi tocca a tutte o quasi.

 

4) Infine Le vorrei porre un’ultima domanda, che riguarda sia gli uomini che le donne: perchè in un Paese in cui a tutti è noto che i profitti sono aumentati in maniera immensamente maggiore della remunerazione dei lavori subordinati, creando una sperequazione che mai si era registrata nella storia (oggi un Manager può arrivare ad incassare 400 volte più del lavoratore medio delle sue aziende, anche se è notorio che la giornata dura 24 ore per tutti…) per quanto attiene al sistema previdenziale l’equilibrio deve sempre ritrovarsi soltanto al suo interno? I lavoratori subordinati si dividono sempre la stessa fetta di torta, e nulla importa a nessuno che l’unico fondo pensioni in deficit sia quello dei dirigenti: come dire? Se ho 100 come limite, le risorse per pagare le pensioni dei dirigenti devo trovarle dentro quel 100, quindi sono i dipendenti semplici a pagare con i loro contributi le pensioni dei loro capi…. . Lo stesso Lei ripropone nel rapporto intergenerazionale: per assicurare ai figli una qualche tutela, pensione da fame compresa, bisogna che siano i padri a prender meno, altrimenti il sistema non regge. Mi dica, Signor Ministro: dove sta scritto che non si può aumentare quella fetta, togliendo un poco (badi: davvero soltanto un poco, con una patrimoniale, per esempio, o facendo con la Svizzera lo stesso accordo che ha stretto la Germania sui denari illegalmente sottratti alle tasse nazionali perchè depositati all’estero) a chi vive al di sopra di qualsiasi capacità di spesa umana e magari di pura rendita parassitaria e speculativa?

 

Mi rendo conto, Signor Ministro, di aver usato termini superati nell’anno del Signore 2011, e di avanzare rivendicazioni che già il “nuovo mondo” uscito dalle macerie del Novecento aveva sepolto nell’ultimo ventennio del secolo “breve”. Forse dipende dal fatto che ho imparato quei termini in quella che all’epoca si chiamava senza infingimenti la “scuola dei padroni”, e non me ne so disfare.
Ma mi piacerebbe tanto che ogni tanto qualcuno/a ricordasse che all’epoca eravamo immensamente più poveri di oggi, come famiglie, come singoli, come Paese e come Occidente. E avevamo il coraggio di chiamare il welfare ed il lavoro continuativo e tutelato con il loro nome, quello che gli ha conferito la Costituzione Repubblicana uscita dalla Resistenza: diritti.
Così li chiamano, oggi, i nostri figli e le nostre figlie, che non si sentono affatto lesi da noi ingenerosi genitori tutelati, perchè sanno benissimo che il “mercato” non è né un Dio né un dato di natura: è una creazione degli uomini, tanto pigri, oggi, da non sapersi inventare altro.

 

*Dipendente pubblica, ex lavorante a domicilio, ex venditrice porta a porta di prodotti cosmetici e di libri, ex bracciante giornaliera, ex operatrice dei Centri Ricreativi Estivi, ecc. ecc. ecc. che andrà in pensione a 67 anni, con circa 50 anni di lavoro regolare e in nero, non potendosi permettere alcun disincentivo, avendo ancora due figli precari e un paio di famigliari ormai “grandi anziani”.