La riserva indiana di Ichino

Intervista a Piergiovanni Alleva, giurista e professore di diritto del lavoro | da Liberazione

 

ichinoPiergiovanni Alleva, il presidente del Consiglio Mario Monti ha annunciato una riforma del mercato del lavoro il cui presupposto è che, se oggi i giovani sono disoccupati o trovano solo contratti precari, ciò accade perché i loro padri sono «fin troppo tutelati». E’ così?

E’ una sciocchezza. La disoccupazione non dipende dal diritto del lavoro in quanto tale, dipende dalle politiche economiche. Basta guardare cosa accade in altri paesi che hanno tutele e regole per il lavoro diverse dalle nostre. Anche negli Stati Uniti i giovani sono disoccupati. Mi pare che Monti segua il luogo comune secondo cui in Italia ci sono lavoratori sottogarantiti (e questo è vero) e altri supergarantiti. In realtà questi ultimi sono solo sufficientemente garantiti contro i licenziamenti arbitrari.

 

Però è vero quello che scrive oggi (ieri ndr) Pietro Ichino sul Corriere della Sera. E cioè che «c’è un’intera generazione di lavoratori» che quel diritto del lavoro conquistato dai loro genitori non lo vede «neppure di lontano». Per questo, il giuslavorista ha presentato un disegno di legge imperniato sull’idea di un contratto unico “a stabilità crescente” per i nuovi assunti. Proposta che il governo sembra voglia far propria. Cosa c’è di sbagliato?

Che non significa assolutamente niente. Nel caleidoscopio delle sempre mutevoli proposte che fa Ichino, l’unica cosa che si capisce è che nei nuovi contratti non ci sarebbe la tutela dal licenziamento che c’è oggi. Detto questo, il contratto unico continuerebbe ad avere accanto a sé il contratto a termine, sia pure riportato nella sua giusta dimensione (sostituzioni di lavoratrici in gravidanza, lavori stagionali ecc.), così come il contratto di apprendistato – che pure ci vuole – e quello di somministrazione, che invece non ci vorrebbe ma Ichino lo adora. Forse il contratto unico “abolirebbe” i co.co.pro, ma non l’abuso delle partite Iva. Insomma, cambierebbe poco o nulla, le diverse tipologie di contratto precario continuerebbero a esistere e ad essere utilizzate. Dopodiché domando: cosa significa “contratto unico per i nuovi assunti”? Che vale solo per i giovani o anche per il cinquantenne che cambia ditta, il quale a quel punto passerebbe da un contratto con l’art. 18 a un contratto senza? E’ questo che loro vogliono: la riserva indiana. Si chiude un popolo, anche grande, in una riserva e poi dopo si va avanti a decimarlo.

 

Quindi quando Ichino afferma che la sua proposta non vuole togliere i diritti ai padri per darli ai figli, non la dice tutta…

Ma li toglie sì, perché quando il padre cambia lavoro diventa figlio.

 

Nella logica di Ichino, il bacino dei garantiti non finirebbe svuotato, perché il suo ddl prevede l’accesso automatico alle tutele più forti, dopo tre anni, anche per i nuovi assunti. Ma questo percorso è davvero scontato? Cosa impedirebbe una azienda di liberarsi di un lavoratore prima dei tre anni, tanto più che gli oneri a carico delle imprese, come il pagamento dell’indennità di ricollocazione, scatterebbero solo dopo il superamento dei due anni di anzianità di servizio? Quali garanzie ci sono che il rapporto non si interrompa anticipatamente?

Ovviamente nessuna. Non solo. Ichino scrive che con la sua proposta, la protezione dell’articolo 18 contro i licenziamenti discriminatori sarà estesa a tutti i lavoratori. Ma siamo matti? E’ dal 1966 che i licenziamenti discriminatori riguardano tutti i lavoratori. Se invece Ichino intende estendere a tutti la protezione contro i licenziamenti per motivo soggettivo, magari. Lo dica chiaramente però.

 

Ichino dice di ispirarsi al modello danese. Nessuno inamovibile ma, da un lato, il lavoratore avrà la «garanzia della continuità del reddito» e dall’altro, «servizi di assistenza intensiva nel passagio dalla vecchia occupazione alla nuova». C’è un piccolo problema: chi paga? Confindustria difficilmente accetterà che l’indennità di ricollocazione venga posta a carico delle imprese. D’altra parte gli economisti del sito lavoce.info, Boeri e Garibaldi, stimano in 15,5 miliardi di euro a regime la spesa per introdurre un sussidio unico garantito a tutti. Tutto questo mentre l’Italia rischia il default. Non c’è un po’ di demagogia quando si cita la Danimarca?

Ce n’è fin troppa. Siamo un paese, vedi Barletta, dove ci sono le fabbrichette in nero che crollano addosso agli operai, e tu mi vieni a fare il ragionamento sulle imprese, spesso in crisi, che si fanno carico degli ammortizzatori sociali? Ipotizzi il triangolo d’oro sindacati-aziende-uffici del lavoro che in pochi mesi riqualifica e trova un’altra occupazione al lavoratore licenziato? Acerra provincia di Copenhagen? Ma stiamo scherzando? Come minimo chi dice certe cose è fuori dalla realtà. Noi dobbiamo invece dire un’altra cosa: e cioè che i licenziamenti per motivo soggettivo (o giusta causa) sono delle punizioni. Per questo l’articolo 18 va esteso a tutti, perché se uno non ha fatto il peccato non deve fare la penitenza. Invece basterebbero quattro piccolissime misure giuridiche per eliminare al 70%, nel giro di un anno, tutto questo precariato: rendere pubblica l’anagrafe del lavoro, dove sono registrati i contratti applicati dalle imprese; consentire ai sindacati di impugnare i contratti precari illegittimi; consentire all’ispettorato del lavoro di trasformare questi contratti illegittimi in contratti regolari; dare il diritto di stabilità al lavoratore così regolarizzato, indipendentemente dal numero dei dipendenti dell’impresa.

 

Roberto Farneti – Liberazione