Gli sgravi ai giovani servono solo alle imprese

giovani lavoro cercasifuturodi Marta Fana
il Fatto quotidiano, 25 agosto

Sembrano ormai certi i provvedimenti che caratterizzeranno la legge di Bilancio prossima in tema di lavoro. Da un lato, l’aumento dell’età pensionabile, legato all’aspettativa di vita; dall’altro, incentivi alle imprese per l’assunzione dei giovani.

Un governo a corto di idee, che prova a replicare quanto fatto negli ultimi anni, nonostante l’aumento occupazionale rimanga residuale nelle quantità e scarso dal punto di vista qualitativo. Sul tavolo delle trattative, il ministro del Lavoro rilancia l’obiettivo della misura: con uno sgravio pari al 50% dei contributi dovuti si punta a 300 mila nuove assunzioni a fronte di 2 miliardi di spesa. Un livello di assunzioni nette che non fu garantito neppure nel 2015 quando gli sgravi erano totali – fino a 8.060 euro per neo assunto. Sul fronte occupazionale un simile aumento è più che un miraggio considerando che non si ebbe neppure sotto il programma Garanzia Giovani che di fatto regalava alle imprese nuovi lavoratori.

Il rischio quindi è semplicemente quello di sostituire forme contrattuali diverse, a partire dai contratti di apprendistato – non privi di abusi – senza generare nuova occupazione. Su tutto il resto rimane l’incentivo a utilizzare quei contratti e non contratti che liberano le imprese dal costo del lavoro e sue responsabilità: voucher, contratti a chiamata, somministrazione di soggetti “svantaggiati”, studenti in alternanza scuola-lavoro.

Sebbene non sia ancora chiaro che forma assumeranno gli sgravi, temporanei o strutturali, la cornice entro cui si muovono non desta alcun dubbio. La riduzione del carico fiscale in seno alle imprese pagato dalla fiscalità generale (assumendo che si verifichi) implica uno spostamento di risorse dei lavoratori, i maggiori contribuenti in Italia, alle imprese le quali tutto fanno tranne che redistribuire i risparmi sotto forma di aumenti salariali, mantenendo basso il potere d’acquisto dei lavoratori. Sono inoltre risorse che potrebbero essere adoperate dallo Stato per garantire servizi ai cittadini, contro i quali, invece, ormai da più di un decennio si scaglia la politica di austerità di bilancio: parliamo di istruzione, casa, trasporto pubblico e sanità. Sarebbe proprio a partire da questi settori che il governo potrebbe cambiare rotta in termini di lavoro e definire un piano del lavoro strutturale che coinvolga tecnici, insegnanti, funzionari, medici, bibliotecari, autisti di un servizio pubblico a oggi sempre più sottodimensionato, obsoleto e non universale.

Perseverare in una politica dell’offerta di lavoro senza mai interrogare la domanda da parte del settore privato, caratterizzato da un tessuto imprenditoriale senza stimoli produttivi – a parte il taglio invano delle tasse – e senza un disegno di medio e lungo periodo. E lì dove si può, questa domanda viene soddisfatta permettendo di occupare lavoratori senza l’obbligo di un salario, di una retribuzione, di diritti come se il lavoro gratuito fosse una cosa normale.

Riaprire una discussione seria contro la disoccupazione di massa e la sottoccupazione non può prescindere dal ragionare congiuntamente sui tempi di lavoro e quindi anche sulle pensioni, ma soprattutto sul cosa produrre e dove indirizzare gli investimenti a partire da quelli pubblici, per rilanciare la domanda aggregata a prescindere dai vincoli europei.

Assumere giovani in un modello produttivo caratterizzato da servizi a basso costo, turismo e ristorazione non potrà garantire buona occupazione, ma lavoro sempre più povero e diseguale, indipendentemente dal titolo di studio, dalle evocate competenze individuali.