Anche quest’anno arriva il Primo Maggio

1maggio 2016 wftydi Stefano Barbieri per Marx21.it

Anche quest’anno arriva il Primo Maggio, la Festa del Lavoro. E l’Italia, recita la Costituzione, è una Repubblica fondata sul lavoro.

Bisogna parlare del lavoro, tutti parlano, a volte a sproposito, del lavoro. L’abbiamo fatto anche noi, l’ho fatto anch’io, molte volte dalle pagine di questi sito. Forse troppe volte, forse sbagliando, sempre sperando che chi legge facesse propria la centralità della “questione del lavoro”, della contraddizione tra capitale  e lavoro, dell’idea del “lavoro” come strumento della trasformazione della società.

Già, il lavoro…

E allora parliamo del lavoro dei giovani, quello che manca, che quando c’è è sottopagato, spesso sfruttato, regolarizzato dai voucher (quando c’erano, ma tranquilli, arriveranno forme simili), precarizzato a giorni quando non ad ore.

E molti ne parlano come fosse un problema del tipo quartiere a luci rosse e legalizzazione della cannabis, oppure le energie rinnovabili, le piste ciclabili, i presidi sui territori. Ecco allora che, per essere “moderni” si parla di “jobs act”: che prende il nome americano proprio per sembrare un’altra cosa, bellissima, molto “free”, che si scrive bene sui post e le slides ed i tweet.

Bello il jobs act, moderno, che cancella l’art. 18 con le tutele per i licenziati senza giusta causa ed i contratti a tempo indeterminato per tre anni, che dopo due vai già a casa ed il padrone ha preso una barca di soldi per assumerti e licenziarti in fretta, che dopo di te tocca ad un altro.

Dicono che manca il lavoro dei giovani. Non è vero, Il lavoro manca e basta. Per tutti, ti salvi (poco) se hai più di 50 anni e la riforma Fornero ti fa sfacchinare fino a 70. Allora si, qualcosa forse puoi trovare.

A guardar bene,  sono in movimento due scale mobili, una sale, quasi vuota, verso porte chiuse. È quella del lavoro e di tutti i suoi “acts” che dovrebbero garantire la ripresa (invece è il contrario, è la ripresa, se ci fosse, che garantirebbe il lavoro). L’altra scende, piena zeppa di licenziati, esodati, prepensionati e precari già dismessi, che ha due nomi, a seconda di chi la guarda:  vista dal basso e tra la gente, è la disoccupazione. Vista dall’alto, da chi spinge giù dalla scala, è risanamento. Si ottiene chiudendo, vendendo, spostando una grande impresa dall’altra parte del mondo, realizzando festosamente un “merger” (fusione) di aziende diverse, in cui metà del personale è in esubero, rendendo smilza e moderna una impresa che va bene in modo da “premiare” investitori e manager liberandosi dalle persone.

E le persone, ormai da quasi vent’anni, sono sempre in esubero. Sul problema dibattono gli esperti, economisti, analisti, opinionisti: alcuni che affermano e dimostrano come si consolidano ricchezze sempre più grandi e sempre più lontane dai livelli della povertà, che sono in continua espansione come certificano gli ultimi dati ISTAT, come l’ineguaglianza fra vertici irraggiungibili e condizioni invivibili è stabile in un anno ma anche in dieci. Non si sono viste tassazioni, trovate, espedienti, benefici che abbiano intaccato la diseguaglianza, salvo le tasse sui ricchi che tendono a diminuire il loro contributo e ad aumentare la distanza da coloro che sono esclusi dalla ricchezza. Cioè il lavoro.

Altri, e mi viene in mente, uno per tutti Alan Friedman su Il Corriere della Sera, che sosteneva : “Il motivo principale per cui l’economia italiana continua a essere anemica, è la mancanza di modernizzazione. (…) Senza un costo del lavoro ragionevole, una vera flessibilità del mercato della occupazione, una migliorata produttività, l’Italia non potrà progredire (…). Ora c’è Renzi, che prova a spingere l’acceleratore ma inciampa nei gattopardi del suo partito, o nelle resistenze di Sel e dei Cinquestelle. Ma Renzi deve, se necessario, ‘sbattere la testa contro il muro’ e proporre cambiamenti strutturali che non faranno piacere a Susanna Camusso”. Renzi lo ha fatto, come ora Gentiloni, che poi è la stessa cosa, dai..

Lo hanno fatto e un po’ hanno sbattuto, contro il muro del referendum di Dicembre sulla riforma costituzionale che, abbinato al Jobs Act, piaccia o no, parlava del lavoro, estrometteva dalla Costituzione la centralità del ..”fondata sul lavoro”. E hanno sbattuto contro il muro della CGIL, che con il suo referendum, ha costretto a ritirare le leggi che regolamentavano voucher ed appalti, al fine di evitare un altro schianto per il Governo.  Ha fatto bene la CGIL, ha osato e ha vinto, riportando a parlare del lavoro sia la politica che la società.

La CGIL ha svolto, finalmente, un ruolo, il suo ruolo che non va snaturato o sbeffeggiato. Criticato? Criticabile? Si, assolutamente si e molte volte. Ma contrapporre ad esso la disintermediazione dei rapporti di lavoro tra imprese e lavoratori, come sostiene il M5S è una stupidaggine sesquipedale, una assurdità politica che può commettere chi o non conosce il mondo del lavoro o non ha capito niente dei rapporti di forza tra chi detiene i mezzi di produzione capitalistica e i lavoratori.

Dunque ha fatto bene. Ma non basta, perché resta in campo una schifosa alternativa: o la ripresa o il lavoro. Ovvero è il lavoro che si mette in mezzo, con le sue ottuse pretese, fra noi e il benessere.

Già..“Noi”. Questo “noi” è una piazza polverizzata senza partiti di riferimento, dove ciascuno diffida di tutti, non appartiene a niente e si sente personalmente danneggiato dalla paga di uno che ancora lavora, e dalla pensione di un altro, che considera sicuramente un privilegio. Ma non si sente danneggiato dalla ricchezza di pochi, meglio se immensa, perché è una buona garanzia (peraltro sbagliata, come abbiamo visto) che il ricco non ruba e non depreda lo Stato come fanno invece insegnanti, giudici e impiegati pubblici.

E allora avanti con la strategia vincente, al momento, della guerra tra poveri, tra chi vive di lavoro dipendente o ne ha le pensioni, tra sindacati (i confederali “venduti” ed i “puri” di base), tra gli italiani e gli immigrati, che “sicuramente portano via il lavoro a me, altro che balle”, tra movimenti che vorrebbero difendere il lavoro.

A questa guerra è stata aggiunta la guerra generazionale, in modo da essere sicuri che i vecchi che hanno lavorato e lasciato nel lavoro la loro testimonianza, non abbiano rispettabile voce in capitolo. Ogni anziano deve apparire come il vero ostacolo ai diritti di un giovane. L’antipolitica è stata poco a poco trasformata in anti-lavoro, e guerra fra chi non ha. Piace che si mandi via gente dalla Rai. Certamente sono abusivi. Piace mandar via gli statali, riciclando tutte le storie dell’impiegata che chiude lo sportello, benché ci sia la coda, per fare la spesa. Bene i licenziati per l’Alitalia e la persuasione che le centinaia di esuberi siano perdigiorno finalmente stanati. Tu hai il mio posto. O un posto che io occuperei molto meglio.

Ed è questa guerra che fa il gioco del padrone, si il padrone, che spezza il conflitto di classe, che tiene fermo e isolato il lavoro, mentre altri provvedono a spezzarlo, spostarlo, delocalizzarlo, privarlo di dignità, trasformarlo nella implorazione di certi cortei di fronte alla fabbrica vuota.

Eppure, sembra strano,  ma in un momento così drammatico non esiste un partito del lavoro. Non c’è più la visione marxista, quella dei comunisti, ma nemmeno quella socialdemocratica o anche solo keynesiana. Non esiste chi dice, con autorevolezza e ascolto, che il lavoro non è elargizione, non è spreco, non è spesa buona ma impossibile, non è una trovata politica. E’ questione di classe,  è la forma necessaria di un tipo di società, quando ha raggiunto un grado di civiltà che credevamo il nostro presente. Infatti è la società descritta con particolare enfasi e attenzione dalla Costituzione italiana.

Però è così quando non si è precari e si trova un senso nella lunga durata dell’idea di una società giusta e delle sue strutture sociali, quando si produce adesso e si investe nella ricerca per il futuro. Ma oggi la vita si è contratta tra lo spasimo delle borse, dove conta solo ciò che si incassa subito, e lo spasimo del potere, che deve compensare subito perché non dura. Nella vita breve conta la distanza esagerata fra la base (tutti) e il vertice di ignoti proprietari. Conta la delocalizzazione e la fuga.

Non conta altro, per cui non conta il lavoro.

Tocca a noi, ai comunisti, alla sinistra, tornare a farlo contare. Rimetterlo al centro del nostro agire, dei nostri pensieri, della nostra idea di società e del mondo.

Quante volte lo abbiamo detto, quanto poco lo abbiamo fatto, quanto serve farlo.

Ci riusciremo? Non lo so.

Per ora, buona festa del lavoro a tutti noi.