Il governo politico dei “mercati” nella versione austera del professor Monti

di Paolo Ciofi* | su www.paolociofi.it

 

berlusconi-monti-w350*ex parlamentare del Pci, vicepresidente dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra e presidente dell’Associazione Articolo 1. E’ autore del libro “Il lavoro senza rappresentanza” (manifestolibri, nuova ed. 2011)

 

A Berlusconi, che gli chiedeva di fare il leader di un governo di centro-destra, il prof. Monti avrebbe risposto così: «i mercati vogliono le larghe intese» (Corriere della sera del 12 novembre). Poche parole che in modo folgorante chiariscono il senso della fase che stiamo vivendo: innanzitutto, perché il Cavaliere alla fine sia stato costretto a scendere da cavallo, e perché al suo posto sia asceso l’austero supertecnico eurobocconiano. Già da tempo i “mercati”, come ha scritto più volte l’Economist, non si sentivano garantiti da un personaggio giudicato impresentabile, troppo permeabile alle spinte populiste del leghismo, del tutto inabile come uomo di Stato e di governo. E al momento della resa dei conti hanno preteso che il governo Monti raccogliesse in Parlamento il consenso bipartisan di berlusconiani e antiberlusconiani. Come a dire che quando il gioco si fa duro, l’alternanza di governo nei sistemi politici attuali, praticata dentro il perimetro dell’alta finanza che dispone di uomini e cose, comporta una comune chiamata alle armi.

 

E’ la democrazia del «Senato virtuale» da tempo descritta da Noam Chomsky, altrimenti denominata dittatura del capitale, su cui nel Vecchio continente non si riflette a sufficienza. Ed è la lampante controprova che oggi nel nostro sdrucito stivale come in Grecia, in Europa e nel mondo, i cosiddetti mercati, vale a dire una cerchia assai ristretta di proprietari universali, in prevalenza banchieri e finanzieri, sono in grado di imporre le loro scelte a intere nazioni e a milioni di esseri umani. Sebbene gli effetti delle loro azioni siano distruttive, possono farlo perché entrano direttamente in politica, perché dispongono della forza politica adatta allo scopo. E’ un processo in atto già da decenni, che si è imposto con la globalizzazione capitalistica. Per converso, coloro che subiscono la crisi oggi non hanno forza politica, e perciò non sono in grado di prospettare concretamente un diverso ordine economico e sociale che incida sulle cause di fondo della crisi medesima, pur nel diffondersi della protesta e dell’indignazione. Questo è il punto dirimente su cui dovremmo concentrare l’attenzione.

 

Il governo Monti non è affatto un governo tecnico. E’ il governo politico delle banche e dei “mercati”, ossia dei proprietari universali nell’età della globalizzazione del capitale. Composto da esperti di notevole valore, è stato costruito in modo intelligente e colto, con aperture significative verso il mondo cattolico, sotto la regia di una persona proveniente da una scuola di alta politica, come era quella del comunismo italiano. Non è un’operazione banale, ma il tentativo di recuperare una funzione egemonica da parte delle classi dirigenti del capitalismo in crisi, destinata comunque a lasciare il segno negli assetti economici e politici. L’assenza dei rappresentanti dei partiti nel governo non ne cancella il chiarissimo significato politico. Al contrario, nella fase del massimo discredito delle forze politiche, ne sottolinea massimamente la politicità, anche nel senso – esplicitamente dichiarato dal nuovo presidente del Consiglio – di riconciliare il Paese con la politica dopo le sconce esibizioni del Pulcinella milanese: ovviamente, con la politica dei detentori del potere economico.

 

Di fronte al rischio Paese, Monti non propone un compromesso tra diverse classi sociali, che possono essere travolte dalla comune rovina. Non mira alla definizione di un patto tra capitale e lavoro sul piano della pari dignità, tanto meno con il lavoro in posizione preminente come la Costituzione prevede. La sua missione è volta alla costruzione di un equilibrio meno rissoso, più avanzato e dinamico tra diverse componenti della nuova borghesia del XXI secolo, che con tutta probabilità porterà a una scomposizione-ricomposizione degli schieramenti politici. E’ un problema che riguarda tutti: il Pdl, il Pd, il Terzo polo, come pure la sinistra dispersa fuori dal Parlamento, i sindacati, le diverse espressioni dei movimenti sociali. Si è aperta una fase nuova, e nelle intenzioni di chi la guida, dopo il fallimento dell’illusione berlusconiana e l’impraticabilità di una reale alternativa, si tratta di un tentativo di proiettare il sistema italiano all’altezza delle nuove configurazioni del capitalismo globale finanziarizzato, ricollocandolo in una posizione meno subalterna tra le potenze europee.

 

Ma cosa vuol dire oggi, nel pieno della crisi, governo delle banche e dei “mercati”? In sintesi, vuol dire usare le risorse degli Stati nazionali, di tutti gli Stati nazionali, redistribuite attraverso i bilanci pubblici, per garantire una rendita stabile e sicura ai detentori del debito, oggi detto sovrano, che ormai non sono le famiglie ma appunto banche e “mercati”, i proprietari universali. La priorità non è più quella di elevare la condizione sociale e culturale del Paese – e quindi di destinare risorse a finanziare la salute, la sanità e la previdenza, la scuola, la cultura e la ricerca pubbliche -, ma di stabilizzare la ricchezza finanziaria del sistema. L’orientamento dei “mercati” è chiarissimo: o ad essi si assicura una grassa rendita nel tempo, oppure si ritirano e ti condannano all’insolvenza. E’ già successo negli anni Novanta al Messico, alle “Tigri asiatiche”, alla Russia, all’Argentina. Intere nazioni sono state depredate e distrutte, e adesso è il turno dell’Europa. Uno stato delle cose che il prof. Monti si ostina a chiamare economia sociale di mercato.

 

Per conseguire l’obiettivo di garantire ai detentori del debito una rendita grassa, sicura e stabile nel tempo, è necessario mettere in efficienza tre pilastri (dicesi “efficientare”, nel gergo orribile degli “strategisti” del business). Il rigore, perché senza il taglio della spesa pubblica non si liberano risorse e spazi d’intervento a vantaggio del capitale privato. La crescita, perché se non cresce l’economia reale i debiti alla fine non si possono pagare. E l’equità. Ma non nel senso costituzionale dell’uguaglianza nel rapporto di produzione, oltre che davanti alla legge. Bensì nel senso che, eliminata ogni distorsione, tutti devono essere ugualmente disponibili a sottostare alla regola del “libero mercato”, e quindi a farsi liberamente sfruttare dal capitale globale, magari in forme meno grevi e selvagge di quelle adottate dal liberismo della prima ora. E anche nel senso di attenuare sia pure simbolicamente le enormi disparità sociali, in modo che le misure di rigore non generino rivolte diffuse alimentando il disfacimento del sistema.

 

Alla fine però non si va tanto per il sottile. Per intenderci, il moderno modello Marchionne, secondo il quale viene eliminato il contratto nazionale e cronometrato anche il tempo dei bisogni corporali, sembra del tutto soddisfacente. Se sei italiano, brasiliano o polacco non fa differenza: siamo tutti uguali, nella misurazione dei costi al ribasso. L’equità è massima, ed è vero che il capitale finanziario globale non guarda in faccia nessuno. L’operaio “garantito” perché ha conquistato un diritto, il precario che non sa cosa sia il diritto, lo scienziato, il prete, il poeta: tutti devono sentirsi ugualmente abili e arruolati alle sue dipendenze. Come ha detto Eugenio Scalfari alla Gruber senza ombra d’ironia, ormai siamo tutti liberali. Il dilemma è: liberaldemocratici progressisti, o liberali conservatori? In ogni caso, un bel passo avanti verso il passato.

 

Una materia nella quale il professore che adesso ci governa è un vero specialista, avendo dimostrato da commissario europeo che, fissate le regole nell’interesse superiore del sistema, nessuno deve fare il furbo, compreso un potente come Bill Gates. L’importante è non andare fuori strada. Perciò i piromani che hanno appiccato il fuoco della crisi oggi a pieno titolo possono travestirsi da pompieri. Non risulta che il capo del governo, nelle sue dichiarazioni programmatiche, abbia proposto misure per mettere sotto controllo i “mercati”, colpire la speculazione, abolire i paradisi fiscali che prosperano in Europa. Né che abbia indicato programmi che cambino la qualità dello sviluppo a livello nazionale ed europeo, mettendo al centro la tutela del territorio, il risparmio energetico, il benessere sociale e innalzando il potere d’acquisto di salari e pensioni. Neanche sulla struttura tecno-burocratica della costruzione europea, che soffre di un evidente deficit di democrazia, come pure sull’anomala configurazione della Bce, il professore ha detto una parola.

 

Pensa davvero che si possa uscire dalla crisi tagliando la spesa pubblica, dando una nuova spinta alle privatizzazioni, liberalizzando ulteriormente il mercato del lavoro e penalizzando le già magre pensioni della stragrande maggioranza degli italiani? Vale a dire adottando a vele spiegate – seppure senza dichiararlo – il modello dei “liberi mercati” americani? Lo stesso modello che ha spalancato la porta alla crisi globale, mentre sul fronte della vera equità fiscale, che riguarda le enormi rendite parassitarie e i grandi patrimoni, manca il coraggio per un effettivo cambiamento. Su questa strada si potrà forse nel breve periodo, grazie soprattutto a uno stile diverso, ripulire il paesaggio dalle scorie più tossiche del berlusconismo, ma di certo non si andrà lontano.

 

Siamo noi l’Europa, ha detto il professore. Ed è vero: con la nostra storia, con la nostra cultura, con la nostra Costituzione e la civiltà del lavoro, noi siamo l’Europa. Ma quale Europa? Oggi il Vecchio continente, dopo il crollo di Wall Street nel 2008, è diventato l’epicentro della crisi e dunque un campo di battaglia, in cui ci si fronteggia non con le bocche da fuoco ma con le invisibili armi letali della finanza. L’assalto agli Stati nazionali da parte dei fondi speculativi prevalentemente titolati in dollari punta all’euro, e l’abbattimento dell’euro produrrebbe un effetto domino sconvolgente con il ritorno del dollaro come unica moneta di riserva su scala globale. Per la Germania, secondo Paese esportatore del mondo dopo la Cina, sarebbe un enorme svantaggio competitivo.

 

Sulla nostra pelle si sta combattendo una vera guerra per il signoraggio delle monete. La cancelliera Merkel difende l’euro, ma nello stesso tempo, imponendo agli altri Stati l’obbligo del pareggio del bilancio per via costituzionale, mira a conformare l’assetto europeo sugli interessi della potenza leader. L’egoismo nazionalistico di Germania e Francia governate dalle destre non è un buon viatico per uscire dall’emergenza. Anche perché la scelta strategica dei tedeschi, che hanno puntato tutto sulle esportazioni comprimendo salari e spesa pubblica e quindi affossando la domanda interna, non sta dando risultati. L’effetto depressivo è inevitabile e genera minori entrate spingendo all’indebitamento: per conseguenza si riaccende la miccia della speculazione in una spirale senza fine. Non può essere questa la strada dell’Europa e dell’Italia, e sarebbe assai grave se il binomio Merkel-Sarkozy diventasse un terzetto con l’aggiunta di Monti.

 

La via d’uscita dall’emergenza consiste nel rilancio della civiltà del lavoro, ridimensionando la finanza e ponendola al servizio dell’economia reale. E’ un strada che passa attraverso la riforma della Bce, l’impianto di una politica economica e fiscale europea, la determinazione di comuni standard sociali e salariali, nonché di livelli di welfare e di tutela dei diritti comunemente accettati. In una parola, si tratta di rovesciare le tendenze e le pratiche oggi in atto. Ma questo implica una lotta sociale e politica di vasta portata e con chiari obiettivi, in Italia e in Europa, che abbia continuità e forza organizzata. Chi la promuove? I movimenti, nella loro generosità e discontinuità carsica, sono necessari ma non sufficienti.

 

Si dice: ci vuole una Costituzione europea. Benissimo, ma – bocciato il vecchio progetto – chi la scrive? Inevitabilmente la scriveranno i “mercati”, se tutti quelli che subiscono le conseguenze pesanti della crisi, a cominciare dai lavoratori dipendenti e precari, giovani e donne, non si organizzano politicamente in una vasta coalizione. La subalternità al capitale e ai “mercati” diventa inevitabile non perché è una legge di natura, ma perché non è in campo una forza politica in grado di contrastarla offrendo un’alternativa. Perciò, piuttosto che alimentare poco significative discussioni sulla morte della politica, è necessario praticare un’altra politica. Vale a dire utilizzare in Italia la fase di transizione del governo Monti con l’obiettivo di contribuire a far convergere sul terreno programmatico le forze sociali oppresse e le diverse espressioni dei movimenti in una nuova dislocazione politicamente rilevante, in grado di pesare nella società e nelle istituzioni. E’ un’esigenza ineludibile: anche per far sì che dal prossimo appuntamento elettorale, al quale si perverrà sicuramente con gli schieramenti politici terremotati da questa fase di “decantazione”, possa emergere ed essere vincente una alternativa democratico-costituzionale forte, stabile e avanzata.