Taranto brucia (1) e il plusvalore sociale (con un reportage di Gianmario Leone)

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5.000 esuberi per continuare con Arcelor Mittal? Se 5.000 vi sembrano pochi…

Ma se 5.000 non sarebbero neanche sufficienti a bonificare l’aria, il suolo e l’acqua, la fabbrica e il territorio. 

E gli ideologi del liberismo multinazionale capitalistico si scandalizzano per la proposta della ripubblicizzazione e i loro poeti, su stampa e tv, starnazzano. Ma, “la produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sé, ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’auto-valorizzazione del capitale”. (Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, 1980, pag. 556.)

E una parte del plusvalore, assai consistente, dei padroni dell’acciaio, consiste nell’inquinamento. 

Solo la ristatalizzazione della siderurgia italiana, propugnata dai comunisti da sempre, permetterebbe il plusvalore sociale, cioè coniugare la produzione con l’ambientalizzazione radicale, le bonifiche e l’occupazione, investimenti sulle tecnologie delle aree a caldo realmente ecocompatibili e diversificazione produttiva del territorio jonico all’interno di una pianificazione economica nazionale. (fe.d.)

Il reportage di Gianmario Leone. I lavoratori sfilano silenziosi davanti alle telecamere. Dopo la gestione Riva, dopo esser sopravvissuti al quinquennio commissariale, speravano di aver trovato una nuova stabilità

Taranto, la città divisa e sfiduciata piange i suoi morti dentro e fuori l’azienda

Ancora una volta Taranto è arrivata impreparata ad un appuntamento cruciale per la sua storia. E’ lo stesso copione del 2012, se non peggio. Perché se è vero che sette anni fa la questione ‘Ilva’ era un problema ‘di pochi e per pochi’, vuoi per ignoranza, per ignavia, o per interessi legati a doppio filo al ‘sistema Riva’, oggi, ad un passo dal 2020, una città divisa, smarrita, indolente, quasi invisibile, non la si può immaginare se non si vive qui: eppure è così.

È CERTO CHE LA DELUSIONE, la rassegnazione, il dolore, la rabbia per le tante occasioni perdute è più che lecita e giustificata. Così come lo scoramento per essere rappresentati da quasi trent’anni da una classe politica, imprenditoriale e intellettuale del tutto inadeguata e impreparata a gestire il presente e ad immaginare il futuro. Però tutto questo non basta a spiegare e a giustificare il perché, ancora oggi, di fronte alla concreta possibilità di chiudere, magari anche solo parzialmente, una pagina che ha fatto la storia di questa città, si arrivi all’appuntamento a ranghi sparsi. Ognuno per conto suo, ognuno chiuso nel cortile della sua associazione, del suo comitato, della sua organizzazione: ognuno con una ricetta diversa che è sempre migliore di quella degli altri. E così, da un lato, abbiamo la città che vuole chiudere, una volta e per sempre, i conti con la grande fabbrica. Troppi i morti, troppi i malati, troppe vite spezzate, troppe famiglie distrutte. Troppi giovani lavoratori caduti sul lavoro. Tutto troppo in cambio di un lavoro. Non hanno torto.

NON INVENTANO NIENTE: decine di studi scientifici a partire dagli anni ’80 per finire ai più recenti, riportano una situazione sanitaria inaccettabile per qualsivoglia comunità. E’ quella parte della città nella quale si ritrovano decine di associazioni e comitati, la maggior parte nati dopo il fatidico luglio del 2012. Una realtà trasversale che racchiude ogni fascia sociale di Taranto: dall’operaio al medico, dall’insegnante al bancario, dal magistrato al commerciante, dal dipendente pubblico al disoccupato, sino ad arrivare agli studenti più giovani. Il grave errore è stato quello di non esser stati capaci in tutti questi anni di fare sintesi, di non aver sfruttato l’onda lunga dell’inchiesta del 2012 che fece scendere in strada 30mila persone. Ha prevalso l’io sul noi. Se in questi giorni di grande caos durante i sit-in all’esterno dell’ex Ilva, non sono mai stati più di una trentina di persone, è evidente che molto non ha funzionato a dovere. Come non ha funzionato la strategia di legarsi a doppio filo al governatore Michele Emiliano: molti esponenti di comitati e associazioni sono da anni legati al presidente e ad i suoi uomini all’interno della Regione o ad esponenti di ARPA Puglia. Come non ha pagato la strategia di votare in massa nel 2018 il Movimento 5 Stelle, che non è stato in grado di reggere l’urto con la gestione reale della cosa pubblica, portando in Parlamento e in Senato esponenti non all’altezza della situazione, che a Taranto non si vedono più da oltre un anno.

DALL’ALTRO LATO c’è invece quella parte di città che, pur avendo oramai contezza dei danni sanitari e ambientali dell’Ilva, del siderurgico non può farne a meno per continuare a condurre una vita dignitosa. E regalare un futuro ai propri figli e alle proprie famiglie. Sono gli oltre 10mila lavoratori del siderurgico e di tutto quel mondo oscuro dell’indotto e dell’appalto che impiega altre migliaia di lavoratori con formule contrattuali non sempre delle migliori. I lavoratori oggi preferiscono non parlare, sfilando silenziosi davanti alle telecamere e ai microfoni delle televisioni locali e nazionali, che da queste parti si vedono soltanto nei momenti di massima tensione. Dopo essere passati sotto le forche caudine di una fabbrica che marciava a spron battuto sotto la gestione Riva, dopo esser sopravvissuti al quinquennio del limbo della gestione commissariale, ‘speravano’ di aver trovato una nuova stabilità.

DI CERTO NESSUNO HA FATTO salti di gioia all’arrivo della multinazionale indiana, né nei mesi successivi l’entusiasmo è salito: ma quanto meno si pensava di avere davanti a sé un futuro diverso. Ed invece, in appena un anno di gestione ArcelorMittal, hanno dovuto ingoiare nuove incertezze, nuova cassa integrazione, piangere un altro giovane compagno morto. In questi giorni entrano ed escono dalla grande fabbrica a testa bassa, scrollano le spalle, guardano perplessi i rappresentanti sindacali che oggi come non mai sentono mancare il terreno sotto i piedi.

E POI C’È IL RESTO della città. Quella di mezzo. Quella che vorrebbe vedere una città finalmente unita, ma non sa come fare perché ciò avvenga realmente. Quella di chi ogni giorno aiuta chi ha di meno, perché Taranto è città solidale, aperta, fraterna, come ogni città di mare che si rispetti. Quella di chi ogni giorno fa il proprio dovere in silenzio, la così detta maggioranza silenziosa. Che vorrebbe veder finalmente tutelati diritti sacrosanti: lavoro, salute, ambiente. Quella di chi ama questa bellissima città del Sud, ma che decide comunque di andare via per inseguire i propri sogni.

Che quando parte si lascia alle spalle le scie scintillanti dei due mari, e le centinaia di ciminiere che da decenni fanno da sfondo a parte del panorama della città. Nella consapevolezza che quando tornerà, loro saranno ancora lì, in un modo o nell’altro. Forse.

pubblicato su Il Manifesto dell’ 8 novembre 2019