L’unità dei comunisti e la questione comunista

falcemartello rossoPubblichiamo un interessante dialogo fra Alessandro Pascale, Roberto Gabriele e Paolo Pioppi

Il compagno Alessandro Pascale si è fatto interprete, in questi ultimi tempi, di sollecitazioni unitarie nei confronti di un’area che, in vario modo, si definisce comunista. La domanda che viene spontanea è questa: non è il caso di indagare meglio su come impostare la questione? È esigenza primaria quella di invocare l’unità o è preliminare portare la questione sul terreno dell’analisi e aprire un dibattito di contenuti sui processi che possono dare un fondamento solido alla questione che il compagno pone?

Noi riteniamo preliminare dare risposta su questo terreno prima di inoltrarci in discorsi unitari che, come il passato dimostra, non hanno prodotto risultati. I fallimenti dei progetti unitari hanno, a nostro parere, natura oggettiva e su questo bisogna indagare e discutere.

Da questo punto di vista due sono le questioni sul tappeto: 1) il rapporto tra crisi del movimento comunista e organizzazione comunista e 2) la natura dei gruppi che in Italia si richiamano al comunismo.

Analizziamo la prima questione. Sulla “ripresa” del movimento comunista, in Italia come altrove, pesa la crisi irreversibile che esso ha attraversato a livello mondiale negli anni ’90 del secolo scorso. Illudersi che si possa andare avanti con la denuncia dei traditori e ricostruire sic et simpliciter un partito comunista, come è dimostrato da questi decenni di tentativi andati a vuoto, è un’operazione perdente, sia nella versione cosiddetta marxista-leninista che in quella dei progetti di “rifondazione”. In ambedue i casi si è trattato di ipotesi che non facevano certamente i conti con ciò che era avvenuto o stava avvenendo. Erano infatti tentativi ideologici che nascevano dalle macerie storiche del movimento comunista e che si innestavano con tendenze post-sessantottesche che si nascondevano, come vedremo, dietro maschere “comuniste” e producevano i Bertinotti, il cinismo di Cossutta, i Sofri, i Brandilari e, più recentemente, personaggi come Gennaro Migliore, il guru di Matteo Renzi.

Prima però di analizzare gli innesti specificamente italiani è necessario fare i conti con la questione centrale che è quella della natura della crisi comunista. Non indagare su questo vuol dire o cadere, come peraltro è avvenuto più volte, in una sorta di talmudismo sterile, oppure mettere in piedi operazioni di dubbia origine che rendono grottesca, a dir poco, la nuova progettualità “comunista”.

Il fatto che nel mondo esistono partiti comunisti può dare l’impressione che il movimento comunista sia vivo ma, esaminando la questione più da vicino, ci si accorgerà che quelli che sono al potere gestiscono una situazione nazionale che influenza l’andamento geopolitico e gli altri hanno caratteristiche di minoranze ideologiche. L’eccezione che conferma la regola è quella del Nepal dove un partito comunista ha saputo interpretare le esigenze popolari e ha compiuto una vera rivoluzione. Ma parliamo del Nepal.

La crisi del movimento comunista è una crisi epocale rispetto al ruolo storico che esso ha svolto dentro il primo conflitto mondiale, con la rivoluzione russa, con l’internazionale comunista, con il ruolo di Stalin e con la lotta contro il fascismo e durante la guerra fredda. Il secolo XX è stato definito non a caso il secolo dei comunisti. Questo ruolo del movimento comunista è finito nel momento in cui la bandiera rossa è stata ammainata dal Cremlino e il muro di Berlino è stato abbattuto. Questa storia non può essere ora sostituita, come qualcuno tende a pensare, dalla valorizzazione dell’esperienza cinese che è stata elaborata proprio a partire dalla crisi del movimento comunista e che, a nostro parere, impone un’analisi globale, epocale, della fase storica e delle prospettive future.

La crisi non è stata repentina, era già maturata dal 1956 e anche prima, ma quello che conta è ciò che è accaduto poi, negli anni ’90 del secolo scorso. È da lì che si è prodotta una discontinuità che non poteva non investire coloro che a quella crisi sono sopravvissuti. Ai quali spettava, e spetta ancor oggi, la responsabilità di fare i conti con la storia. Analizzando e difendendo l’esperienza del movimento comunista (in cui Stalin ha avuto un ruolo determinante), ma anche impegnandosi a capire come può procedere in questa epoca storica la ripresa di un movimento comunista.

A fronte di questa crisi non ci sembra che ci sia stata in Italia una ripresa seria e collettiva di un percorso comunista. Abbiamo vissuto l’esperienza tragica di Rifondazione e i suoi esiti, anche se alcuni coriandoli di questa esperienza sopravvivono. Non si può far rinascere una prospettiva senza fare i conti in termini oggettivi sulla funzione storica concreta di una nuova organizzazione comunista.

Una nuova prospettiva storica non si inventa. La dinamica dello scontro politico e di classe di questi decenni non ha certo messo in evidenza il ruolo di una formazione comunista e questo non è casuale. Rimettere assieme i cocci di esperienze fallite non può approdare a nulla.

A meno che, e qui entriamo nella seconda questione da esaminare a cui all’inizio abbiamo fatto riferimento, non si voglia ipotizzare una prospettiva di unità comunista che si fondi su una esperienza post-sessantottina che è nata su un terreno estraneo alla cultura comunista e che, semmai, ce la ripropone negativamente in una forma che è un misto di trotskismo, movimentismo, anarco-sindacalismo. Sicuramente essa non ha le caratteristiche ricollegabili alla tradizione del partito comunista italiano con cui una possibile ripresa dovrebbe misurarsi, non riducendola a una questione di sigle.

Essendoti tu dedicato ad un lavoro di ricostruzione storica del movimento comunista queste cose le conosci bene e ci sorprende il fatto che i tuoi appelli all’unità prescindono da contenuti che ti appartengono rispetto al lavoro che da anni stai svolgendo e che si è anche incrociato col nostro. Quindi sai bene che il metodo comunista di ricerca e di definizione strategica non può essere superato con la buona volontà.

Il discorso fatto finora non tende, sia chiaro, a riprodurre una polemica di vecchio stampo tra chi è comunista doc e chi non lo è. È semplicemente un invito a spostare finalmente la discussione sulle questioni vere che sono di fronte a quei compagni che ritengono necessario riprendere un percorso comune. In questa discussione ed elaborazione non possono essere consentite scorciatoie e improvvisazioni. Anche se diamo per scontato il pessimismo dell’intelligenza

Un caro saluto,  
Roberto Gabriele e Paolo Pioppi.

LA NECESSITÀ DI RAGIONARE PER FASI

I compagni Gabriele e Pioppi pongono questioni giuste e di non facile risoluzione. Credo che nessuno di noi sappia con precisione quali debbano essere le strade capaci di riportare in auge la questione comunista, senza ripetere gli errori del passato. Non si può pensare di riproporre modelli invecchiati con lo scorrere del tempo, specie in un contesto diverso dovuto ad una maggiore – oserei dire senza precedenti per durata e consistenza – vittoria borghese in campo ideologico-culturale. Ho ripetuto spesso che a me sembra fondamentale ripartire da un marxismo-leninismo “aggiornato” alla fase attuale, con tutto quel che ciò significa nella capacità di analizzare il ruolo progressivo della Repubblica Popolare Cinese e le ripercussioni che ciò sta già avendo per il proletariato mondiale.

Un’organizzazione comunista non può che ripartire dalla capacità di svolgere una analisi dialettica adeguata. Chi non dispone del metodo del materialismo dialettico è impossibilitato a svolgere un ruolo dirigente utile nella ricostruzione dell’adeguata organizzazione comunista.

Questa è una prima sicurezza di cui sento di disporre: ci sono ancora molti compagni in Italia che hanno tali qualità, ma essi sono sparsi in organizzazioni diverse. Concentrati in numero maggiore nel PC e nel PCI, ma con presenze non insignificanti anche in altre organizzazioni partitiche o associazionistiche e nella cosiddetta “società civile”; penso ad alcune conoscenze che ho personalmente dentro PAP e al ruolo svolto dalla Rete dei Comunisti, ma anche al lavoro di La Città Futura, Marx21, Resistenze.org, ad alcuni settori del sindacalismo di base, e a singoli (soprattutto giovani) che si stanno impegnando negli ultimi anni nella propria formazione politica senza militare in nessun partito. Non ci sono dei nuovi Gramsci all’orizzonte, ma ci sono molte energie positive. Molti falsi dèi sono ormai caduti e anche gli “anziani” più accorti hanno capito molti errori condotti negli ultimi anni. Certamente c’è ancora molto lavoro da fare. Permangono in molti, nei più oserei dire, il dubbio, l’incertezza, la tentazione di rifugiarsi in una visione nascostamente idealista, ma rassicurante e priva di contraddizioni. Soprattutto mi sembra che manchi la possibilità di farli dialogare tra loro, sparsi in un arcipelago comunista italiano molto litigioso. Non stiamo parlando di tantissimi compagni. Centinaia, qualche migliaia al massimo. Molti sono rimasti senza partito ma ho l’impressione che rispetto a qualche anno fa il livello di coscienza sia maggiore nei partiti esistenti che nella società.

La spoliticizzazione della società e un sistematico processo di rincretinimento popolare realizzato attraverso i mass-media sono dei processi elementari con cui agisce la borghesia, non solo in Italia e non solo oggi. Il totalitarismo “liberale” che ne deriva rende più difficile organizzare un intervento attivo sulle masse popolari, alienate e indirizzate con furbizia su soluzione razziste, xenofobe, nazionaliste (non semplicemente “sovraniste”) e imperialiste.

La Cina sta erodendo il campo d’azione dell’imperialismo occidentale nel mondo, è vero, ma l’imperialismo occidentale non resta a guardare. Gli USA intensificano la resistenza militare e a Washington l’alleanza tra i “falchi” e i monopoli industrial-militari cerca di eliminare Trump per rilanciare le “guerre umanitarie” democratiche. L’Unione Europea, pur nella sua crisi, sta già rinserrando i ranghi, rafforzando il proprio dominio ideologico con la ripresa delle campagne anticomuniste. Nel caso si giunga a scenari di guerra sempre più caldi (è noto come i “democratici” siano assai più ostili alla Russia di quanto non lo sia Trump), non è da escludere che il prossimo passo sia la messa al bando dei comunisti in tutta l’eurozona. L’ottica borghese europea è chiara: in previsione dello scontro tra USA e blocco russo-cinese starà con Washington. Non è pensabile né sperabile (come purtroppo fanno alcuni) pensare che l’Unione Europea si sganci dall’alleanza con gli USA, se non al limite in prossimità di una sua sconfitta finale. Ci sono molteplici ragioni che mi spingono a pensare ciò: anzitutto il legame di classe delle élite dominanti. Un legame che non è fondato solo sul denaro e sul potere, ma anche in molti casi sul sangue, sull’etnia, sulla religione, sulla cultura (politica e non). Inoltre le élite sanno bene che non c’è da fidarsi della Cina e del suo Partito Comunista di quasi 100 milioni di iscritti. La borghesia ha sempre avuto difficoltà a spartirsi il mondo, ma sicuramente non è mai stata contenta di essere ostacolata dai comunisti, per una semplice questione: si crea una concorrenza tesa a distruggere le basi dell’imperialismo.

Se si va verso un possibile conflitto internazionale, occorre premunirsi contro eventuali “quinte colonne” e “disturbatori” interni. I comunisti, che pure oggi sono in Unione Europea spesso insignificanti, rappresentano un problema da risolvere sul nascere, specie ora che stanno cercando di riorganizzarsi ideologicamente e politicamente dopo gli sbandamenti clamorosi del 1989-91. Meglio strozzare il bimbo nella culla. Questo spiega anche l’intensificazione della censura su Facebook che c’è stato il 22-25 settembre.

In questo contesto cosa possiamo fare se non cercare di far dialogare quelle poche teste pensanti e coscienti che sono rimaste nel Paese? Occorre stimolare un dialogo, che non tenda all’accordicchio, al ribasso, al compromesso, ma ad un percorso di confronto costruttivo con tutti quelli che ci stanno. Ogni forza esistente ha le sue debolezze, è vero, ma anche i suoi punti di forza che non è il caso di trascurare, specie nella situazione di crisi oggettiva in cui versiamo. Noi siamo convinti che ci siano alcuni paletti politici necessari per la ricostruzione della questione comunista. Io propongo di non continuare a dircelo tra di noi ma di spiegare le nostre ragioni ai comunisti più coscienti, che stanno dentro e fuori le organizzazioni esistenti. Armiamoci di pazienza e “sporchiamoci le mani”, per dirla alla Sartre.

Ci vorrà sicuramente del tempo, forse più di quello che abbiamo, ma mi sembra l’unico tentativo credibile e realistico nella fase data. Ogni altra opzione rischia di rendere ininfluente la nostra azione sul presente, sancendo di fatto la resa, l’abbandono del “fronte occidentale”. Tanto varrebbe allora iniziare a fare i bagagli per qualche Paese socialista, così da proseguire la lotta in contesti più favorevoli, anche se non necessariamente prioritari.

Nella fase attuale la costruzione di un’organizzazione comunista di classe, rivoluzionaria e radicata sul territorio, che abbia consapevolezza ideologica (materialismo storico e dialettico, chiarezza anti-revisionista sulla storia del movimento operaio) e politica (specie sugli obiettivi: conquista del potere politico e costruzione del socialismo), costituisce a mio avviso una necessità collettiva e urgente. Non mi sembra credibile l’opzione di costruire da zero una nuova organizzazione politica. Quello che possiamo fare è mettere le nostre competenze al servizio di un progetto unitario in cui ci sia un confronto franco e aperto sulle posizioni politiche. Sono convinto che disponiamo delle ragioni valide per convincere tutti della bontà delle nostre posizioni teoriche e politiche. Segnalo ad esempio che Marco Rizzo ha iniziato a parlare di “totalitarismo capitalista”, mostrando un livello di attenzione sulle nuove formulazioni teoriche in campo marxista. Sempre nel Partito Comunista, ed in particolar modo nel Fronte della Gioventù Comunista, c’è un forte dibattito interno nel giudizio da dare sulla Cina. Il Partito Comunista Italiano, che ha altri limiti (specie nel giudizio del movimento comunista italiano e nella riproposizione sostanziale della “via italiana al socialismo”) ha pure saputo far propria la parola d’ordine dell’uscita dall’imperialismo dell’Unione Europea.

Ci sono insomma progressi significativi, a cui in certi casi corrisponde una crescita di radicamento territoriale, in altri no. Dato però che i movimenti sono sterili e molto spesso sono ormai apertamente pilotati e indirizzati dai mass-media e dal potere (il caso dell’ambientalismo è emblematico), tertium non datur. Sia io che voi abbiamo lavorato in questi anni mettendo delle armi teoriche a disposizione della classe lavoratrice italiana. Da soli però non riusciamo a raggiungerla in maniera adeguata. Abbiamo necessità di articolare la nostra azione proponendo una collaborazione alle organizzazioni esistenti, le quali hanno un grosso problema: hanno nel complesso pochi quadri preparati e mancano spesso di un programma comune di formazione politica. Questo è un settore cruciale su cui possiamo intervenire, accogliendo magari la proposta di Luca Cangemi (PCI) di lanciare una campagna anti-revisionista nelle scuole italiane. Perché PCI e PC, che su questo tema hanno sicuramente un bagaglio di conoscenze più adeguato di PAP e PRC, non lanciano una commissione culturale di studiosi noti per la loro professionalità, che abbiano il compito di lavorare ad un documento condiviso sull’URSS “staliniana”, da mettere a disposizione di docenti e studenti di tutte le scuole? Un documento che si proponga di confutare compiutamente le falsità affermate dalla mozione approvata dal Parlamento Europeo il 19 settembre. Un documento che magari inizi a dire chiaramente che lo “stalinismo” è una categoria borghese e anticomunista.

Si tratta di proposte operative che non vogliono essere battaglie estetiche, ma intendono attuare un intervento efficace sul mondo dell’istruzione, uno degli ultimi bastioni di formazione del sapere e di acquisizione per il proletariato di una visione critica e corrispondente alla realtà storica, che gli permetta di vaccinarsi dalle tecniche egemoniche del totalitarismo liberale.

Si tratta di proposte operative di lotte che si possono fare assieme, imparando a lavorare assieme, a discutere assieme, a conoscersi e a confrontarsi umanamente e politicamente. Mai come oggi abbiamo bisogno di un socratico dialogo tra chi condivide i “fondamentali” ma si divide spesso sulle virgole.

Si tratta quindi di ragionare per fasi. La soluzione alle problematiche rimaste insolute del comunismo difficilmente verrà da noi. Noi possiamo contribuire a rimettere assieme un intellettuale collettivo il più avanzato possibile, di modo che questo possa trovare da sé le risposte di cui siamo in cerca da anni. Il collettivo funziona sempre meglio del singolo individuo, se è in grado di autodisciplinarsi e mettersi al servizio della pubblica utilità.

Ricambio il caro saluto a pugno chiuso

Alessandro Pascale