In mezzo al guado

Che fare? Domanda non nuova per la sinistra. L’anno prossimo, anzi, compirà cent’anni il celebre omonimo opuscolo di Lenin, essendo stato pubblicato nel marzo 1902. E domanda in cui può cogliersi proprio lo specifico della sinistra (la sua “ragione sociale”, si potrebbe dire senza tema di smentite), visto che quest’ultima si struttura a partire dall’insoddisfazione manifestatasi nei confronti della risposta più semplice tra quelle ad essa possibili, è quella che il mercante Legendre diede al marchese Colbert (che gli aveva chiesto “Que faut-il faire pour vous aider?”): “Nous laisser faire”.
Non essendo nuova la domanda e presentandosi tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia almeno due volte (la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa, chiosava Marx a margine della nota affermazione di Hegel), è per lo meno probabile che qualcuna delle passate situazioni in cui si è presentato un “che fare?” abbiano qualcosa da dirci. Me ne vengono in mente almeno due, senza pretesa di completezza né di esaustività.
La prima data: anni Trenta del “secolo breve”. Il luogo è la Germania, non ancora hitleriana ma con la repubblica di Weimar gravemente crepata dalla recessione (che in effetti è mondiale) e dalla disoccupazione. Attori i due partiti del movimento operaio tedesco, socialdemocratici e comunisti, entrambi alle prese con una grave crisi di capacità egemonica: i primi, sensibili pressoché esclusivamente alla dialettica istituzionale, intenti a concentrare la propria azione sul piano del governo centrale e di quelli locali, nel tentativo di offrire, con gli strumenti normativi ed economici disponibili, una ciambella di salvataggio alla classe operaia, pesantemente colpita dalla sequenza crisi-ristrutturazione-licenziamenti; i secondi, completamente sbilanciati sul terreno del “movimento”, fermi nel denunciare (peraltro, correttamente) l’insufficienza delle misure socialdemocratiche e proclivi piuttosto a blandire militanti, giovani, disoccupati, sradicati e quant’altro con l’utopia propagandistica dell’abbattimento della repubblica e della conquista immediata del potere.
Come nel titolo shakespeariano del giallo di G. Holiday Hall, “la fine è nota” e non vale qui immorarvi. Mette conto, invece, ricordare che quella frattura era stata tenacemente perseguita dai gruppi dirigenti di entrambi i partiti fin dalla “rivoluzione fallita” del 1918, al punto che – come ha scritto Sergio Bologna – l’unità “dal basso”, cioè quella che nasce nei rapporti quotidiani, sulle cose concrete, era stata resa ancora più difficile da costruirsi che non l’unità di vertice. E quel che è peggio, si trattava di una frattura in cui non c’era una ragione da una parte e un torto dall’altra, ma due torti, giacché né socialdemocratici né comunisti avevano aggiornato il loro arsenale teorico per far fronte alla Grande Crisi innescata dal crollo di Wall Street del 1929 e si trovavano entrambi impreparati di fronte all’incipiente domanda, appunto, “che fare?”. Molti anni dopo, anzi, Joan Robinson avrebbe ricordato lo scoramento che aveva preso il piccolo gruppo di economisti keynesiani di Cambridge, mentre Mussolini e Hitler dimostravano che Keynes aveva ragione.
Il secondo déjà vu è ancora più antico, coevo alla pubblicazione del Che fare?. Si discuteva, nel Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR), di programmi e movimenti e c’era una parte del partito che, sull’onda delle manifestazioni degli anni precedenti, agitava trionfalmente un brano della Critica al Programma di Gotha di Marx (più esattamente, della lettera a Wilhelm Bracke, al quale Marx aveva inviato le “glosse marginali” al programma del partito operaio tedesco poi pubblicate da Kautsky col titolo di Kritik des Gothaer Programms): “Ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi”.
Già che siamo in tema di rievocazioni, il commento di Lenin, sferzante, vale la pena di riportarlo per esteso: “Ripetere queste parole in un momento di confusione teorica è come gridare ‘Cento di questi giorni!’ a un funerale”. Queste parole di Marx, poi, sono tratte dalla sua lettera sul programma di Gotha, nella quale egli biasima aspramente l’eclettismo nella formulazione dei principî: “se è necessario unirsi – scriveva Marx ai capi del partito, – fate accordi allo scopo di soddisfare i fini pratici del movimento, ma non fate commercio sui principî, non fate ‘concessioni’ teoriche. […] Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai abbastanza su questa idea in un momento in cui la predicazione in voga dell’opportunismo va a braccetto con l’entusiasmo per le forme più anguste di attività pratica”.
L’abuso del principio di autorità è vizio dei peggiori e chi scrive vorrebbe, a questo punto, fugare ogni cattiva impressione che potrebbe essersi fatta strada nella mente del lettore: tanto più che, nel suo intimo, è convinto assertore della necessaria soccombenza della ragione dell’autorità di fronte all’autorità della ragione. Ritengo però che questi exempla restituiscano una fotografia – unilaterale quanto si vuole, ma questo è il limite, come il pregio, di ogni fotografia – della sinistra italiana all’alba del terzo millennio, in cui, alla deriva a destra della parte maggioritaria di quel che fu il maggior partito comunista dell’Occidente, giustificata con l’asserito fallimento di ogni esperienza allocativa diversa dal mercato capitalistico, fa da contraltare l’eclettismo teorico della parte “antagonista”, oscillante tra il massimalismo verbale della professione di fede anticapitalistica e la fiducia manifestata nelle “forme più anguste di attività pratica” – le tanto decantate “forme-di-mutualità-autogestite-autorganizzate-dal-basso-secondo-criteri-solidaristici”, vero deus ex machina di ogni discussione teorica che abbia ad oggetto l’indicazione di un’alternativa allo status quo.
Di questa impasse documenta il linguaggio dei quadri dirigenti, dei militanti e degli stessi simpatizzanti: i DS non parlano più di capitalismo ma di “modernizzazione”, Rifondazione più che “comunista” preferisce definirsi “antagonista”, “anticapitalista” ecc., ed è proprio su questo terreno – quello dell’anti – che celebra addirittura la sua immedesimazione col “movimento dei movimenti” nato a Seattle.
Hegel diffidava di ogni “anti” che non specificasse anche il “per”, di ogni negazione che non fosse “determinata”; più esattamente, le negava lo stesso statuto filosofico di negazione, risolvendosi essa nel “nulla astratto”. L’osservazione è tanto più vera per il modo di produzione capitalistico, la critica al quale da sempre è stata di destra e di sinistra, reazionaria e clericale come progressiva e libertaria. C’è ovviamente differenza tra le due: una cosa è criticare il capitalismo perché dà troppa libertà, una cosa è criticarlo perché ne dà troppo poca; una cosa è criticarlo in nome di una passata “Età dell’oro”, un’altra è criticarlo in nome di un possibile progresso sociale e civile.
Se i DS sembrano aver sciolto l’ambiguità eliminando dal loro lessico politico quel “capitalismo” che vi dava origine (e dico “sembrano aver” invece che “hanno” solo per non gufare sul prossimo congresso), Rifondazione mi pare stia nel mezzo di una critica al capitalismo che quasi ha paura di dirsi “comunista”, come se temesse di tagliare i ponti con un movimento in cui, per ora, stanno tutti insieme appassionatamente: Josè Bové e il subcomandante Marcos, Giovanni Paolo II e Manu Chao, i centri sociali e le ACLI, i sindacati e le organizzazioni non profit (comprese le fondazioni bancarie). E’ certo che dirsi “comunisti” nel terzo millennio è impresa ardua, ma bisogna stare attenti: se è vero che il linguaggio (quello teorico come quello comune, ciascuno negli ambiti del proprio dominio) è condizione di riconoscibilità di un fatto, rinunciare ad articolare un punto di vista specificamente comunista, e non solo genericamente anticapitalista o antagonista, può implicare non solo l’incapacità di trascendere una realtà in cui il comunismo, per ipotesi, non c’è, ma anche – e vorrei dire soprattutto – il rischio di non vedere il comunismo anche là dove, per avventura, sopravvivenza o transizione, uno dovesse trovarselo fra i piedi: e la scarsa attenzione, se non il disprezzo, di cui gode presso certi “antagonisti” quella forma rozza di comunismo che abbiamo sperimentato con il welfare state ne è il sintomo a mio avviso più preoccupante.

P.S.: queste note erano state appena ultimate, quando negli Stati Uniti è scoppiata l’apocalisse. Non mi pare che quanto è successo ne infici in qualche modo il contenuto. Caso mai, rende ancora più urgente la definizione di un punto di vista comunista (anche) sulla situazione mondiale, che rifugga sia dalle semplificazioni economiciste dei teorici dell’”Impero”, che risolvono in modo immediato la sfera politica nel dominio del capitale, sia da quelle politiciste che molti “antagonisti” condividono (loro malgrado, beninteso!) col variegato mondo del terrorismo, nelle quali al contrario si dimentica che “si danno situazioni, che determinano tanto le azioni dei privati quanto delle singole autorità, [nelle quali] non si riesce ad addossare in maniera prevalente la buona o cattiva volontà né all’una né all’altra parte”, perché ad un occhio più attento si rivelano “agire situazioni dove di primo acchito sembrava agissero solo persone” (Marx). Non è un caso, infatti, che entrambi questi punti di vista, per quanto all’apparenza opposti, convergano nello sciocchezzaio del “nuovo ordine mondiale”, mentre occorrerebbe riconoscere che l’economia mondiale sta andando verso un’acuta fase di disordine, che potrebbe farla ripiombare nel caos da cui, più o meno seicento anni fa, si originò il modo di produzione capitalistico. Con l’aggravante che non appare chiaro, oggi, se questo caos possa segnare la fine del capitalismo o dell’umanità intera.