Intervento di Vladimiro Giacché all’assemblea di presentazione dell’associazione “Patria e Costituzione”

giacche libro poltronaPubblichiamo l’intervento di Vladimiro Giacché all’assemblea di presentazione dell’associazione “Patria e Costituzione” tenutasi a Roma l’8 settembre 2018

L’incontro di oggi ruota attorno a 3 parole: lavoro, patria e Costituzione

L’idea di fondo è che oggi il lavoro (gli interessi dei lavoratori) possa essere difeso soltanto attraverso un patriottismo costituzionale.

La patria di cui parliamo oggi ha una specifica genesi e una specifica configurazione storico/istituzionale: è la Repubblica nata dalla Resistenza antifascista e contro l’invasore nazista, una Repubblica che ha per l’appunto la Costituzione (i valori cui si ispira, i diritti che rende esigibili) quale architrave istituzionale e stella polare delle sue leggi e dell’operato dei suoi organi statuali.   

Dire questo oggi, e soprattutto praticare una politica conseguente, non è più scontato. Non lo è da anni, in verità.

Il primo motivo di questo è lo svuotamento/negazione della Costituzione da parte dei Trattati europei e della legislazione che a essi si ispira.

Un esempio tra i molti possibili: il recepimento nella nostra legislazione della sola Unione bancaria europea pone in discussione (nega) ben 3 articoli della Costituzione:

l’art. 43, che in coerenza con l’importanza attribuita al settore pubblico dell’economia dalla Costituzione, prevede la possibilità di espropriare  “a fini di utilità generale” (con indennizzo) “imprese o categorie di imprese…che abbiano carattere di preminente interesse generale”;

l’art. 47, secondo il quale la Repubblica tutela il risparmio “in tutte le sue forme”, e quindi senz’altro nella forma di deposito di conto corrente;

e, se passerà la cosiddetta riforma delle banche di credito cooperativo prevista dalla L. 49/2016, anche l’art. 45, il quale prevede che “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. Queste banche, infatti, saranno in riunite in gruppi con a capo una S.p.A. quale capogruppo, e quindi saranno assoggettate alle regole delle società per azioni, che hanno ovviamente finalità di lucro. (A quest’ultimo riguardo va precisato che il nostro Paese è andato anche ultrapetita, operando una trasformazione del credito cooperativo in società per azioni che altri Paesi europei si sono ben guardati dall’effettuare. Ma anche questa è una ricorrente caratteristica del nostro “stare in Europa”…).

Questo non è casuale, ma l’espressione di una contraddizione di fondo tra la Costituzione italiana e i Trattati europei.

Ogni Costituzione rappresenta un punto di equilibrio tra interessi e valori in conflitto e al tempo stesso esprime un modello di società.

Nel caso della Costituzione italiana questo modello è rappresentato, come vide bene Hyman Minsky in un suo intervento del 1993, da “un capitalismo interventista nel quale lo Stato ha un posto rilevante e che è reso flessibile grazie all’azione della banca centrale”. [1]

Ma questo modello (comune ad altre Costituzioni del dopoguerra) nella Costituzione italiana è stato arricchito dal concetto dinamico di “democrazia progressiva”, per il quale la democrazia ha il compito di promuovere l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, visti come termini indissolubili.

Pertanto nella Costituzione italiana non soltanto il lavoro (la Repubblica è “fondata sul lavoro”, art. 1) e il diritto al lavoro sono menzionati nei primi articoli: “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art. 4), ma esso (e il diritto “a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”: art. 36) è centrale per garantire la realizzazione stessa della democrazia. Infatti, come recita il comma 2 dell’art. 3 della Costituzione, “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Gli articoli 3 e 4 della Costituzione rientrano tra i “Principi fondamentali” (artt. 1-12) della Costituzione. Essi non sono abrogabili e rappresentano le finalità che devono essere assolutamente perseguite dalla Repubblica.

Gli articoli successivi, e in particolare i “Rapporti economici” enunciati agli articoli 35-47, costituiscono gli strumenti considerati dal Costituente necessari per perseguire quelle finalità. Essi disegnano un’economia mista, in cui non vi è una preferenza per una forma di proprietà o l’altra (privata, pubblica, cooperativa),ma è comunque attribuita notevole importanza al settore pubblico dell’economia (si veda l’art. 43 già citato).

È difficile immaginare un mondo più lontano da questo di quello disegnato nei Trattati europei, almeno a partire dall’Atto Unico Europeo e con estrema chiarezza a partire da Maastricht.

E’ sufficiente leggere i Trattati per intendere che nell’Unione Europea, e in particolare nell’eurozona, per restare alla tassonomia stabilita da Minsky, “da un capitalismo interventista nel quale lo Stato ha un ruolo rilevante e che è reso flessibile grazie all’azione della banca centrale”, siamo tornati al sistema precedente: “un sistema che possiamo caratterizzare come un capitalismo nel quale lo Stato ha un ruolo marginale, che è vincolato dal sistema aureo ed è ispirato alla filosofia del laissez-faire”. Il sistema aureo oggi si chiama “euro”.

“Forte concorrenza”, “stabilità dei prezzi” e “indipendenza della Banca centrale” dai governi: già a una prima lettura dei Trattati europei emerge come siano questi i principi sovraordinati agli altri.

Ma ce n’è uno più sovraordinato degli altri. Esso compare nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nella parte che riguarda la “politica economica e monetaria”, all’art. 119: “…l’azione degli Stati membri e dell’Unione … comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. La stessa formulazione viene ripetuta all’art. 127, a beneficio dei lettori disattenti.  

Da Maastricht in poi, il valore supremo dei trattati europei è la stabilità dei prezzi. Non è presente, invece, alcun riferimento all’occupazione (a differenza di quanto accade negli USA in cui essa è contemplata nello statuto della Fed).

Questo concetto-guida (si fa fatica a parlare di “valore”) non soltanto non è presente nella Costituzione italiana, ma è contraddittorio rispetto al diritto al lavoro da essa previsto. Per un motivo molto semplice: perché in questo contesto anche solo politiche economico-fiscali di stampo keynesiano a sostegno della domanda aggregata finalizzate alla piena occupazione sono proibite in quanto genererebbero inflazione.

Chi avesse pensato che si trattava di una contraddizione puramente teorica ed eventuale è stato smentito durante la crisi, grazie alla centralità del tasso naturale di disoccupazione (o tasso di disoccupazione non inflazionistico) nella determinazione, da parte della CE, dell’indebitamento strutturale e quindi delle politiche di espansione massime consentite. Non entro nel merito dell’utilizzo come “tavole della legge” di uno strumentario legato all’approccio teorico dell’economia neoclassica, di valore scientifico quantomeno opinabile, e vado al punto essenziale. Quel tasso di disoccupazione, determinato dalla Commissione Europea, per l’Italia da anni si colloca tra il 10% e il 12%. Il tasso di disoccupazione effettivo calcolato dall’Istat era del 10,4% a luglio 2018. Ne consegue che praticamente nessuna politica economica espansiva è consentita.

Ma, soprattutto, è considerato “naturale” un tasso di disoccupazione superiore al 10% delle forze di lavoro. Questa impostazione sarebbe apparsa folle ai nostri Costituenti. Ma è coerente con il Trattato di Maastricht. Se seguo il Trattato di Maastricht devo subordinare alla stabilità dei prezzi il perseguimento del diritto fondamentale previsto dalla Costituzione repubblicana.

Il modello di società dei Trattati europei è quindi estraneo e incompatibile rispetto a quello prefigurato dalla nostra Costituzione. È un modello sociale regressivo, nato sull’onda del fondamentalismo di mercato conseguente al crollo del muro di Berlino, del trionfo dell’ideologia neoliberale e delle farneticazioni dei primi anni Novanta sulla fine della storia.

Esso prevede: a) uno Stato residuale, il cui ruolo è confinato all’intervento in caso di “fallimenti del mercato” (non vi è neppure più l’equivalenza tra forme di proprietà prevista dal Trattato di Roma); 2) una “forte competizione” tra paesi fondata sul dumping fiscale e sul dumping sociale (come è noto, in particolare sul secondo aspetto – ma in verità anche sul primo – si è fondato il successo commerciale della Germania dal 2005 in poi).

Ora, questo meccanismo, in una situazione di cambi fissi (la moneta unica), è semplicemente distruttivo, in quanto impedisce ogni politica economica diversa dal recupero di competitività fondato sulla svalutazione interna, ossia sulla deflazione salariale.

In questo contesto istituzionale e normativo, insomma, la generalizzazione dell’agenda 2010 di Schröder diventa economicamente obbligata (anche se essa deprime la domanda interna all’area e comporta una politica mercantilistica destabilizzante al di fuori di essa – che causa manovre ritorsive: vedi alla voce Trump).

La radice delle politiche di austerity e antisociali è nei Trattati.   

Questo modello, di cui la moneta unica è parte integrante, ha consentito che si creassero gravissimi squilibri di bilancia commerciale tra i paesi dell’eurozona, che sarebbero stati impossibili in un regime a cambi flessibili.

Questi squilibri sono stati ulteriormente aggravati dalla gestione della crisi e dalle politiche pro-cicliche distruttive imposte ad alcuni paesi, tra cui il nostro.

Questo ha alterato i rapporti di forza in Europa in misura tale che la concorde “condivisione di sovranità” a favore dell’Unione Europea, di cui spesso si favoleggia, è risultata in realtà fortemente asimmetrica a favore dei paesi creditori (di cui la CE è stata l’agente durante l’intero percorso della crisi), divenendo una cessione unilaterale da parte degli Stati in difficoltà (qui giova ricordare che la nostra Costituzione parla, all’art. 11, di “limitazione” e non di cessione).

Risultato della gestione europea della crisi è stata la localizzazione principalmente nei paesi debitori della capacità produttiva in eccesso e quindi da eliminare: in questi paesi si è avuta una rilevante distruzione dell’apparato industriale (in Italia la capacità produttiva perduta è arrivata al 20% del totale), e in qualche caso una progressiva spoliazione (esemplari al riguardo le privatizzazioni in Grecia).

In altre parole: alcuni sistemi-Paese hanno vinto, altri hanno perso, in una guerra tra capitali intrecciata con meccanismi classici della lotta di classe.

Non vedere questo oggi in Europa significa essere ciechi.

E qui dobbiamo porci alcune domande: come è stato possibile tutto questo? E soprattutto: come è possibile che di fronte a tutto questo vi sia ancora qualcuno che, a sinistra, vede il problema nella nostra presunta incapacità di “fare i compiti a casa”?

Come è possibile che non si vogliano vedere le dinamiche schiettamente neocoloniali in opera ad esempio nel caso greco?

Tutto questo è possibile a causa dall’adesione pressoché totale delle forze politiche di questo paese, a cominciare da quelle di sinistra, a un paradigma (a una filosofia della storia) che contiene tre elementi fondamentali:

1) L’asserita fine dello Stato (il suo necessario stemperarsi in un insieme più grande – che curiosamente non si riesce a immaginare in modo diverso da un Superstato…), vuoi a causa di una dimensione “inadeguata” a fronte della globalizzazione, vuoi a causa del suo costituire un “relitto barbarico” (la definizione che Keynes dava dell’oro) a fronte del necessario affermarsi di una dimensione internazionalista dell’agire politico.

2) L’asserita assoluta superiorità del mercato quale strumento di regolazione dell’attività economica rispetto al suo indirizzo/coordinamento consapevole (che significa: contrapposizione del Mercato allo Stato, ma anche della spontaneità dei processi economici alla scelta politica e alla decisione democratica).

3) Conseguentemente, l’immediata identificazione dei “veri” interessi nazionali con un’integrazione europea che almeno dall’Atto Unico Europeo ha quale obiettivo preminente la liberazione delle forze di mercato.

L’adesione a questa filosofia della storia è stata pressoché totale a sinistra (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica).

Essa ci ha regalato negli ultimi tempi fenomeni degni di studio: ex teorici della “geometrica potenza” che auspicano il commissariamento dell’Italia da parte dell’Unione Europea; ex lottatori continui che deplorano lo “statalismo” quale “componente necessaria del sovranismo” e ravvisano nell’adesione a quest’ultimo il “rifiuto dell’interdipendenza economica”; quotidiani “comunisti” che trattano il tema dello spread come un Sole 24 Ore (o, peggio, come un Oettinger) qualunque; instancabili cacciatori di “rossobruni” che ricordiamo silenti allorché la banca d’affari JP Morgan in un suo report ammoniva circa la necessità di superare le obsolete costituzioni antifasciste, caratterizzate da una eccessiva protezione del lavoro…

Si potrebbe continuare a lungo. Ma non è importante insistere su questo (si tratta in gran parte di fenomeni pertinenti al folclore politico-giornalistico, e in quanto tali di corto respiro). Il punto è un altro: quel paradigma è interamente falso. In effetti,

1) Non è vero che lo Stato nel XXI secolo non conti più. E lo abbiamo visto in occasione dei bailout pubblici delle banche di mezzo mondo, per entità privo di precedenti storici. Del resto, la riscoperta della materiality of nations – e del carattere ideologico del cosmopolitismo – è uno dei risultati più convincenti del recente indirizzo di ricerca marxista denominato geopolitical economy.

2) Quanto alla contrapposizione tra autoregolazione dell’attività economica (mercato) e suo indirizzo/coordinamento consapevole (Stato), non occorre neppure entrare in dispute teologiche sulla superiorità ontologica dell’uno o dell’altro. Basta osservare che un mercato allo stato puro non esiste e non è mai esistito, neppure nella cosiddetta epoca d’ora del liberalismo: “capitalism does not, cannot and has never relied on a strict demarcation between the state and market”. [2] In tutta l’età moderna lo sviluppo del modo di produzione capitalistico è inscindibile dall’intervento dello Stato: dall’accumulazione originaria all’apertura di mercati tramite le cannoniere; dal protezionismo (correttamente antiricardiano) che ha protetto le potenze commerciali nascenti sino a due guerre mondiali nate dalla lotta per l’egemonia tra le principali potenze capitalistiche; e ancora dalla costruzione di un welfare State fortemente condizionato dalla presenza dell’Unione Sovietica e dalla conseguente competizione tra sistemi alle ondate di finanziarizzazione che hanno consentito agli Stati Uniti di mantenere la loro egemonia quale Stato-centro del sistema mondo capitalistico, tentando di rallentare l’evolvere degli equilibri economici verso la multipolarità (a sua volta resa possibile dall’indubbio successo di alcuni esperimenti contemporanei di capitalismo di Stato). È questa finanziarizzazione, finalizzata al mantenimento della centralità del dollaro, che è stata chiamata globalizzazione (e da Rodrik iperglobalizzazione). Essa è stata messa in crisi, una crisi probabilmente definitiva, dalla Grande Recessione.

3) Non vi è alcuna armonia prestabilita tra la salvaguardia degli interessi nazionali e del lavoro e il procedere della costruzione europea.

Questa illusione è il frutto di un approccio doppiamente ideologico, che vede nelle istituzioni europee un luogo irenico dove non si verifica alcuno scontro tra interessi nazionali in competizione e non si esercita alcuna influenza del grande capitale industriale e finanziario.

La falsa opposizione tra angustia delle “piccole patrie” e la presunta apertura internazionalistica dell’UE è falsa per molti motivi, ma anche per questo: perché oggi nella bandiera europea sono avvolti gli interessi (delle classi dominanti) di alcune nazioni, con altre nazioni che sono state già ridotte a protettorati e altre che sono prossime a questo poco invidiabile status. Nell’UE le prime potenziano la propria sovranità, le altre la vedono ridursi.  

Concludo.

Dobbiamo ripartire dalla Costituzione.

Essa deve tornare a essere il metro di valutazione dei trattati internazionali, ivi inclusi i Trattati europei.

Più precisamente, occorre tornare

alla sovranità democratica e costituzionale espressa dalla nostra Costituzione, sovranità il cui unico luogo democraticamente legittimato – giova ripeterlo – resta lo Stato nazionale,

a rapporti tra le nazioni (europee innanzitutto) fondati sul reciproco rispetto e il reciproco interesse, abbandonando tanto la falsa pista rappresentata dal Trattato di Maastricht quanto il pathos mistificatorio della presunta necessità di un Superstato europeo.

Personalmente ritengo che questa oggi sia anche l’unica chance per ridare qualche speranza a un progetto europeo che voglia essere qualcosa di diverso da quello che è oggi: la copertura ideologica di interessi oligarchici, profondamente antipopolari e antidemocratici.

Ma la cosa più importante è un’altra: questa è l’unica possibilità per consentire al lavoro di tornare ad affermare i propri diritti, in questo Paese e altrove.

E quindi anche per restituire un orizzonte politico a quello che un tempo definivamo sinistra. Che, o serve a questo, o perde la sua ragion d’essere.

NOTE

[1] Per il contesto dell’affermazione di Minsky si veda il mio Costituzione italiana contro Trattati europei. Il conflitto inevitabile, Reggio Emilia, Imprimatur, 2015)

[2] Così Radhika Desai nel suo Geopolitical economy, London, Pluto Press, 2013, p. 278.

Pubblichiamo l’intervento di Vladimiro Giacché all’assemblea di presentazione dell’associazione “Patria e Costituzione” tenutasi a Roma l’8 settembre 2018

 

 

L’incontro di oggi ruota attorno a 3 parole: lavoro, patria e Costituzione

L’idea di fondo è che oggi il lavoro (gli interessi dei lavoratori) possa essere difeso soltanto attraverso un patriottismo costituzionale.

La patria di cui parliamo oggi ha una specifica genesi e una specifica configurazione storico/istituzionale: è la Repubblica nata dalla Resistenza antifascista e contro l’invasore nazista, una Repubblica che ha per l’appunto la Costituzione (i valori cui si ispira, i diritti che rende esigibili) quale architrave istituzionale e stella polare delle sue leggi e dell’operato dei suoi organi statuali.  

Dire questo oggi, e soprattutto praticare una politica conseguente, non è più scontato. Non lo è da anni, in verità.

Il primo motivo di questo è lo svuotamento/negazione della Costituzione da parte dei Trattati europei e della legislazione che a essi si ispira.

Un esempio tra i molti possibili: il recepimento nella nostra legislazione della sola Unione bancaria europea pone in discussione (nega) ben 3 articoli della Costituzione:

       l’art. 43, che in coerenza con l’importanza attribuita al settore pubblico dell’economia dalla Costituzione, prevede la possibilità di espropriare  “a fini di utilità generale” (con indennizzo) “imprese o categorie di imprese…che abbiano carattere di preminente interesse generale”;

       l’art. 47, secondo il quale la Repubblica tutela il risparmio “in tutte le sue forme”, e quindi senz’altro nella forma di deposito di conto corrente;

       e, se passerà la cosiddetta riforma delle banche di credito cooperativo prevista dalla L. 49/2016, anche l’art. 45, il quale prevede che “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. Queste banche, infatti, saranno in riunite in gruppi con a capo una S.p.A. quale capogruppo, e quindi saranno assoggettate alle regole delle società per azioni, che hanno ovviamente finalità di lucro. (A quest’ultimo riguardo va precisato che il nostro Paese è andato anche ultra petita, operando una trasformazione del credito cooperativo in società per azioni che altri Paesi europei si sono ben guardati dall’effettuare. Ma anche questa è una ricorrente caratteristica del nostro “stare in Europa”…).

Questo non è casuale, ma l’espressione di una contraddizione di fondo tra la Costituzione italiana e i Trattati europei.

Ogni Costituzione rappresenta un punto di equilibrio tra interessi e valori in conflitto e al tempo stesso esprime un modello di società.

Nel caso della Costituzione italiana questo modello è rappresentato, come vide bene Hyman Minsky in un suo intervento del 1993, da “un capitalismo interventista nel quale lo Stato ha un posto rilevante e che è reso flessibile grazie all’azione della banca centrale”.[1]

Ma questo modello (comune ad altre Costituzioni del dopoguerra) nella Costituzione italiana è stato arricchito dal concetto dinamico di “democrazia progressiva”, per il quale la democrazia ha il compito di promuovere l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, visti come termini indissolubili.

Pertanto nella Costituzione italiana non soltanto il lavoro (la Repubblica è “fondata sul lavoro”, art. 1) e il diritto al lavoro sono menzionati nei primi articoli: “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art. 4), ma esso (e il diritto “a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”: art. 36) è centrale per garantire la realizzazione stessa della democrazia. Infatti, come recita il comma 2 dell’art. 3 della Costituzione, “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Gli articoli 3 e 4 della Costituzione rientrano tra i “Principi fondamentali” (artt. 1-12) della Costituzione. Essi non sono abrogabili e rappresentano le finalità che devono essere assolutamente perseguite dalla Repubblica.

Gli articoli successivi, e in particolare i “Rapporti economici” enunciati agli articoli 35-47, costituiscono gli strumenti considerati dal Costituente necessari per perseguire quelle finalità. Essi disegnano un’economia mista, in cui non vi è una preferenza per una forma di proprietà o l’altra (privata, pubblica, cooperativa),ma è comunque attribuita notevole importanza al settore pubblico dell’economia (si veda l’art. 43 già citato).

È difficile immaginare un mondo più lontano da questo di quello disegnato nei Trattati europei, almeno a partire dall’Atto Unico Europeo e con estrema chiarezza a partire da Maastricht.

E’ sufficiente leggere i Trattati per intendere che nell’Unione Europea, e in particolare nell’eurozona, per restare alla tassonomia stabilita da Minsky, “da un capitalismo interventista nel quale lo Stato ha un ruolo rilevante e che è reso flessibile grazie all’azione della banca centrale”, siamo tornati al sistema precedente: “un sistema che possiamo caratterizzare come un capitalismo nel quale lo Stato ha un ruolo marginale, che è vincolato dal sistema aureo ed è ispirato alla filosofia del laissez-faire”. Il sistema aureo oggi si chiama “euro”.

“Forte concorrenza”, “stabilità dei prezzi” e “indipendenza della Banca centrale” dai governi: già a una prima lettura dei Trattati europei emerge come siano questi i principi sovraordinati agli altri.

Ma ce n’è uno più sovraordinato degli altri. Esso compare nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nella parte che riguarda la “politica economica e monetaria”, all’art. 119: “…l’azione degli Stati membri e dell’Unione … comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. La stessa formulazione viene ripetuta all’art. 127, a beneficio dei lettori disattenti. 

Da Maastricht in poi, il valore supremo dei trattati europei è la stabilità dei prezzi. Non è presente, invece, alcun riferimento all’occupazione (a differenza di quanto accade negli USA in cui essa è contemplata nello statuto della Fed).

Questo concetto-guida (si fa fatica a parlare di “valore”) non soltanto non è presente nella Costituzione italiana, ma è contraddittorio rispetto al diritto al lavoro da essa previsto. Per un motivo molto semplice: perché in questo contesto anche solo politiche economico-fiscali di stampo keynesiano a sostegno della domanda aggregata finalizzate alla piena occupazione sono proibite in quanto genererebbero inflazione.

Chi avesse pensato che si trattava di una contraddizione puramente teorica ed eventuale è stato smentito durante la crisi, grazie alla centralità del tasso naturale di disoccupazione (o tasso di disoccupazione non inflazionistico) nella determinazione, da parte della CE, dell’indebitamento strutturale e quindi delle politiche di espansione massime consentite. Non entro nel merito dell’utilizzo come “tavole della legge” di uno strumentario legato all’approccio teorico dell’economia neoclassica, di valore scientifico quantomeno opinabile, e vado al punto essenziale. Quel tasso di disoccupazione, determinato dalla Commissione Europea, per l’Italia da anni si colloca tra il 10% e il 12%. Il tasso di disoccupazione effettivo calcolato dall’Istat era del 10,4% a luglio 2018. Ne consegue che praticamente nessuna politica economica espansiva è consentita.

Ma, soprattutto, è considerato “naturale” un tasso di disoccupazione superiore al 10% delle forze di lavoro. Questa impostazione sarebbe apparsa folle ai nostri Costituenti. Ma è coerente con il Trattato di Maastricht. Se seguo il Trattato di Maastricht devo subordinare alla stabilità dei prezzi il perseguimento del diritto fondamentale previsto dalla Costituzione repubblicana.

Il modello di società dei Trattati europei è quindi estraneo e incompatibile rispetto a quello prefigurato dalla nostra Costituzione. È un modello sociale regressivo, nato sull’onda del fondamentalismo di mercato conseguente al crollo del muro di Berlino, del trionfo dell’ideologia neoliberale e delle farneticazioni dei primi anni Novanta sulla fine della storia.

Esso prevede: a) uno Stato residuale, il cui ruolo è confinato all’intervento in caso di “fallimenti del mercato” (non vi è neppure più l’equivalenza tra forme di proprietà prevista dal Trattato di Roma); 2) una “forte competizione” tra paesi fondata sul dumping fiscale e sul dumping sociale (come è noto, in particolare sul secondo aspetto – ma in verità anche sul primo – si è fondato il successo commerciale della Germania dal 2005 in poi).

Ora, questo meccanismo, in una situazione di cambi fissi (la moneta unica), è semplicemente distruttivo, in quanto impedisce ogni politica economica diversa dal recupero di competitività fondato sulla svalutazione interna, ossia sulla deflazione salariale.

In questo contesto istituzionale e normativo, insomma, la generalizzazione dell’agenda 2010 di Schröder diventa economicamente obbligata (anche se essa deprime la domanda interna all’area e comporta una politica mercantilistica destabilizzante al di fuori di essa – che causa manovre ritorsive: vedi alla voce Trump).

La radice delle politiche di austerity e antisociali è nei Trattati.  

Questo modello, di cui la moneta unica è parte integrante, ha consentito che si creassero gravissimi squilibri di bilancia commerciale tra i paesi dell’eurozona, che sarebbero stati impossibili in un regime a cambi flessibili.

Questi squilibri sono stati ulteriormente aggravati dalla gestione della crisi e dalle politiche pro-cicliche distruttive imposte ad alcuni paesi, tra cui il nostro.

Questo ha alterato i rapporti di forza in Europa in misura tale che la concorde “condivisione di sovranità” a favore dell’Unione Europea, di cui spesso si favoleggia, è risultata in realtà fortemente asimmetrica a favore dei paesi creditori (di cui la CE è stata l’agente durante l’intero percorso della crisi), divenendo una cessione unilaterale da parte degli Stati in difficoltà (qui giova ricordare che la nostra Costituzione parla, all’art. 11, di “limitazione” e non di cessione).

Risultato della gestione europea della crisi è stata la localizzazione principalmente nei paesi debitori della capacità produttiva in eccesso e quindi da eliminare: in questi paesi si è avuta una rilevante distruzione dell’apparato industriale (in Italia la capacità produttiva perduta è arrivata al 20% del totale), e in qualche caso una progressiva spoliazione (esemplari al riguardo le privatizzazioni in Grecia).

In altre parole: alcuni sistemi-Paese hanno vinto, altri hanno perso, in una guerra tra capitali intrecciata con meccanismi classici della lotta di classe.

Non vedere questo oggi in Europa significa essere ciechi.

E qui dobbiamo porci alcune domande: come è stato possibile tutto questo? E soprattutto: come è possibile che di fronte a tutto questo vi sia ancora qualcuno che, a sinistra, vede il problema nella nostra presunta incapacità di “fare i compiti a casa”?

Come è possibile che non si vogliano vedere le dinamiche schiettamente neocoloniali in opera ad esempio nel caso greco?

Tutto questo è possibile a causa dall’adesione pressoché totale delle forze politiche di questo paese, a cominciare da quelle di sinistra, a un paradigma (a una filosofia della storia) che contiene tre elementi fondamentali:

1)       L’asserita fine dello Stato (il suo necessario stemperarsi in un insieme più grande – che curiosamente non si riesce a immaginare in modo diverso da un Superstato…), vuoi a causa di una dimensione “inadeguata” a fronte della globalizzazione, vuoi a causa del suo costituire un “relitto barbarico” (la definizione che Keynes dava dell’oro) a fronte del necessario affermarsi di una dimensione internazionalista dell’agire politico.

2)       L’asserita assoluta superiorità del mercato quale strumento di regolazione dell’attività economica rispetto al suo indirizzo/coordinamento consapevole (che significa: contrapposizione del Mercato allo Stato, ma anche della spontaneità dei processi economici alla scelta politica e alla decisione democratica).

3)       Conseguentemente, l’immediata identificazione dei “veri” interessi nazionali con un’integrazione europea che almeno dall’Atto Unico Europeo ha quale obiettivo preminente la liberazione delle forze di mercato.

L’adesione a questa filosofia della storia è stata pressoché totale a sinistra (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica).

Essa ci ha regalato negli ultimi tempi fenomeni degni di studio: ex teorici della “geometrica potenza” che auspicano il commissariamento dell’Italia da parte dell’Unione Europea; ex lottatori continui che deplorano lo “statalismo” quale “componente necessaria del sovranismo” e ravvisano nell’adesione a quest’ultimo il “rifiuto dell’interdipendenza economica”; quotidiani “comunisti” che trattano il tema dello spread come un Sole 24 Ore (o, peggio, come un Oettinger) qualunque; instancabili cacciatori di “rossobruni” che ricordiamo silenti allorché la banca d’affari JP Morgan in un suo report ammoniva circa la necessità di superare le obsolete costituzioni antifasciste, caratterizzate da una eccessiva protezione del lavoro…

Si potrebbe continuare a lungo. Ma non è importante insistere su questo (si tratta in gran parte di fenomeni pertinenti al folclore politico-giornalistico, e in quanto tali di corto respiro). Il punto è un altro: quel paradigma è interamente falso. In effetti,

1)       Non è vero che lo Stato nel XXI secolo non conti più. E lo abbiamo visto in occasione dei bailout pubblici delle banche di mezzo mondo, per entità privo di precedenti storici. Del resto, la riscoperta della materiality of nations – e del carattere ideologico del cosmopolitismo – è uno dei risultati più convincenti del recente indirizzo di ricerca marxista denominato geopolitical economy.

2)       Quanto alla contrapposizione tra autoregolazione dell’attività economica (mercato) e suo indirizzo/coordinamento consapevole (Stato), non occorre neppure entrare in dispute teologiche sulla superiorità ontologica dell’uno o dell’altro. Basta osservare che un mercato allo stato puro non esiste e non è mai esistito, neppure nella cosiddetta epoca d’ora del liberalismo: “capitalism does not, cannot and has never relied on a strict demarcation between the state and market”.[2] In tutta l’età moderna lo sviluppo del modo di produzione capitalistico è inscindibile dall’intervento dello Stato: dall’accumulazione originaria all’apertura di mercati tramite le cannoniere; dal protezionismo (correttamente antiricardiano) che ha protetto le potenze commerciali nascenti sino a due guerre mondiali nate dalla lotta per l’egemonia tra le principali potenze capitalistiche; e ancora dalla costruzione di un welfare State fortemente condizionato dalla presenza dell’Unione Sovietica e dalla conseguente competizione tra sistemi alle ondate di finanziarizzazione che hanno consentito agli Stati Uniti di mantenere la loro egemonia quale Stato-centro del sistema mondo capitalistico, tentando di rallentare l’evolvere degli equilibri economici verso la multipolarità (a sua volta resa possibile dall’indubbio successo di alcuni esperimenti contemporanei di capitalismo di Stato). È questa finanziarizzazione, finalizzata al mantenimento della centralità del dollaro, che è stata chiamata globalizzazione (e da Rodrik iperglobalizzazione). Essa è stata messa in crisi, una crisi probabilmente definitiva, dalla Grande Recessione.

3)       Non vi è alcuna armonia prestabilita tra la salvaguardia degli interessi nazionali e del lavoro e il procedere della costruzione europea.

Questa illusione è il frutto di un approccio doppiamente ideologico, che vede nelle istituzioni europee un luogo irenico dove non si verifica alcuno scontro tra interessi nazionali in competizione e non si esercita alcuna influenza del grande capitale industriale e finanziario.

La falsa opposizione tra angustia delle “piccole patrie” e la presunta apertura internazionalistica dell’UE è falsa per molti motivi, ma anche per questo: perché oggi nella bandiera europea sono avvolti gli interessi (delle classi dominanti) di alcune nazioni, con altre nazioni che sono state già ridotte a protettorati e altre che sono prossime a questo poco invidiabile status. Nell’UE le prime potenziano la propria sovranità, le altre la vedono ridursi. 

Concludo.

Dobbiamo ripartire dalla Costituzione.

Essa deve tornare a essere il metro di valutazione dei trattati internazionali, ivi inclusi i Trattati europei.

Più precisamente, occorre tornare

       alla sovranità democratica e costituzionale espressa dalla nostra Costituzione, sovranità il cui unico luogo democraticamente legittimato – giova ripeterlo – resta lo Stato nazionale,

       a rapporti tra le nazioni (europee innanzitutto) fondati sul reciproco rispetto e il reciproco interesse, abbandonando tanto la falsa pista rappresentata dal Trattato di Maastricht quanto il pathos mistificatorio della presunta necessità di un Superstato europeo.

Personalmente ritengo che questa oggi sia anche l’unica chance per ridare qualche speranza a un progetto europeo che voglia essere qualcosa di diverso da quello che è oggi: la copertura ideologica di interessi oligarchici, profondamente antipopolari e antidemocratici.

Ma la cosa più importante è un’altra: questa è l’unica possibilità per consentire al lavoro di tornare ad affermare i propri diritti, in questo Paese e altrove.

E quindi anche per restituire un orizzonte politico a quello che un tempo definivamo sinistra. Che, o serve a questo, o perde la sua ragion d’essere.    

 



[1]Per il contesto dell’affermazione di Minsky si veda il mio Costituzione italiana contro Trattati europei. Il conflitto inevitabile, Reggio Emilia, Imprimatur, 2015)

 

[2]Così Radhika Desai nel suo Geopolitical economy, London, Pluto Press, 2013, p. 278.