I regali dello Stato alle imprese private

di Vladimiro Giacchè | sul blog de il Fatto Quotidiano

 

 

mani bucate_catalogOggi voglio spendere qualche parola su un libro molto utile, anche se niente affatto divertente. Si tratta del libro di Marco Cobianchi, Mani bucate. A chi finiscono i soldi dei contribuenti: l’orgia degli aiuti pubblici alle imprese private, Milano, Chiarelettere, 2011 (pp. 298).

 

Cobianchi racconta, come nessuno era riuscito a fare prima di lui, la vera storia delle agevolazioni pubbliche che ogni anno il nostro Paese eroga alle imprese. Le cifre le fornisce lo stesso Cobianchi, e sono davvero notevoli.

 

L’entità delle agevolazioni: “Non si dovrebbe arrivare molto lontani dalla spaventosa cifra di 30 miliardi di euro: più di due terzi del disavanzo pubblico da recuperare entro il 2013, poco meno della metà di quanto lo Stato paga di interessi sul proprio debito in un anno”. Su questa cifra è nata una polemica con Confindustria. L’associazione degli industriali ha sostenuto che le cifre sarebbero molto inferiori (“appena” 3 miliardi), senza peraltro dare delucidazioni sui criteri di calcolo utilizzati, mentre i calcoli di Cobianchi mi sono sembrati piuttosto dettagliati. Questa stessa polemica aiuta ad intendere quanto poco trasparente sia la giungla delle agevolazioni alle imprese, tra sussidi comunitari, nazionali e locali.

 

Il numero dei destinatari: “Le imprese che tra il 2003 e il 2008 hanno visto approvate dallo Stato le loro domande di agevolazione sono state 212.075, mentre quelle che hanno chiesto e ottenuto soldi dai fondi europei gestiti dalle Regioni sono state 628.290. Significa che in 6 anni le imprese italiane agevolate con queste risorse sono state più di 840.000, con una media di 140.000 l’anno”. Nello stesso arco di tempo “sono state approvate 1307 leggi di incentivazione (91 da parte dello Stato e 1216 da parte delle amministrazioni locali)”.

 

È ancora l’autore a inquadrare correttamente di cosa stiamo parlando, quando, nelle pagine introduttive del suo libro, ci fa rilevare un dato di fatto importante: “Ciò che occorre tenere presente prima di entrare in questa galleria degli orrori è che le entrate fiscali italiane sono alimentate al 70 per cento dalle imposte pagate da dipendenti e pensionati e al 30 per cento circa da quelle versate dalle imprese. Ciò significa che il 70 per cento di tutti i soldi andati a un’impresa vengono dalle tasse dei suoi dipendenti o ex dipendenti. [Andrebbero aggiunti anche i dipendenti pubblici, ma la sostanza del ragionamento non cambierebbe: sono i lavoratori dipendenti che pagano i contributi alle imprese, ndr]. E questo vale anche per i fondi europei, visto che l’Italia è un ‘contribuente netto’ dell’Europa, cioè versa più di quanto riceve”.

 

La verità è che “non esiste in Italia un solo settore economico che non sia sussidiato: dalle banche alle industria, dall’agricoltura alle telecomunicazioni, dai trasporti al turismo, dallo sport alla finanza, dalla ristorazione allo spettacolo, dall’editoria alla moda, lo Stato elargisce soldi a tutti, persino alla Borsa”.

 

Dalla Fiat (prima e durante Marchionne: decisamente notevoli le pagine sul tema) alla Stm, dalla Agusta alla Pirelli: praticamente non ci sono nomi – illustri e meno illustri – del capitalismo italiano che non abbiano ricevuto negli anni cospicue sovvenzioni da parte dello Stato. Senza che la cosa abbia granché giovato né all’occupazione né alla crescita economica del Paese, almeno stando ai dati degli ultimi 15 anni.

 

Ecco cosa ha affermato in proposito l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi in un convegno svoltosi a fine 2009: “I sussidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci: si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque; si introducono distorsioni di varia natura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive”. In effetti, precisamente questo è il quadro che emerge dalle ricerche specifiche realizzate da Banca d’Italia su alcuni importanti strumenti agevolativi, di cui Cobianchi dà ampiamente conto. Ma anche da numerose inchieste della Corte dei Conti e dalle interlocuzioni della Commissione Europea con le autorità italiane. Interlocuzioni a volte tragicomiche: come quel caso di aiuto di Stato indebito all’Agusta scoperto grazie a una semplice email di chiarimenti inviata da un solerte funzionario europeo al sito internet della società italiana.

 

La conclusione Cobianchi la trae nell’ultima pagina del suo libro, sotto forma di augurio agli imprenditori italiani: “Auguro loro di usare sempre meglio i soldi pubblici, sperando di non sentire più sermoni contro la soffocante presenza dello Stato nell’economia, perché se c’è qualcosa di poco liberale in Italia sono proprio gli aiuti di Stato con i quali le imprese convivono”. È difficile non essere d’accordo.

 

Sarebbe importante che queste considerazioni – e soprattutto i dati di fatto esposti da Cobianchi nel suo libro – entrassero anche nel dibattito attualmente in corso su tagli e riqualificazione della spesa pubblica.