Donald Trump: l’oligarchia al potere

di Fabrizio Tonello
da fondazionefeltrinelli.it

Pubblichiamo come contributo alla discussione sul risultato delle elezioni presidenziali USA  

I risultati non sono ancora definitivi, molti dei voti inviati per posta devono ancora essere contati, ma è ormai certo che Hillary abbia raccolto su scala nazionale circa 200.000 voti più di Trump: ha perso la presidenza a causa del barocco meccanismo del collegio elettorale, come accadde nel 2000 ad Al Gore. Chi ha meno voti vince: uno scandalo per la democrazia che gli americani sembrano non percepire nella sua portata.

La vittoria a sorpresa di Trump è il segno che siamo di fronte alla crisi complessiva del sistema politico bipartitico. Quest’anno l’establishment del partito democratico era stato più abile di quello dei repubblicani presentando alle primarie un candidato unico (Clinton) invece che una dozzina di personaggi mediocri, facile preda dello squalo venuto dal nulla (Trump). Ma il partito democratico oggi è ben più malato di quello repubblicano, malgrado il carisma e l’abilità di Obama che lunedì sera a Filadelfia ha fatto un estremo tentativo per dare a Hillary un sostegno di cui aveva disperatamente bisogno: in Pennsylvania, alla fine, ha vinto Trump, sia pure di un soffio.

Dieci giorni fa la “forza tranquilla” di Hillary Clinton sembrava avere prevalso contro la volgarità di Trump: i media e i sondaggisti le assegnavano il 90% di probabilità di vincere. Il candidato dell’esperienza (senatore, segretario di Stato, in politica da una vita) sembrava avviato a una facile vittoria contro quello del dilettantismo. La Clinton aveva il sostegno di numerosi repubblicani per una politica estera tradizionale (leggi: aggressiva) contro il ritorno a un improbabile isolazionismo e gli ammiccamenti di Trump a Putin.

Domenica la prima pagina del New York Times aveva un’enorme foto di Hillary sorridente a fianco del titolo: “La disoccupazione al livello più basso dal 2008; salgono i salari, 161.000 nuovi posti di lavoro”. Con notizie di questo tipo a settantadue ore dall’apertura dei seggi (ma in molti stati si stava già votando) e con un presidente popolare come Obama la vittoria del candidato democratico avrebbe dovuto essere una passeggiata. E invece no.

La Clinton era stata imposta dall’establishment del partito perché rappresentava un po’ “l’usato sicuro”, il candidato moderato e rassicurante contro il “socialista” Bernie Sanders. Quest’ultimo, però, offriva uno scopo al partito: rappresentare il 99% degli americani, mettere fine al dominio del denaro sulla politica, rovesciare l’inarrestabile aumento delle disuguaglianze; Hillary Clinton non era credibile su un programma del genere, qualunque cosa ci fosse scritta nella piattaforma uscita dalla convention democratica dell’estate scorsa. Hillary non era un candidato affidabile per quanto riguarda la lotta contro l’1%, stava alla Casa Bianca con il marito Bill quando venivano attuate la deregulation bancaria, la creazione dei mutui subprime all’origine della crisi del 2008, le leggi che hanno portato in carcere tre milioni di americani: tutte scelte nel lungo periodo disastrose, tutte scelte avvenute fra il 1993 e il 2000. Gli americani non si fidavano di lei, molti per ragioni sbagliate, altrettanti per ragioni assolutamente giuste.

È un sistema oligarchico quello che – non da oggi – governa gli Stati Uniti ed è un palazzinaro miliardario che ne ha beneficiato spudoratamente, un demagogo truffaldino quello che si fa paladino della rivolta: Hillary, nel ruolo di cauto riformatore del sistema (quindi di suo difensore) aveva una posizione assai scomoda. Talmente scomoda che il sostegno della tradizionale coalizione democratica: bianchi con educazione universitaria, donne non sposate, ispanici, afroamericani, non è stato sufficiente.

Ma non confondiamo le contingenze con i trend di lungo periodo: il risultato dell’8 novembre è il frutto di un lungo periodo di violenta destrutturazione dei sistemi politici attuata dal neoliberismo, una destrutturazione descritta nel mio libro Desolation Row. Fino ad oggi tendevano a prevalere le varianti “ragionevoli” e “progressiste” dei poteri oligarchici: Trump ci mostra che le varianti autoritarie e fascistoidi sono sul punto di travolgere ogni resistenza.

Fabrizio Tonello
Università di Padova