Le tensioni fra Usa e Iran

b61 12 f16riceviamo e pubblichiamo

di Francesco Fustaneo

Lo scorso tre gennaio un raid aereo statunitense ha eliminato una pedina assai rilevante nello scacchiere militare mediorientale: dei razzi sono stati infatti lanciati nel terminal merci dell’aeroporto internazionale Muhamad Alaa di Baghdad colpendo due veicoli delle unità di mobilitazione
popolare irachena e causando tra gli altri la morte del generale iraniano Qasem Soleimani.

Soleimani in Iran era una figura assai popolare, considerato alla stregua di un eroe nazionale e consultando la sua biografia militare non è difficile intuire il perché: durante il conflitto bellico tra Iraq e Iran, durato ben otto anni fu al comando di alcune unità iraniane e nel 1983 divenne comandante della 41° divisione Saralá, ritagliandosi un ruolo determinante.  


Nel 1998 è stato nominato dall’Ayatollah Seyed Ali Khamenei, comandante delle forze Quds; ha poi contribuito notevolmente al rafforzamento del movimento di resistenza islamica del Libano (Hezbollah) e dei gruppi palestinesi in chiave anti-israeliana. 

A seguito delle richieste formali di Siria e Iraq , inoltrate al governo iraniano per ricevere sostegno militare nella lotta contro il terrorismo, fu poi incaricato di contrastare i miliziani dell’ISIS e del Fronte Al-Nusra, compito che assolse egregiamente.

L’ uccisione di Soleimani è avvenuta a sole 24 ore dai disordini all’ambasciata americana di Baghdad, alla cui origine stanno i raid condotti controcinque siti controllati dalla milizia sciita Kataib Hezbollah, sia in Iraq che in Siria, che hanno causato la morte di più di venti persone.

Dietro le proteste i servizi statunitensi e israeliani avevano individuato, appunto, un ruolo di primo piano di Soleimani.

Le tensioni tra Iran e Usa hanno radici lontane, ma l’uccisione di un personaggio di tale rilevanza implica l’aver oltrepassato una linea di demarcazione netta, un salto nel buio pericoloso, dagli esiti imprevedibili. A tutti gli effetti l’uccisione conclamata di un generale di un esercito regolare di un paese terzo equivale infatti ad una dichiarazione di guerra.

L’ ordine venuto da Trump può essere additato come una scelta irresponsabile, a primo impatto giudicabile come irrazionale, ma dietro potrebbe verosimilmente celarsi l’ormai consolidato timore di una progressiva perdita di influenza politica ed economica degli Stati Uniti a livello globale, sia l’esigenza di una possibile nuova corsa agli armamenti per sopperire ad una crisi economica, a detta di diversi esperti economici ormai prossima a esplodere nei mercati finanziari a stelle e strisce.

Il dado comunque è ormai tratto e conscio della inevitabilità di un’escalation, il Pentagono ha annunciato che circa 2.800 soldati americani sarebbero già in viaggio verso il Medio Oriente (750 unità subito dopo l’attacco all’ambasciata di Bagdad erano invece già andate ad aggiungersi ai 5000 soldati americani già stanziati in Iraq, n.d.a.). La Nato, dal canto suo, per bocca del portavoce Dyan White ha dichiarato che le attività di addestramento in Iraq sono sospese.

Sul fronte internazionale Cina e Russia hanno immediatamente condannato pesantemente il raid e da Mosca è stato comunicato che in tali circostanze ambedue i paesi “sono interessate a ridurre le tensioni e adotteranno misure congiunte per creare le condizioni per una risoluzione pacifica delle situazioni di conflitto”.

La situazione è chiaramente incandescente e in Italia, Governo e opposizioni parlamentari appaiono altamente impreparati sul tema, oscillanti per lo più tra scarsa conoscenza dello scenario mediorientale e asservimento alle politiche militari statunitensi. Subito dopo l’assassinio del Generale persiano, il Ministro della Difesa, Guerini, si era affrettato a smentire qualsiasi opzione di ritiro delle nostre truppe.

Non stupisce quindi che una delle dichiarazioni più lucide sia arrivata da un uomo d’armi, ossia dal generale Franco Angioni, in passato comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile.

Intervistato dal Globalist ha dichiarato: l’eliminazione di Soleimani ha purtroppo il sapore di un’azione che nella nostra cultura deteriore definirei mafiosa. Chi ricopre cariche così importanti, e sul piano politico e militare non ce ne è una al mondo più importante della Presidenza degli Stati Uniti, non può non tenere in conto le ripercussioni strategiche, politicamente e militarmente rilevanti, che un’azione come quella condotta contro Soleimani può scatenare. Mi auguro che si sia trattato di un errore di percorso, ma stento a crederlo. Ritengo pertanto che l’ordine, soprattutto se impartito dal presidente degli Stati Uniti, risulti un terribile errore sul piano strategico.

A poche ore dal raid si erano già susseguiti due attacchi, uno contro l’ambasciata Usa a Baghdad e un’ altro contro la base americana Al-Balad.

E’ della notte del 7 gennaio invece la notizia della controffensiva bellica iraniana: un attacco missilistico è stato sferrato in Iraq contro due basi, Erbil e Al-Assad, che ospitano le truppe, americane e loro alleate, nell’ambito dell’operazione denominata “Soleimani martire”.

Le tv iraniane hanno parlato di 80 morti, ma in realtà nessuna vittima, almeno ufficialmente, è stata registrata tra i militari Usa o tra i soldati della coalizione.

L’Iran “ha dato uno schiaffo agli Stati Uniti con l’attacco missilistico alle sue basi militari, ma non è ancora abbastanza e la loro presenza corrotta in questa regione deve finire”, ha commentato a guida suprema iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei, dopo l’attacco: “I nostri nemici principali includono il sistema arrogante degli americani e del sionismo”.

Noi non vogliamo l’escalation verso la guerra” ha invece scritto su Twitter il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, definendo l’attacco una misura proporzionata di auto difesa. Ieri notte invece dei razzi Katyhusha sarebbero stati lanciati secondi l’agenzia di stampa britannica Reuters a cento metri dall’ambasciata Usa, senza però causare vittime.

Mentre si aspettano ancora le reazioni di Trump, è chiaro a tutti che situazione è diventata incontrollabile, l’area è sull’orlo di divenire il terreno di scontro della ennesima “guerra del golfo”.

Si segnala che il parlamento iracheno aveva votato solo pochi giorni una risoluzione per l’espulsione delle truppe straniere dall’Iraq. Decisione che riguardava sostanzialmente i 5.200 soldati americani presenti nel Paese, ma anche gli altri contingenti stranieri tra cui gli oltre 900 italiani.

Un motivo in più questo, per non rimanere ingabbiati in una guerra che non la nostra e in cui il nostro Paese ha tutto da perdere.