Imperialismo e guerre nel XXI secolo

di Andrea Catone

Presentazione del  n. 1-2 2016 di MarxVentuno

CONSULTA L’INDICE DELLA RIVISTA
CONSULTA GLI ESTRATTI DALLA RIVISTA
SCOPRI COME ABBONARTI

Uno spettro si aggira sulla Terra: “una terza guerra mondiale non è inevitabile, ma ampiamente possibile. Si rafforza in vasti settori della classe dirigente Usa l’idea che solo con una superiorità militare schiacciante sul resto del mondo e con il ricorso a guerre locali e operazioni speciali destabilizzanti è possibile conservare il primato mondiale” (F. Sorini).

Sono qui raccolti articoli, saggi e note critiche sul tema “imperialismo e guerre nel XXI secolo”. Abbiamo inserito come “prologo”, per un necessario “pro memoria”, l’articolo di Mauro Gemma, che, scritto nell’anniversario della criminale impresa dell’aggressione della Nato alla Jugoslavia nel 1999 – cui diede un apporto decisivo anche l’Italia, guidata allora da un governo di centro-sinistra presieduto da Massimo D’Alema e sostenuto pure dal Pdci – ammonisce i comunisti e tutti gli antimperialisti a non dimenticare “quella pagina oscura della storia patria”, perché non si ripetano mai più i gravissimi errori di subalternità alla “sinistra” imperialista.

Dopo il saggio di Spartaco Alfredo Puttini sul “secolo lungo delle guerre mondiali imperialiste”, che ci invita a dotarci di uno sguardo di lungo periodo per comprendere le attuali crisi che attraversano la vita internazionale, vengono proposte alcune chiavi di lettura della situazione politica mondiale nel 2016, che individuano nell’imperialismo Usa/Nato e nelle direttive strategiche della Casa Bianca e del Pentagono all’indomani della caduta dell’Urss, la fonte principale di guerre dal 1991 (“prima guerra del Golfo: Iraq) all’attuale “strategia del caos” volta a ridisegnare confini e società in Medio Oriente e Nord Africa. I comunisti e il movimento antimperialista devono essere pienamente consapevoli della pericolosità assolutamente prevalente dell’imperialismo Usa nella preparazione della guerra e agire di conseguenza, per la costruzione di un vasto fronte di popoli e paesi contro il nemico principale.

Su questa lunghezza d’onda si muovono i testi che qui presentiamo.

Fausto Sorini, prese in esame le diverse aree del mondo e disegnato un quadro d’insieme e al contempo articolato dei Brics, indica le priorità assolute del movimento antimperialista e di lotta per la pace, stigmatizzando l’atteggiamento di chi vede come cause della guerra un generico “scontro tra potenze”, in un’equivoca equidistanza, «dietro cui sfuma la centralità del pericolo rappresentato dall’imperialismo americano e fanno capolino tesi demenziali sul nuovo “imperialismo russo” o “cinese”».

Manlio Dinucci, con il corposo volume L’arte della guerra. Annali della strategia Usa/Nato (1990-2015), edito nel 2015 da Zambon e qui recensito da Fabio De Leonardis, offre la documentazione più ampia e chiara della strategia aggressiva messa in atto da Usa e Nato dopo la caduta dell’Urss. A prosecuzione e completamento di quegli “annali”, sono qui ripresi i suoi puntuali interventi tra novembre 2015 e maggio 2016, che ci forniscono con chiarezza cristallina e straordinaria capacità di sintesi le coordinate della situazione attuale: «Gli Usa hanno riorientato dal 1991 la propria strategia e, accordandosi con le potenze europee, quella della Nato. Da allora sono stati frammentati o demoliti con la guerra (aperta e coperta), uno dopo l’altro, gli Stati ritenuti di ostacolo al piano di dominio globale – Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina e altri – mentre altri ancora (tra cui l’Iran) sono nel mirino. Queste guerre, che hanno mietuto milioni di vittime, hanno disgregato intere società, creando un’enorme massa di disperati, la cui frustrazione e ribellione sfociano, da un lato, in reale resistenza, ma, dall’altro, vengono sfruttate dalla Cia e altri servizi segreti (compresi quelli francesi) per irretire combattenti in una “jihad” di fatto funzionale alla strategia Usa/Nato».

Il saggio di Federico La Mattina chiarisce – attraverso una ricostruzione storica e un’analisi critica del discorso dominante – il nesso tra il golpe fascista filoNato in Ucraina e gli sconvolgimenti in corso in Siria e Libia, e più in generale in Medio Oriente e Nord Africa.

Particolare importanza riveste il lungo saggio di analisi storico-politica di Samir Amin, “La geostrategia degli Stati Uniti in panne. Egitto 2015”. Il direttore del Third World Foruma Dakar, in una sintesi che riprende e sviluppa i numerosi saggi e articoli pubblicati in lingua araba, ci fornisce – attraverso le lenti di un teorico marxista e, al contempo, di un militante impegnato nella lotta di emancipazione del suo popolo – un’analisi storico-politica delle contraddizioni di classe, economico-sociali e politiche, di un paese chiave dell’area MENA (Medio Oriente e Nord-Africa).

José Reinaldo Carvalho, responsabile esteri del Partito comunista del Brasile, di cui pubblichiamo la relazione al 17° Incontro Internazionale dei Partiti Comunisti e Operai tenutosi a Istanbul a fine ottobre 2015, avverte che “l’imperialismo a guida Usa, al fine di mantenere il dominio sul mondo ed evitare l’emergere di concorrenti, attacca con minacce e aggressioni militari le libertà e i diritti fondamentali, la sovranità e l’autodeterminazione dei popoli. In America Latina le contraddizioni economiche e politiche hanno generato una situazione peculiare di resistenza e di lotta contro le dittature, il dominio imperialista, il neoliberismo, il conservatorismo, l’oppressione nazionale e di classe; situazione che l’imperialismo Usa cerca oggi di sovvertire – dal Brasile al Venezuela – con ogni mezzo”.

Con il colpo di stato di Majdan in Ucraina (febbraio 2014), l’ulteriore avanzata della Nato ai confini della Russia, le sanzioni imposte da Usa e Ue, è apparso sempre più evidente – anche agli occhi di chi negli anni precedenti avesse sottovalutato il problema dell’avanzata ad est della Nato – che oggi la Russia è il paese maggiormente sottoposto all’assedio e all’aggressione Usa-Nato e che a tale aggressione oppone resistenza. E per questa sua resistenza è anche l’oggetto privilegiato di attacchi mediatici, che, volti ad alimentare un’ondata di russofobia, rappresentano la Russia attuale come prosecutrice della politica zarista, come paese aggressivo, militarista, imperialista.

All’analisi di classe della situazione in Ucraina e Donbass è dedicato il saggio di Aristart A. Kovalëv, “Chi riuscirà a fermare la guerra in Ucraina?”. Pubblicato sulla rivista teorica del Partito comunista della Federazione russa Političeskoe prosveščenie (Formazione politica), è inserito in una sezione dedicata ai comunisti russi, alla lettura che essi danno del quadro internazionale e della lotta di classe a livello internazionale oggi: «Gli imperialisti avevano bisogno di sostituire Janukovyč con una marionetta più arrendevole, di trascinare l’Ucraina nell’Unione Europea e nella Nato e di provocare per suo tramite una guerra con la Russia. A tale scopo gli Usa hanno attuato un colpo di stato, sfruttando come principale forza d’urto i fascisti seguaci di Bandera. L’aggressione fascista ha provocato una vasta resistenza da parte della popolazione, in particolare nelle regioni sud-orientali dell’Ucraina. Essa è stata crudelmente repressa, ma le cose sono andate diversamente in Crimea e nel Donbass. Il ricongiungimento della Crimea alla Russia e l’insurrezione nel Donbass hanno funto da artificioso “pretesto” con cui Kiev ha scatenato una guerra vera e propria contro il suo popolo, presentandola come una guerra contro la Russia, indicata come aggressore. Nel Donbass il popolo insorto ha proclamato la nascita della Repubblica Popolare di Doneck e della Repubblica Popolare di Lugansk». Viene quindi analizzata da un punto di vista di classe la situazione in Ucraina, nel Donbass e in Russia, con tutte le sue contraddizioni, e proposto un programma per l’instaurazione di un autentico potere popolare.

Pubblichiamo di Stanislav Eduardovič Anichovskij, direttore del Centro di Formazione Politica del CC del Pcfr, l’intervento al V Forum mondiale del socialismo (Pechino, 13-14 ottobre 2014), “Il globalismo imperialista è una strada senza uscita”; nonché testi editi su giornali e riviste di altre formazioni comuniste russe, come quello di A. V. Denisjuk, “L’imperialismo americano minaccia una terza guerra mondiale” (in Serp i molot – Falce e martello – organo centrale del Partito comunista pansovietico dei bolscevichi). In esso si ricostruisce su base documentale la strategia Usa dopo il crollo dell’Urss e si indica la necessità di un vasto fronte di lotta unitario contro il “nemico principale”: “Dopo la distruzione del socialismo Washington si è posta il compito di instaurare sul territorio dell’ex Urss un regime politico militarmente debole ed economicamente dipendente. El’cin e i suoi successori hanno svenduto gli interessi nazionali del paese. Oggi però, dopo il ritorno in seno alla Russia della Crimea e l’operazione militare di sostegno alle autorità ufficiali siriane, la Russia conduce una sua politica estera indipendente. […] È vitale per tutti gli abitanti del pianeta consolidare le forze dei paesi che si oppongono all’aggressiva politica degli Usa per far fallire i piani dell’imperialismo americano”.

Come si evince dai testi, i comunisti russi sono tutti sostanzialmente schierati a sostegno della politica estera della Russia guidata da Vladimir Putin, cui si riconosce il merito di perseguire una politica indipendente dall’imperialismo Usa, radicalmente altra rispetto a quella di cedimento e disgregazione della Federazione russa dell’era El’cin. Ci è sembrato utile riportare il dibattito – in cui intervengono i comunisti greci (Kke) e il segretario del Partito comunista siriano Ammar Bagdash – apertosi a seguito del saggio di Viktor A. Tjul’kin, “La lotta dei comunisti contro l’imperialismo quale fonte di guerre”, pubblicato in Marksizm i sovremennost’ (Marxismo e mondo contemporaneo), nonché sulla International communist review. In esso si propone, sulla scia del VII Congresso del Komintern del 1935, la costruzione di un vasto fronte di paesi e popoli contro il nemico più pericoloso, l’imperialismo Usa, qualificato come “fascismo da esportazione”.

A proposito della Russia attuale Marco Pondrelli recensisce il recente numero di Limes (gennaio 2016), dedicato al “mondo di Putin”.

Un’altra sezione della rivista è dedicata all’analisi del fronte asiatico, dove Obama ha dichiaratamente riorientato la politica Usa contro la Cina. Diego Angelo Bertozzi ne analizza gli aspetti (“Pivot to China”): «Il quadro complessivo dei rapporti internazionali vede la Cina come oggetto di un nuovo sistema di accerchiamento militare, politico ed economico con al centro Washington, decisa a salvaguardare la propria posizione egemonica risalente al secondo dopoguerra. Quello che è conosciuto come il “Pivot to Asia”, annunciato nel 2011 dall’amministrazione Obama, si sta rivelando come la copertura ideologica di un nuovo sistema di alleanze e accordi di natura militare con diversi Paesi asiatici, alcuni dei quali storici alleati fin dai tempi della guerra fredda».

Frederick William Engdahl, direttore associato di Global Research e autore del libro Target: China. How Washington and Wall Street Plan to Cage the Asian Dragon (2014), intervistato da Wang Zhen, collaboratore di International Critical Thought, una delle riviste in lingua inglese promossa dall’Accademia Cinese delle Scienze Sociali (CASS), fornisce ulteriori elementi di analisi economico-politica e geostrategica, da cui risulta con chiarezza la linea degli Usa volta ad impedire l’emergere di una grande potenza economica cinese sovrana.

Ulteriori elementi di conoscenza e riflessione ci sono forniti dal saggio di Francesco Maringiò, che, di ritorno da un recente soggiorno di studi nella Repubblica Popolare Cinese, ne analizza in modo articolato la politica estera dopo il 18° Congresso del Pcc.

Sempre dalla Cina ci viene lo stimolo ad una riflessione a tutto campo sul ruolo dell’imperialismo culturale. Il VI Forum mondiale del Socialismo, tenutosi a metà ottobre 2015 a Pechino, ha avuto come filo conduttore il tema delle “rivoluzioni colorate e l’egemonia culturale”. Pubblichiamo qui l’intervento di Li Shenming (che i lettori della nostra rivista conoscono per l’articolo apparso sul n. 1/2015 «Valutare correttamente i due periodi storici prima e dopo la “riforma e apertura”»). A ridosso di quel Forum, il 18-19 ottobre 2015 si è tenuto il Primo Forum Mondiale Culturale, in cui echeggiava (e non solo nella relazione presentata dallo scrivente) il nome di Gramsci e il riferimento al ricchissimo lascito critico dei Quaderni dal carcere. Presentiamo qui il documento finale, in cui si pone la questione dell’imperialismo culturale, rispetto al quale costruire – nella lunga fase di transizione dal capitalismo dei monopoli finanziari internazionali al socialismo – un fronte comune mondiale di resistenza culturale, che poggi saldamente sul marxismo, prestando particolare attenzione (come ci avverte anche il testo di Li Shenming) al soft power culturale che utilizza Internet.

In merito al ruolo e alla collocazione dei paesi imperialisti dell’Unione europea o di un polo imperialistico europeo, l’orientamento generale nei testi che qui presentiamo tende a coglierne il ruolo subalterno all’imperialismo Usa (si vedano in proposito anche le analisi di Samir Amin). “Oggi – scrive Manlio Dinucci – 22 dei 28 paesi della Ue, con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato. Non si può pensare di liberarsi dai poteri rappresentati dalla Ue senza liberarsi dal dominio e dall’influenza che gli Usa esercitano sull’Europa, direttamente e tramite la Nato”, mentre per Engdahl, «la Ue, più che un imperialista collettivo, è un gruppo di potenze minori con obiettivi che al tempo stesso si combinano e sono in conflitto tra loro. Gli stati Ue sono tollerati nella misura in cui sono quello che Z. Brzezinski chiamò “stati vassalli” degli Usa». Il che non significa affatto la soppressione della fondamentale categoria leninista di “contraddizioni interimperialistiche”. Spiega con chiarezza Sorini: “La nostra analisi, che indica negli Usa e segnatamente nei suoi gruppi dirigenti più oltranzisti il pericolo di gran lunga principale per la pace mondiale, non ignora certamente il fatto che esistono altre potenze imperialiste, come il Giappone o alcuni Paesi dell’Unione europea (e segnatamente Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia…) che giocano una loro partita, anche militare, nello scenario mondiale delle contraddizioni inter-imperialistiche. La guerra in Libia, da questo punto di vista, è emblematica di come ognuno di questi Paesi giochi una sua partita in cui – nei confronti degli altri partner della Nato, e degli stessi Usa – si combinano convergenze e competizione: convergenze nel contenere l’espansione dell’influenza cinese e anche russa in Africa, ma anche divergenze e competition inter-atlantiche per il controllo del petrolio libico e di quella regione di importanza strategica”.

Non si affrontano qui specificamente i nodi del dibattito teorico-politico sull’imperialismo, salvo che nell’articolo con cui Samir Amin critica puntualmente le nozioni di “moltitudine” e di “impero” di Hardt e Negri. Ci proponiamo di dedicare ad esso uno dei prossimi fascicoli, che, a partire dal fondamentale e vitale “saggio popolare” di Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, dia conto delle trasformazioni del capitalismo e di ciò che esse comportano – per ciò che permane e per ciò che è mutato – nei caratteri essenziali dell’imperialismo rispetto a un secolo fa.

Il quadro generale che gli studi e i saggi qui raccolti disegnano non è affatto rassicurante. Possiamo dire che la fase che attraversiamo è la più pericolosa dalla fine della seconda guerra mondiale, in cui, come diversi autori di questo quaderno monografico di MarxVentuno hanno sottolineato, si combina la miscela esplosiva di una crisi sistemica, in una prospettiva di “stagnazione secolare” per il capitalismo occidentale, e la strategia militare degli Usa e della Nato. Questa situazione pericolosissima di preparazione alla guerra non riguarda solo la politica estera, ma si riflette pesantemente anche nelle politiche interne, dove il capitale finanziario dei monopoli generalizzati (come lo definisce Samir Amin) tende all’accentramento autoritario e all’indebolimento, se non alla soppressione, anche se mascherata sotto il velo delle “riforme”, delle istituzioni democratiche, del ruolo delle assemblee elettive. Opporsi in Italia al combinato disposto della “deforma costituzionale” (come è stata opportunamente battezzata da Felice Besostri) e di una legge elettorale ipermaggioritaria quale l’Italikum (che presenta in misura ancora maggiore gli stessi problemi di incostituzionalità del “Porcellum” evidenziati dalla Consulta) non significa soltanto difendere la Costituzione nata dalla Resistenza. Significa contrastare una svolta autoritaria funzionale, nel contesto mondiale qui delineato, a dare mano libera ai governi nella preparazione e messa in atto della guerra. Anche, se non soprattutto per questo, tutti i “partigiani della pace” devono mobilitarsi nella battaglia contro l’Italikum e la “riforma costituzionale”. A supporto di tale battaglia sarà dedicato il prossimo quaderno speciale di questa rivista.