Siria, le ragioni del veto cinese

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

cina risoluzionesiriaCon questo articolo vogliamo esaminare la posizione cinese sull’affaire Siria, mentre si profila all’orizzonte l’ipotesi di un nuovo intervento militare, anche senza sanzione ONU, da parte di una nuova “coalizione di volenterosi” invocata dal premio Nobel per la pace Barack Obama.

Chiarire e inquadrare le motivazioni cinesi è una operazione indispensabile per rispondere alla criminalizzazione – l’ultima in ordine di tempo di una lunga sequela – di Pechino in quanto amica delle peggiori dittature. Curioso che si dimentichi che, storicamente, gli amici delle più sanguinose dittature siedono tranquillamente nel Consiglio di sicurezza conservando una intonsa verginità democratica!

La Cina ha chiaramente fatto tesoro dell’esperienza dell’aggressione libica allorquando la risoluzione n. 1973/2011 del Consiglio di Sicurezza per l’istituzione di una “No fly zone” diede il via libera ad un massiccio intervento militare della Nato finalizzato al cambio di regime e conclusosi con la barbara esecuzione davanti alle telecamere di Gheddafi.

Già nel settembre 2011 un intervento di Sheng Xiaoquan, ricercatore del Centro di Studi dei problemi mondiali dell’agenzia Xinhua, rendeva evidente quanto a Pechino – dopo la discutibile astensione in occasione del voto della sopra citata risoluzione – avessero realizzato l’avvento di una nuova forma di “politica delle cannoniere” mascherata da doverosa protezione dei civili dai bombardamenti indiscriminati (mai dimostrati): “L’Occidente non esita ad intervenire negli affari interni dei paesi con ogni mezzo, compresa la forza militare, per assicurare i suoi interessi nazionali […]. La situazione della guerra in Libia mostra che se non si fosse ottenuto il coordinamento e l’appoggio dei paesi occidentali su tutti i piani, l’opposizione libica non avrebbe potuto sconfiggere le forze governative e rovesciare il regime di Gheddafi. Dimostra nuovamente che l’Occidente non esita nell’intervenire negli affari interni degli altri paesi con ogni mezzo, compreso il ricorso alla forza armata, per assicurare i suoi interessi internazionali. Ma l’intervento attuale in Libia presenta delle nuove caratteristiche. Possiamo dire che la Libia è il banco di prova del neo-interventismo dell’Occidente. […] Se, in questi ultimi anni, l’Occidente ha fatto ricorso a mezzi più o meno dissimulati di rivoluzione colorata per promuovere la “democratizzazione”, la guerra di Libia è il modello della “democratizzazione” realizzata direttamente con l’uso delle armi” [1].
 

Il ragionamento è stato ripreso, ed esteso al caso specifico, all’indomani del veto posto il 4 febbraio 2012 sul progetto di risoluzione sulla crisi siriana. In un editoriale del Quotidiano del Popolo si legge, infatti, che “La Libia è un contro-esempio che serve da lezione. I Paesi della Nato hanno approfittato e abusato della risoluzione adottata dal Consiglio di Sicurezza per l’instaurazione di una zona di esclusione aerea per fornire un aiuto militare ad una delle due parti coinvolte”. Ad essere coinvolta è tutta la strategia Usa e Nato dell’ultimo decennio: “La tragedia che si è sviluppata in Iraq e in Afghanistan è un esempio che deve fare capire a tutti che l’impedimento di un disastro umanitario attraverso l’uso della forza altro non è che parole lanciate in aria piene di sentimenti di giustizia, ma vuote, inutili, vane e prive di senso” [2].
 

Ma veniamo alle motivazioni che stanno alla base del veto e che nulla hanno di sorprendente se inserite in una ormai consolidata tradizione cinese nei rapporti internazionali. Di fronte alle sprezzanti quanto chiarificatrici parole di John Bolton, ex rappresentante permanente degli Usa all’Onu – “L’Onu è qualcosa che nei fatti non esiste, perché è la comunità internazionale che gioca il suo ruolo. E quest’ultima non può che essere dominata e diretta dall’unica superpotenza ancora esistente, vale a dire gli Stati Uniti” – Pechino ha ribadito il rifiuto di ogni misura, sanzioni economiche comprese [3], che possa comportare o solo presupporre un “cambio di regime” imposto dall’estero semplicemente perché contrario ai principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite. Wang Min, vice rappresentante permanente di Pechino al Palazzo di vetro, ha così voluto chiarire la posizione del suo paese: “Il governo cinese adotta costantemente una politica estera indipendente e pacifica, e strettamente legata al mantenimento della pace regionale e internazionale. […] La Cina ritiene ugualmente che la comunità internazionale debba pienamente rispettare la sovranità, l’indipendenza, l’unità e l’integrità territoriale della Siria, e piegarsi alla libera scelta del popolo cinese e ai risultati del dialogo politico che deve avere luogo tra i diversi partiti del paese” [4]. Non a caso la stampa cinese ha riportato una famosa dichiarazione di Kofi Annan, ex segretario generale dell’Onu, che in occasione dell’aggressione all’Iraq del 2003 specificò come fosse impossibile per l’Onu stessa “caricarsi della destituzione di un Presidente di qualsiasi paese per rimpiazzarlo con un altro” perché “nella nostra organizzazione questo modo d’agire è completamente illegale”.
 

Ad essere ribaditi sono i principi di coesistenza pacifica e non intervento che da tempo – fin dall’Intervento di Zhou Enlai alla conferenza di Bandung – la Cina popolare e il Partito comunista considerano le pietre miliari della propria politica estera. I riferimenti, continuamente ribaditi, alla funzione originale dell’Onu e ai principi della sua Carta costitutiva vanno letti alla luce della convinzione cinese di un ormai inesorabile sviluppo in senso multipolare delle relazioni internazionali e di una nuova centralità della principale organizzazione multilaterale.
 

Nello specifico le motivazioni del veto cinese sono legate alla denuncia di mancanza di equilibrio della proposta di risoluzione perché questa, oltre a rispondere a calcoli geopolitici tutti occidentali, in uno dei suoi articoli prevede una palese ingerenza negli affari interni di un paese sovrano sotto forma di richiesta di trasferimento del potere da Assad al suo vice-presidente [5], mentre, al contempo, non sono state previste misure per limitare le azioni violente delle opposizioni o per obbligare all’avvio di un dialogo nazionale. Una proposta troppo sbilanciata, quindi, che poteva senza dubbio prefigurare uno scenario libico.
 

La via privilegiata per Pechino, invece, è quella del dialogo e della fine delle violenze commesse da tutte le parti interessate, per l’avvio di una fase di riforma che risponda ai desideri legittimi del popolo siriano. Soluzione che un intervento straniero stroncherebbe in partenza, senza garantire alcuna durevole pacificazione come dimostra in abbondanza la Libia post intervento Nato.
 

Al contrario della interessata rappresentazione che la ritrae come potenza nemica dei popoli e in perenne luna di miele con i dittatori sanguinari, la Cina mostra quindi una posizione chiara: contrarietà a qualsiasi intervento straniero, sotto forma di aggressione militare o imposizione unilaterale di sanzioni economiche, a favore di un dialogo tra le forze patriottiche e di una riforma interna che vada incontro alle richieste popolari. Non è infatti un segreto che Pechino abbia elaborato una sorta di “terza via” tra l’intervento per un cambio di regime e il mantenimento assoluto dello status quo. Oggetto dell’attenzione cinese, oltre al legittimo governo siriano e alle forze che lo sostengono pur chiedendo riforme (tra queste il Partito comunista siriano [6] ), sono le forze politiche riunite nel Comitato di coordinamento nazionale che accettano il confronto con il governo di Assad e rifiutano un intervento esterno sull’esempio di quello perpetrato ai danni di Tripoli [7]. In questo senso vanno anche le dichiarazioni di Zhai Jun, sottosegretario degli Esteri cinese, inviato a Damasco proprio mentre terminiamo questo articolo. Resta fuori dai giochi, anche perché poco credibile e rappresentativo, il cosiddetto Consiglio di transizione siriano che, come è stato per il suo omologo libico, è l’oggetto delle interessate attenzioni occidentali che lo hanno subito elevato a “interlocutore legittimo del popolo siriano”. Che fin dall’inizio questo organismo chieda l’intervento armato straniero è assai indicativo del suo carattere tutt’altro che nazionale e patriottico.
 
NOTE
 

1 “La Libye: le banc d’essai du néo-interventionnisme de l’Occident”, www.china.org.cn, 06/09/2011. Traduzione completa dell’articolo in http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&;f=2&IDArticolo=21432
 

2 “Comment doit-on agir pour pouvoir assumer une responsabilité effective envers le peuple syrien?”, Quotidiano del Popolo, versione online, 6 febbraio 2012.
 

3 Sulla posizioni cinese in relazione all’utilizzo di sanzioni economiche rinvio al mio “La contrarietà cinese alla pratica unilaterale dell’embargo”, 19 gennaio 2012, https://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/815-la-contrarieta-cinese-alla-pratica-unilaterale-dellembargo.html
 

4 “ONU: Le vice-Representant de la Chine explique la position chinoise sur la résolution sur la Syrie”, Quotidiano del Popolo online, 17 febbraio 2012.
 

5 “Non è un segreto per nessuno che il governo siriano diretto da M. Assad è considerato dall’Occidente come una spina nel fianco in ragione degli stretti legami della Siria con l’Iran e il gruppo armato Hezbollah in Libano”, come si può leggere nell’articolo “Les calcules géopolitiques occidentaux menent à l’échec du projet de resolution sur la Syrie”, Xinhua, 10 febbraio 2012.
 

6 Si legga “Contributo del Partito comunista siriano al 13° incontro internazionale dei Partiti comunisti e operai” su www.resistenze.org e www.marx21.it.
 

7 Si veda ad esempio l’articolo “China sits out of Syria regime change tango” Peter Lee, www.atimes.com, 16 febbraio 2012.