Cosa succede in Turchia

turchia liradi Marco Pondrelli

La situazione turca è arrivata ad occupare le prime pagine dei giornali. Gli stessi che poco tempo fa riconoscevano in Erdogan un leader riformista e democratico capace di guidare la Turchia verso l’Europa, lo descrivono oggi come un autocrate, augurandosi una sua uscita dalla Nato.

Cos’è cambiato? Davvero Erdogan è passato da una politica democratica (ad esempio verso i curdi) ad una politica dittatoriale nel giro di pochi mesi? Assolutamente no, è l’ex sessantottino Bernard-Henri Lévy (la stampa 11 agosto) a spiegarci dove sta il problema: “Ed evoco giusto per la memoria il fatto che, la settimana scorsa, a Johannesburg, si è tenuto il decimo summit dei Brics, dove lo stesso Erdogan ha avuto il singolare privilegio di essere ricevuto come «invitato d’onore» e dove ha preso in considerazione, molto ufficialmente, un ravvicinamento strategico con la Cina di Xi Jinping e, ancora una volta, con la Russia di Putin”.

C’è poco interesse, come è sempre stato, per i diritti umani in Turchia, a partire dalla questione curda e dal leader del PKK Öcalan: l’interesse è geostrategico. Il ‘tonfo’ della Lira turca si spiega così e ce lo spiega molto bene Aletta nel suo editoriale su Milano Finanza (11 agosto) di cui riportiamo ampi stralci.

Il problema, ancora una volta, non sono state le finanze pubbliche in disordine: il deficit annuo non è mai andato sopra il 2,9% del pil, percentuale che sarebbe raggiunta solo quest’anno dopo essere stata sempre intorno al 2,3% sin dal 2012, mentre addirittura l’anno prima si era sfiorato il pareggio di bilancio. Anche il debito pubblico di Ankara è sempre rimasto a livelli ultra rassicuranti, secondo gli standard previsti dal Fiscal Compact: è stato ridotto costantemente a partire dal 2009, quando era pari al 43,8% del pil, per arrivare al 27,8% di quest’anno.

Il ritmo di crescita del pil turco è stato paragonabile solo a quello della Cina: +8,5% nel 2010, +11.1% nel 2011, +4,9% nel 2012, +8,5% nel 2013, +5,2% nel 2014, +6% nel 2015, +3,2% nel 2016, +7% nel 2017, +4,1% quest’anno. La enorme differenza con la Cina è stata rappresentata daI conti esteri, strutturalmente negativi: il saldo della bilancia dei pagamenti correnti è sempre stata passiva sin dal 2002. Negli anni della crisi la situazione è continuamente peggiorata: il picco negativo fu toccato nel 2011, quando il saldo fu di -74,4 miliardi di dollari, pari al -8,9% del pil. Nonostante il miglioramento di circa un punto di pil annuo realizzato da allora fino al 2015, quando i valori si assestarono rispettivamente a – 32,1 miliardi di dollari, pari -3,7% del pil, successivamente si è verificato un nuovo trend di peggioramento, con il risultato negativo previsto per quest’anno in -49,1 miliardi di dollari, corrispondenti al -5,4% del pil. In totale, tra il 2008 e quest’anno, il saldo negativo della bilancia dei pagamenti correnti è stato di 486 miliardi di dollari, accumulando anno dopo anno una percentuale sul pil pari al 57%.”

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“La svalutazione della lira turca non è stata in grado di compensare lo squilibrio dei conti con l’estero, ma ha alimentato l’inflazione interna Per contrastarla, sono stati aumentati inutilmente i tassi di interesse. Occorreva mettere un freno agli impieghi, non limitarsi ad aumentarne il costo.

Ora, l’Amministrazione americana ha raddoppiato i dazi sulle importazioni dalla Turchia, portandoli quelli sull’alluminio al 20% ed al 50% quelli sull’acciaio: la svalutazione della lira turca sarebbe stato uno strumento distorsivo del mercato. C’è dell’altro. La Turchia è stata, insieme all’Argentina, l’ospite d’onore all’ultima riunione dei Brics: una alleanza antitetica agli Usa. Ankara spera, o forse si illude, di ricevere un aiuto finanziario da parte della Cina per superare lo stallo della sua moneta sui mercati e la manifesta ostilità americana.

La tensione con gli Stati Uniti è salita di continuo: di recente, a causa dell’imposizione, da parte di Washington, di sanzioni ai danni dei ministri turchi della Giustizia e dell’Interno per il caso Brunson, il pastore cristiano evangelico della Carolina del Nord detenuto in Turchia dall’ottobre 2017 con l’accusa di spionaggio e terrorismo, per avere legami sia con il partito filo curdo PKK, sia con la organizzazione terroristica FETÖ, sostenuta dal predicatore islamico Fethullah Gulen, che Ankara considera responsabile del fallito tentativo di golpe del 15 luglio 2016. La Turchia ha replicato, imponendo sanzioni simmetriche nei confronti di due alti funzionari americani.

L’intervento autonomo di Erdogan in Siria, a fianco della Russia nonostante qualche screzio, non è garbato agli Usa. I Peshmerga, forza militare del Kurdistan irakeno, vengono sostenuti da Washington ma combattuti da Ankara: il pericolo di una secessione territoriale è sempre stata un pericolo per l’integrità della Turchia. Parimenti, non sono piaciuti agli Usa gli ammiccamenti sul Blue Stream per portare gas russo in Europa passando per il Mar Nero. Ancor meno deve essere andata giù la preferenza espressa nello scorso mese di aprile alla fornitura di missili russi SS-20 rispetto ai Patriot statunitensi.

A partire dal fallito colpo di stato dell’estate 2016, i rapporti si sono progressivamente deteriorati. Anche la Turchia è nella morsa di uno scontro geopolitico globale: ogni mezzo per combattersi sembra ormai divenuto lecito.”