Gaza. La storia si ripete e le parole mancano

di Manuela Palermi, segreteria nazionale PdCI, per Marx21.it

gaza-womanLa storia si ripete e le parole mancano. O, meglio, mancano parole “nuove”, non ripetute da anni ed anni ad ogni strage, sulla criminale politica israeliana, sulla caccia continua ai palestinesi, utilizzati come laboratorio per le armi e per i giochi elettorali: più palestinesi ammazzi, più voti otterrai alle prossime elezioni…

Parole nuove non ce ne sono per una carneficina senza fine che torna puntuale ad ogni elezione e si nutre di cadaveri e sangue. Ma è proprio la ripetitività dell’orrore che sta incrinando qualcosa nel granitico muro dell’implacabilità israeliana. Israele è convinto di essere il fronte dell’Occidente contro l’Oriente. L’unica democrazia dell’area, come ci ripetono fino alla nausea i Pannella, i Ferrara e molti altri. Non a caso ha avuto e continua ad avere il massiccio appoggio occidentale. Anche dall’Unione Europea, fresca di Nobel per la pace. Israele può “esagerare”, ma va protetta. Da cosa, da chi? Da un popolo su cui sperimenta le sue politiche razziste e l’enorme e raffinato armamento finanziato dagli Usa e dalla Ue? Da un popolo che chiede di vivere con dignità, di potersi spostare con libertà, di condurre una vita normale di lavoro, di fantasie, di sogni? 

Per Israele, Gaza non è un paese né una striscia di terra ed ancor meno una comunità di esseri umani. Gaza è un investimento. Israele non fa una politica genocida, come molto spesso affermiamo. Israele vuole ammazzare un bel po’ di bambini palestinesi, ma non tutti i bambini palestinesi. Vuole distruggere scuole ed ospedali, ma lasciando una speranza di sopravvivenza. Vuole assottigliare la popolazione, ma non sterminarla tutta. Perché Gaza è molto importante per Israele ed è bene che continui ad esistere. Non importa in quali condizioni. Gaza è l’orinale dove i governi israeliani scaricano gli istinti più bassi, è il debole da colpire quando non si riesce a colpire il forte, è la discarica dove seppellire le proprie miserie, è un video gioco militare, è l’ostaggio di ogni negoziato… E’ la condizione, in un complicato sistema di respirazione assistita, di conservazione dello Stato israeliano.

Come amano dire i politologi, Israele manda “messaggi”. Messaggi così prevedibili che non serve un esperto per decifrarli. Ne manda agli elettori israeliani perché capiscano che fortuna è avere un governo implacabile con i nemici. Ne manda all’Egitto e a tutti i paesi musulmani, dalla Tunisia alla Turchia, perché la cosiddetta primavera araba non intacchi gli antichi rapporti. Ne manda all’Iran, a Obama, a tutti: Israele è il popolo errante e perseguitato dal mondo ed è disposto a tutto – bombe, assassinii, guerre – perché le cose restino tali, e lo fa infischiandosene del diritto internazionale, delle regole umanitarie, degli equilibri diplomatici, del pragmatismo politico, della morale comune.

Ravvivare la memoria dell’Olocausto per riaccendere consenso attorno a sé è una costante nelle forme di manipolazione della politica israeliana. I razzi malmessi di Hamas diventano l’eco delle camere a gas e della persecuzione. E così il gigantesco e super tecnologizzato apparato militare israeliano difende il suo popolo spargendo una pioggia di fuoco chirurgicamente infanticida. Israele invia da Gaza un messaggio a tutto il mondo perché la storia possa continuare a ripetersi senza tentennamenti e intromissioni.

Eppure, forse, per la prima volta dal 1948 si avverte una tensione. Perché sotto le ipocrite dichiarazioni dell’Occidente (“una reazione esagerata, ma Israele deve pur difendersi..), c’è oggi un’inquietudine insolita, una reazione non priva di disgusto. Israele è meno tranquillo e forse un po’ più isolato, più debole. Potrebbe essere una buona notizia. Ma non c’è da farsi troppe illusioni. Perché se c’è un pericolo per la pace mondiale, esso sta nella straordinaria capacità e determinazione con cui il governo israeliano sa trasformare una buona notizia nella peggiore possibile. Ed ecco allora i bambini morti, le case distrutte, le famiglie sconquassate.

A quel punto non saranno le parole nuove a mancare. Ma le parole.