Afghanistan, i negoziati con i Talebani.

talebani afghanistanRiceviamo e volentieri pubblichiamo

di Maria Morigi

Oggi in Afghanistan i Talebani controllano oltre la metà del territorio grazie al successo conseguito nella fase più calda della ‘guerra umanitaria’ di USA e alleati NATO , combattuta tra il 2006 (anno della riscossa talebana dopo la caduta del regime nel 2001) e il 2014 (anno in cui si completò il ritiro delle forze da combattimento alleate). E attualmente gli USA stanno negoziando un accordo con i Talebani che spianerà loro la strada per il governo di Kabul (elezioni presidenziali il 28 di settembre 2019). Andranno sprecati e vanificati in tal modo 18 anni costati tanto sangue (per lo più afghano), e si provocherà, probabilmente, un gigantesco esodo da Kabul (ricordiamo Saigon nel 1975). Soprattutto si confermerà che le potenze occidentali hanno il brutto vizio non solo di innescare inutili guerre, ma anche di abbandonare gli alleati regionali, senza essere in grado di reggere il peso e le conseguenze di un conflitto.

La diga di Kajaki sul fiume Helmand e l’operazione Eagle’s Summit.

Facciamo un passo indietro al 2008 per capire ruoli e strategie della guerra ‘inutile’.

La costruzione della diga di Kajaki cominciò negli anni ‘50 grazie agli aiuti statunitensi. Era un tassello nel gioco tra Stati Uniti e Unione Sovietica per la conquista dell’Asia centrale. Nel 1975 le due turbine cominciarono a produrre energia irrigando 1800 kmq. di terra arida, ma solo quattro anni, senza che la diga fosse completata, gli USA furono estromessi dall’invasione sovietica dell’Afghanistan. Il progetto di ricostruzione della diga era dunque auspicato dagli strateghi Nato già molto prima di Obama: aveva lo scopo di “conquistare le menti e i cuori” della popolazione locale che –immaginavano gli strateghi- sarebbe senz’altro insorta contro i Talebani in vista dei vantaggi all’agricoltura e alle coltivazioni di oppio.

Nelle mani dei Talebani infatti la diga non serviva per l’irrigazione, al contrario costituiva solo un’arma contro l’Iran, poiché i territori persiani a valle potevano essere ridotti alla completa siccità con la chiusura dell’acqua. Dal 2001 la diga era nella lista dei bersagli dell’aviazione americana, ma in seguito Kajaki divenne il perno intorno al quale avrebbe dovuto ‘girare’ il nuovo Afghanistan auspicato dagli strateghi. I Talebani, da parte loro, secondo la teoria “non ci serve l’elettricità, abbiamo l’Islam”, sembravano decisi a distruggere questo simbolo del progresso. Ciò spiega le violente battaglie intorno alla diga, cruciale per i piani di ambedue i contendenti, e culminate nel 2007 quando ben 700 insorti afghani, uzbeki, pakistani e ceceni si scontrano con le forze Nato, che aveva iniziato l’azione di riconquista della diga sotto la sigla “operazione Kryptonite”.

Tra agosto e settembre 2008 la diga è teatro della spettacolare “operazione Eagle’s Summit”(Oqab Tsuka propagandata in lingua Pashtun nei volantini Nato). Dopo che l’agenzia USA di cooperazione aveva riavviato le due turbine installate quasi mezzo secolo prima, 5000 uomini, soprattutto britannici, vengono inviati nel territorio di Kandahar e dell’Helmand controllato dai Talebani, zona catalogata come più pericolosa di tutto il paese, a consegnare una nuova colossale turbina da 200 tonnellate (prodotta da una società cinese) che avrebbe portato luce, lavoro e modernità agli Afghani. Ma nei pressi di Kajaki non c’è aeroporto, quindi la turbina, arrivata alla base americana di Kandahar, deve essere trasportata per 200 chilometri lungo la statale 611 che è disseminata di esplosivi e di residui di mine antiuomo e anticarro dell’epoca sovietica. Per risolvere il problema, gli esploratori dei parà inglesi individuano un passo tra le montagne che avrebbe permesso al convoglio di deviare lungo una strada resa praticabile per i mezzi pesanti dagli ingegneri della Nato e ribattezzata in codice Route Harriet. Di questa strada verso il deserto i Talebani non devono assolutamente venire a sapere. La notte del 27 agosto 2008, mentre la turbina – sezionata in sette parti da circa 30 tonnellate ciascuna – lascia l’aeroporto di Kandahar con un’ imponente scorta, gli elicotteri britannici scaricano truppe a Kajaki, per dare l’impressione di attendere l’arrivo di un convoglio lungo la 611. La stessa notte 150 parà, spalleggiati da 400 soldati afghani addestrati dal Royal Irish, si lanciano verso le linee talebane lungo la strada, per spingere i Talebani verso l’interno. Mentre il convoglio della turbina avanza con disperante lentezza lungo la Route Harriet, la 611 diventa un inferno: gli elicotteri Apache martellano le posizioni dei Talebani e le aviazioni francese, olandese e americana sganciano un profluvio di bombe, un finto convoglio di danesi si spinge avanti lungo la 611 attirando su di sé il fuoco nemico. Intanto il corteo della turbina conclude la sua marcia, coprendo gli ultimi chilometri lungo la statale ed entrando, finalmente, il 2 settembre nella centrale di Kajaki. Secondo il comandante delle truppe britanniche in Afghanistan “Questo è l’inizio della fine della guerra”.

L’operazione segreta Eagle’s Summit è citata nei manuali dell’esercito britannico come la più impegnativa e brillante operazione condotta dalle truppe di Sua Maestà dopo la Seconda Guerra mondiale: 250 Talebani eliminati a fronte di un solo soldato inglese ferito. Passerà alla storia anche come quella più inutile. Anni dopo la turbina giace ancora inscatolata nei depositi. Gli ingegneri cinesi che dovevano installarla sono scappati, nessun altro appaltatore si è mai fatto avanti per completare l’opera…

I vari interventi nell’Helmand sono stati in realtà la rovina delle truppe britanniche che insieme agli USA hanno perso in questa zona un terzo dei propri effettivi in nove anni di guerra. E la situazione è peggiorata proprio dopo Eagle’s Summit, perché lo sforzo dedicato a Kajaki ha lasciato scoperte intere aree della provincia dove i Talebani si sono radicati. Così, dopo aver speso quasi 100 milioni di dollari per riavviare la diga e modernizzarla, gli USA si sono dovuti accontentare di piccoli progetti energetici in altre aree del paese. Kajaki comunque eroga circa 30 megawatt di elettricità, ha fatto nascere diverse piccole industrie e permette di irrigare i campi, ma le bollette vengono incassate dai Talebani. Più elettricità c’è, più i Talebani sono ricchi: questa è la realtà nella regione dell’Helmand dopo la memorabile impresa Eagle’s Summit.

Energia e piantagioni di oppio

A Kandahar, dove la luce portata dalla Nato doveva ribaltare le sorti della guerra, ancora oggi agiscono separatamente due distinti gruppi di esattori in un’accorta gestione parallela: uno del governo e l’altro dei Talebani. Per i contadini conviene pagare la bolletta ai Talebani piuttosto che agli esattori governativi, siccome i Talebani applicano più modernamente una ‘tariffa piatta’ di circa 12 dollari al mese. In tal modo il governo della provincia si è potuto calcolare che perde alcuni milioni di dollari all’anno!

La famosa conquista dei cuori e delle menti si realizza con gli interruttori dei Talebani, ed è anche una loro vittoria politica perché ritengono di avere tutto il diritto di riscuotere i pagamenti. Il governo nell’Helmand sono loro, i Talebani, e non le “marionette di Kabul”, dicono. Di fatto, se volessero, potrebbero sospendere l’energia ad ospedali, scuole e ad ogni servizio pubblico.

Se poi vogliamo più chiaramente parlare di lucroso narco-traffico, la partita dell’oppio si gioca proprio nel territorio dell’Helmand che ha circa la metà della produzione afghana di oppio. In questi ultimi dieci anni in Afghanistan, le piantagioni di oppio hanno superato le aree di produzione di coca di tutto il Sud America, vantando l’85% dell’eroina mondiale. Un giro d’affari di miliardi di dollari secondo l’annuale rapporto Sigar (Ispettorato generale per la ricostruzione dell’Afghanistan) e i servizi antidroga russi. Tonnellate di eroina purissima invadono i mercati della Russia, dell’Asia e dell’Europa. Una crescita del 49 % tra il 2012 e il 2013, stando al rapporto Sigar del 2014 al Congresso americano. Secondo l’ultimo rapporto Sigare i dati presentati dall’Unodc, l’Ufficio Onu per la lotta al crimine e al traffico di droghe, nel 2017 i coltivatori di papaveri hanno stracciato ogni record precedente e raggiunto le 9000 tonnellate di produzione di oppio: l’87% in più rispetto al 2016. In Afghanistan sono prodotti i due terzi dell’eroina mondiale e il 95% della droga che circola in Gran Bretagna.

Secondo un documento reso noto dalla BBC, grazie al Freedom of Information Act, il 60% della polizia di quelle zone e l’esercito afghano consumano regolarmente stupefacenti. I motivi dell’incremento indicati dall’Onu sono molteplici: la crescente instabilità politica ha provocato lo spostamento nelle aree urbane del controllo dei gruppi antigovernativi, la povertà crescente consente una maggiore disponibilità di manodopera a basso costo per il raccolto, la migliore organizzazione tecnologica dei coltivatori con irrigazione dei campi con pompe alimentate da pannelli fotovoltaici e, da non sottovalutare, l’ uso mirato di fitofarmaci nell’evoluto Occidente.

Un’altra guerra e un’altra pace perse dall’Occidente

Il risultato dell’intervento Nato in Afghanistan è che signori della guerra e signori della droga, protetti da molti politici all’interno del governo afghano e delle istituzioni, hanno stretto alleanza tra loro e dato campo libero ai trafficanti di droga. Perché l’Afghanistan post-talebano rimane un paese dove, esportata la democrazia, le ricchezze sono gestite o sottratte in modo parassitario e predatorio da forti gruppi di interesse (anche multinazionali) che mescolano politica, affari, corruzione e guerriglia. E non c’è da stupirsi se ormai sono periodici e ripetuti gli attentati, di cui il più recente a una festa di matrimonio a Kabul (17 agosto 2019) rivendicato non dai Talebani ma dall’Isis-Khorasan: 63 morti e 182 feriti.

Ma dopo aver perso la guerra in Afghanistan con l’affrettato ritiro delle forze da combattimento tra il 2011 e il 2014, oggi sui due lati dell’Atlantico sembrano tutti ben determinati a perdere anche la pace.

Cito da Andrea Carati “Accordo USA-Talebani e ritiro: in Afghanistan è finita la guerra?” ISPI, 30 gennaio 2019: “Il tipo di accordo che si profila con i Talebani, da almeno dieci anni considerato da molti osservatori come inevitabile per immaginare una qualche forma di exit strategy, ci dice inequivocabilmente che la guerra è persa. Non solo perché scendere a patti coi talebani è di per sé l’ammissione che l’illusione di averli cancellati dalla geografia politica dell’Afghanistan è stata credibile solo per un paio d’anni nel 2002-2003, a seguito dell’operazione Anaconda che sembrava averli dispersi o almeno cacciati definitivamente nelle aree tribali pakistane. Nel decennio successivo (2004-2014) a quell’illusione si è sostituita una speranza: ammesso il ‘ritorno’ dei talebani, l’obiettivo è diventato quello di sconfiggerli militarmente, o almeno contenerli e logorarli al punto di indebolirli al tavolo di un negoziato, che dal 2008 si ritiene sostanzialmente inevitabile

E infatti il 27 luglio del 2019 il portavoce di Abdullah Abdullah, amministratore delegato della Repubblica afghana e numero 2 di Kabul dopo il presidente Ghani, ha annunciato porte aperte per i Talebani che potranno partecipare alle elezioni presidenziali se si sederanno al tavolo dei negoziati con il governo di Kabul. Le elezioni per scegliere il nuovo presidente sono fissate il 28 settembre. Inoltre il ministro per gli Affari di Pace, Abdul Salam Rahimi, ha affermato che una delegazione di 15 funzionari del governo incontrerà i Talebani in Europa. I Talebani sembra stiano trovando importanti intese anche nei colloqui di Doha, in Qatar, con Zalmay Khalilzad – attuale negoziatore da parte americana con i Talebani e precedentemente nominato da G.W. Bush Special Assistant del presidente per l’Asia meridionale e Vicino Oriente– al fine di tenere i “terroristi” fuori dall’ Afghanistan, di fatto a non dare più asilo ad al-Qaeda o ad altri movimenti jihadisti. In cambio gli USA ritirerebbero le loro truppe dal paese (circa 15.000 militari), seguiti dagli altri contingenti occidentali (8.000 militari tra i quali 700 italiani).

La campagna mediatica imbastita da USA e Nato dal 2010 al 2014 tesa a convincere il mondo che le truppe alleate potevano ritirarsi perché le forze afghane erano diventate capaci e autonome e sarebbero riuscite a contrastare da sole i Talebani, fu dunque una bugia funzionale al ritiro delle forze combattenti Nato. In realtà le truppe afghane non erano affatto in grado di rimpiazzare le guarnigioni alleate, e tuttora militari e poliziotti afghani (non solo consumatori abituali di oppio, ma in gran parte analfabeti) rimangono vittime dei frequenti attentati.

Ciò nonostante il governo Trump e quello afghano rilasciano ora dichiarazioni congiunte ad accelerare gli sforzi diplomatici per “arginare lo spargimento di sangue”. Il presidente Ghani e il segretario di Stato americano Mike Pompeo concordano che “è giunta l’ora di accelerare gli sforzi per raggiungere la fine negoziata della guerra in Afghanistan”. C’è fretta, bisogna andarsene al più presto da questa partita. E ora, accantonato il vanto di aver esportato la democrazia, l’ impero del Bene negozia proprio con lo stesso regime e i peggiori nemici che nel 2001 diceva di aver sconfitto… tutto da rivedere dunque il limite al Male Assoluto!.

Parte del testo è tratto, ridotto e aggiornato dal libro di Maria Morigi “IL PATRIMONIO DELL’UMANITÀ geopolitica, civilizzazioni, ricerca archeologica in Asia Centrale e Afghanistan”, II PARTE: AFGHANISTAN, il Paese mai conquistato , Cap 2 – “Prima e dopo l’importazione della democrazia “, pag 126 e seguenti (Anteo ed. 2017)